
L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)
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Elisa Giacone è il titolo di un romanzo del Professor Giovanni Azara. Il titolo riporta il nome della protagonista femminile dell’opera. Elisa è l’unica nipote ed erede di Elio Giacone che, dalla condizione del piccolo commerciante per sopravvivere, ha percorso una lunga strada ascendente di rapido successo economico, passando dal commercio del carbone a quello del sughero. Il commercio del sughero in Sardegna è sempre stata un’iniziativa importante gestita, per lo più, dagli imprenditori della Gallura. Elio Giacone ha avuto la capacità e la fortuna d’inserirsi in questa categoria di commercianti privilegiati dalla buona sorte negli affari. Fonda un’impresa commerciale che diventa molto importante e redditizia.
La storia, lunga e complessa, viene da lontano. Inizia nei tempi di miseria e di povertà economica generalizzata, antecedenti la Prima Guerra Mondiale. Elio Giacone, da comune cittadino, per vivere e mandare avanti la famiglia svolge il suo lavoro da piccolo commerciante di uova, galline vive e caciocavallo. Compra la merce a buon prezzo negli stazzi della Gallura, la porta in barcone nella città di Marinaraa (situata nell’arcipelago maddalenino) per rivenderla nel mercato cittadino. Un giorno fa una conoscenza importante con un compagno di viaggio che si chiama Emilio Solari. Compiono la breve traversata insieme parlando, del più e del meno, intorno alle attività lavorative che ciascuno di loro svolge ogni giorno. A un certo punto, forse sembrandogli troppo misera l’attività commerciale di Giacone, Solari gli fa una battuta:” Avete mai provato a vendere carbone di legna?”. Elio gli risponde di no e aggiunge che ha sempre preferito trattare con i generi alimentari. L’amico gli consiglia d’intraprendere il commercio del carbone che è molto richiesto sul mercato, sia per i consumi domestici, sia per altre altre attività industriali, per cui consente di realizzare ampi margini di guadagno. In modo particolare gli consiglia il carbone ricavato dalle ciocche di erica, chiamato anche oro nero come altri definivano il petrolio, perché utilizzato dai fabbri per attivare il focolare della forgia nella loro fucina. I due fanno conoscenza con le rispettive famiglie, l’amicizia s’intensifica e si scambiano anche inviti conviviali.
Ascoltando i consigli dell’amico, Elio incomincia a commerciare il carbone. Gli affari vanno bene, le commesse si moltiplicano e la Ditta Giacone va incontro a un progressivo sviluppo. L’attività industriale si consolida e si assesta a livello produttivo ottimale.
Quando fiuta un probabile calo del prezzo del carbone, Elio cambia attività e incomincia a intraprendere il commercio del sughero. A quei tempi i commercianti di sughero in Gallura facevano affari d’oro. L’impresa Giacone espande il suo sviluppo ulteriormente. Gli affari vanno a gonfie vele, l’azienda si arricchisce e si consolida. Allora si pone il problema dell’investimento del grande capitale. Per investire i guadagni, Elio acquista diversi negozi di abbigliamento in Sardegna e a Roma, e li affida in gestione a persone di sua fiducia. Si moltiplicano gli affari, cresce la ricchezza , si consolida la proprietà. Elio costruisce una grande casa, con tutti i confort per sé e per i due figli, entrambi sposati con donne romane, Carlo con Francina, Raimondo con Susanna. Questi ultimi non hanno figli. Invece, dal matrimonio di Carlo con Francina nasce lei, Elisa, figlia unica, intelligente, coccolata, bene educata, indirizzata agli affari fin da piccola. Ella compie il suo primo tirocinio imprenditoriale come collaboratrice nell’amministrazione dell’azienda di famiglia diretta dal nonno Elio. Ma la famiglia vuole che lei abbia una formazione culturale completa, perciò la ragazza frequenta, prima la scuola media nell’isola, poi l’Istituto Magistrale a Roma, dove consegue il diploma di abilitazione magistrale, ma non esercita mai la professione di maestra. Ella preferisce fare la dirigente d’azienda del grande patrimonio familiare.
Intanto giunge la guerra e con essa piovono le bombe che portano distruzione e morte ovunque, tra i soldati arruolati nelle forze armate e anche tra la popolazione civile. Le città si svuotano, le case vengono abbandonate dagli abitanti in fuga per sfuggire alle bombe, gli sfollati si rifugiano in alloggi di fortuna nei villaggi e nelle campagne. Anche gli abitanti di Marinara, compresi i membri della famiglia Giacone, abbandonano la città e si rifugiano negli stazzi della vicina Gallura.
Per le difficoltà di approvvigionamento dovute agli eventi bellici vengono a mancare il pane, la pasta e gli altri generi di prima necessità, per cui la gente sperimenta il bisogno, le privazioni e la fame. Lo Stato ricorre al sistema dell’ammasso delle derrate alimentari e alla tessera annonaria per un’equa distribuzione dei viveri tra la popolazione civile. Inoltre, per affrontare le necessità della popolazione, requisisce parte delle risorse sovrabbondanti dei privati, i quali, per non lasciarsi sottrarre le scorte di vivande, nascondono la merce in mille modi diversi. Per procacciarsi gli alimenti molti ricorrono ai sotterfugi del mercato nero. Si creano spostamenti della popolazione, disagi e disordini sociali. In questo marasma generale le amiche e vecchie compagne di scuola di Elisa: Milena, Lina e Rosa scompaiono dalla vita del paese e non si sa che fine abbiano fatto. Elisa le cerca dappertutto e, con la collaborazione di esperti investigatori, viene a sapere che esse hanno preso una brutta strada. Allora decide di salvarle a tutti i costi dalla perdizione. Le cerca, le trova e le convince ad accettare, prima l’ospitalità della sua famiglia, poi la sistemazione abitativa in locali della loro nuova grande casa, assumendole a lavorare come collaboratrici nelle molteplici attività commerciali dell’impresa familiare. Un aspetto particolare da mettere in evidenza in questa storia è la generosità di questa famiglia. Infatti, diventati ricchi imprenditori, i Giacone non sono i soliti egoisti, avidi e insaziabili di ulteriori ricchezze da tenere tutte per per se stessi, ma sono buoni d’animo, amano il prossimo per cui decidono di svolgere attività benefiche e filantropiche a favore dei poveri e degli emarginati. Elio Giacone e i figli, Carlo e Raimondo e la nipote Elisa sono persone buone d’animo, generose e vogliono fare del bene a tutti quelli che si trovano in difficoltà.
Nel racconto del romanzo, il capostipite Elio e l’intraprendente nipote, Elisa, sono le figure più importanti della storia di questa famiglia che, inizialmente viveva, come tante altre, nella mediocrità della vita provinciale; poi, per meriti personali e colpi della fortuna, ha realizzato un piccolo impero economico e, contestualmente, ha compiuto una notevole ascesa sociale. La famiglia si è arricchita in poco tempo grazie al commercio, nelle cui attività hanno collaborato attivamente anche i figli, Carlo e Raimondo, le loro mogli e gli altri componenti del clan familiare. L’evoluzione economica e lo status sociale della famiglia ha fatto importanti progressi negli affari e ha migliorato la qualità della vita delle persone. Col passare del tempo e con il mutare delle circostanze, Elisa assume sempre più un ruolo determinante nella ditta Giacone. E’ quasi costretta dalle circostanze ad assumersi le responsabilità manageriali dell’impresa. Il nonno Elio invecchia e diventa sempre meno adatto a muoversi, a occuparsi dei molteplici problemi della proprietà immobiliare che possiede nell’isola e nella Capitale. Il padre Carlo muore in un incidente causato dall’improvviso crollo di un muro in una delle loro case di Roma.
A questo punto non possiamo sottrarci dal fare una considerazione di carattere generale: la famiglia Giacone è stata molto fortunata negli affari; ma la stessa cosa non può dirsi nel potenziamento della componente umana della famiglia. Anzi, a questo riguardo, si può dire che essa evolve in direzione opposta al successo economico e al tenore della vita familiare. Infatti, come cresce la ricchezza e i Giacone si trasferiscono nella Capitale per condurre una vita più agiata tra la borghesia cittadina, inizia il declino della famiglia stessa. Proprio allora, ahimè, incomincia la parabola discendente del clan Giacone. Proprio allora incomincia a diminuire il numero dei componenti del clan per la lenta estinzione degli adulti, non compensata dal ricambio di nuove nascite. Alla fine resterà lei, Elisa, l’unica sopravvissuta, imborghesita nella civiltà urbana della grande città. In età matura intraprende una relazione amorosa con un giovane marinaio, Salvino, già sposato, separato dalla moglie e in attesa della legge sul divorzio per poter sposare Elisa. Purtroppo muore prima dell’approvazione della legge, prima che la coppia possa coronare il suo sogno d’amore. Comunque, dalla loro relazione era nata la figlia, Salvina, che crescerà senza la figura del padre. Sarà la madre guidarla nella crescita e nel processo della sua formazione, portandosi dietro l’eredità materiale e morale della stirpe Giacone.
La storia del romanzo è impostata sull’ascesa economica e sull’evoluzione umana di una famiglia gallurese del secolo scorso. La trama del racconto è ricca di avvenimenti e molto articolata al suo interno. Si tratta di una saga familiare, già lunga e complessa in se stessa, in cui s’inseriscono a grappolo tante altre storie minori e parallele con altri personaggi che spesso rappresentano figure emblematiche della comunità, come il prete don Capello o il maresciallo dei carabinieri Koda. I personaggi e le vicende nella scena crescono, s’infoltiscono e si complicano continuamente. Ma tutti i fatti sono sempre collegati, in qualche modo, alla storia principale della famiglia Giacone.
L’opera è molto ricca di fatti, di avvenimenti e di storie, che si susseguono a ritmo intenso e incalzante, dove c’è il rischio che al lettore sfugga sempre qualcosa. In ogni pagina c’è una sorpresa da scoprire. Le figure che si avvicendano e si aggrovigliano sulla scena sono moltissime e ciascuna di loro ha il suo carattere, il suo temperamento, a volte pacato e razionale, a volte impulsivo e sanguigno, per cui, in certi momenti si lasciano vincere dall’impulso del piacere passionale.
Un po’ tutte le figure presenti e, in modo particolare, i protagonisti principali, Elio ed Elisa, nonno e nipote, sono animati di buoni sentimenti verso gli altri e di sincero amore verso il prossimo, verso i più deboli e i diseredati, nei confronti dei quali svolgono rilevanti attività caritatevoli e filantropiche. Il libro canta un’epopea economica, sociale e antropologica, l’era storica e culturale del del ventesimo secolo.
“Perché la Filosofia” è un saggio di filosofia moderna del Prof. Armando Rigobello. L’Autore fa un compendio critico della storia della filosofia, soffermandosi a commentare, in maniera sintetica, quelle parti che riscuotono il suo maggiore interesse teoretico. Fa incursioni nelle varie correnti filosofiche, tra cui, l’età greca classica con Socrate, Platone e Aristotele; l’Illuminismo, con in riferimento all’Etica di Spinoza; l’Idealismo romantico di Hegel; l’Esistenzialismo di Heidegger ; il Personalismo cristiano di Mounier. Si tratta di un’opera molto interessante perché offre un quadro retrospettivo, chiaro e sintetico, della cultura filosofica. Un manuale di consultazione, un promemoria che, chiunque abbia interesse allo studio e alla conoscenza, dovrebbe avere a portata di mano.
La filosofia, secondo Aristotele, nasce dalla meraviglia, dallo stupore che l’uomo prova quando si sofferma a contemplare il mondo che lo circonda. Il tentativo di spiegare questo stupore dà luogo alla speculazione filosofica.
Secondo alcuni pensatori, la filosofia anticipa, sotto forma di costruzioni concettuali, ciò che la scienza successivamente chiarisce con i suoi modelli connessi all’esperienza. Ma se le cose andassero in modo così semplice, la filosofia esaurirebbe la sua funzione entro un breve spazio teoretico, segnato dall’orizzonte epistemologico perché la scienza prenderebbe il suo posto in toto.
Tuttavia, se davanti al mondo che contempliamo continuiamo a provare meraviglia e il nostro stupore non cessa d’ interpellarci, ciò vuol dire che dobbiamo esplorare nuove possibilità di significato, non riducibili alla asettica indagine scientifica.
Fritz Waismann, in un suo famoso saggio, sostiene che: “Il filosofo è un uomo che percepisce i crepacci nascosti nell’apparente struttura compatta dei nostri concetti, laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni che hanno davanti”. Ma c’è da chiedersi: la struttura dei nostri concetti è una struttura scientifica, oppure il levigato sentiero dei luoghi comuni? All’opinione pubblica l’esistenza oggi appare un’avventura sotto controllo scientifico di specialisti in tutti i campi del sapere. Ci sono psicologi, psicoanalisti, pianificatori, che, insieme alle agenzie di assicurazione, agli ordinamenti giuridici e alle norme previdenziali, perseguono un controllo scientifico dell’esistenza; quindi una vita spesa a sottrarsi ai rischi dell’esistenza stessa. Ma ecco che arriva il filosofo, questo scomodo uomo che scopre i crepacci. I crepacci sono le sconnessioni del ghiaccio, ma è chiaro che qui il termine è usato in senso metaforico. La parola è usata come metafora linguistica per significare che anche l’apparato logico-teorico della scienza non è compatto, ma presenta anch’esso delle crepe. I rimedi tradizionali ai traumi dell’esistenza, quali la poesia, la speranza religiosa, la disperazione esistenziale e l’irrigidimento nell’indifferenza sono antiche terapie oggi sostituite con le nuove, come la psicanalisi e le compagnie di assicurazione. Ma i crepacci permangono, continuano a stare sotto l’apparente compattezza delle nostre strutture concettuali, nello stesso terreno delle conoscenze scientifiche. La sconnessione qui non sta dentro la struttura concettuale, ma è sottesa, investe la natura del rapporto fra la trama dei concetti e la realtà che intende rappresentare ed esprimere. Nonostante la trama dei concetti appaia connessa, in ogni uomo adulto permane l’eterno fanciullino che trema e che dell’adulto continua a mantenere la lucida consapevolezza. Si tratta dell’avvertimento esistenziale dell’insufficienza del sapere scientifico a coprire ed esaurire tutta la densità della vita. L’uomo di oggi si trova smarrito davanti a certe imprevedibili situazioni della vita e a certi traumi dell’esistenza. E se si trova smarrito è perché la sua mentalità è ormai abituata all’ottimismo scientifico e all’efficientismo tecnico; e queste categorie non sempre sono funzionali a ricompattare le crepe, fronteggiando le emergenze della vita.
Lo stupore originario, per il filosofo greco, è un fenomeno grondante di emozione. La meraviglia ha un senso ampio, gioioso e insieme solenne della realtà, l’avvertimento di qualcosa che ci sovrasta e che ci esalta. L’esistere in se stesso è un fatto, un evento che nessuna trama concettuale riesce a risolvere.
Karl Popper, in riferimento alla frase di Waimann sulla capacità del filosofo di scorgere i crepacci, teme che tale prospettiva si riferisca ai filosofi di professione, gli accademici, mentre la filosofia deve essere un fatto popolare e non di élite. La filosofia è, paradossalmente, ricerca critica e anche il suo opposto: il senso comune e l’intensità esistenziale. I veri avversari della filosofia sono “gli uomini piccoli e cavillosi” di cui parla Platone nel Teeteto, mentre Berkeley li definisce “filosofi al minuto”. Popper aggiunge al riguardo: “Senz’altro la critica è la linfa vitale della filosofia, eppure una critica minuta di punti minuti, senza una comprensione dei grandi problemi di cosmologia, di conoscenza umana, di critica e di filosofia politica e senza un serio tentativo di risolverli, mi pare fatale”.
L’uomo non nasce filosofo, ma lo diventa a partire dalla crisi dell’adolescenza. Finché si vive in spontaneo accordo con la realtà e si è accolti gioiosamente dalla famiglia e dalla vita, la domanda filosofica non sorge. La filosofia compare nelle due età della crisi esistenziale: l’adolescenza e la tarda maturità. In quest’ultima fase la crisi si fa sentire in maniera più profonda che in gioventù.
Per Callicle la filosofia è un semplice esercizio del pensiero per sviluppare il senso critico, uno strumento logico e retorico volto a ottenere la persuasione.
Per Socrate, invece, la filosofia è scelta radicale di fronte alla vita, una messa in questione dell’esistenza, una spregiudicata assunzione di valori non perché tradizionali, ma perché eterni. Il filosofo socratico è un uomo politico, ha la vocazione al governo della città, ma la sua inflessibile condizione che la politica sia tutto uno con la morale e l’esercizio della verità, fa sì che nessun gruppo di potere lo passa accettare nel suo seno.
Indagando sul tema centrale della questione dibattuta, Perché la filosofia?, si può osservare come le due domande filosofiche si raggruppino intorno a due centri focali: il conoscere e l’agire: il problema della vita intellettuale (cosa posso conoscere?) e quello della vita morale (come devo agire?).
Un’altra questione importante da dibattere in sede teoretica è quella dei rapporti tra filosofia e religione. Allora, oltre la questione del sapere e dell’agire, emerge la questione del credere. Il credere implica sperare; e la speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e l’efficacia dell’azione; un ponte lanciato verso l’ulteriorità che oltrepassa il conoscere rigoroso e la disciplina del dovere per situarsi nel vivo contesto di un’esperienza religiosa. La risposta religiosa che riguarda la fede, è per sua natura eterogenea alla domanda filosofica. Ma permane ancora una domanda legittima da fare: che cosa mi è concesso sperare? che rimane un’autentica domanda filosofica, emblematica della condizione umana, colta in una dimensione ancora più profonda delle altre due domande precedenti, relative al conoscere e all’agire. Dal contesto emerge un’invocazione, che non è ancora una preghiera, ma un atteggiamento rivelativo di una struttura aperta, rivolta a un trascendimento che è un elemento costitutivo della stessa condizione umana.
A tutti questi interrogativi si possono dare diverse risposte, tra cui, le seguenti:
La prima è la tipica risposta che il pensiero classico dà agli interrogativi sorti dallo stupore originario. Essa definisce alcune strutture portanti della concezione del mondo e ne indica gli orientamenti fondamentali. È una risposta parziale che si interrompe a livello concettuale, non coinvolge l’esistenza dell’uomo fino alla spiegazione esaustiva.
La seconda è una risposta ideologica. È la risposta tipica delle grandi metafisiche dell’età illuministica e dell’età romantica. Spinoza ed Hegel sono gli autori emblematici di questa posizione. Le loro filosofie sono talmente grandi da superare le condizioni della conoscenza umana. Tuttavia, essendo frutto dell’umano pensiero, si presentano come sistemi ideologici.
Partire dal pensiero in sé come un dato di fatto che tutto giustifica è una grande e solenne esperienza teoretica. In essa possiamo dire con Spinoza sentimus esperimurque nos aeternos esse, ovvero sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Radicarsi in questo pensiero iniziale e totale, assoluto per definizione, è come situarsi al di fuori di ogni precarietà, al riparo da ogni debolezza, disgrazia o mutamento della soggettività. Significa vincere il tempo, superare le suggestioni e raggiungere la “gloria” spinoziana.
Quando poi quest’assolutezza del pensiero non è soltanto more geometrico demonstrata, ma la stessa geometria è percorsa da una dialettica rigorosa, essa diviene more historico demonstrata. L’idealismo trascendentale è questa versione storicistica del pensare come pensare assoluto.
A questo punto viene il dubbio di aver sbagliato tutto per aver iniziato il discorso da un postulato: l’assolutezza del pensiero. Ma l’esperienza esistenziale e la singolarità della persona rimangono elementi non dialettizzabili, resistono alla riduzione alla struttura logica e alla dialettizzazione storicistica.
Dopo queste metafisiche che non soddisfano lo spirito della ricerca, si fa innanzi la protesta dell’esistenziale, della non sopprimibile autonoma espressione della persona.
Dalle poche affermazioni già fatte, appare il volto ideologico di queste risposte metafisiche. Il loro apparato concettuale presenta una logica interna, una rigorosa coerenza, ma ciò che viene messo in questione è il loro effettivo rapporto con la realtà, fattuale ed esistenziale. Queste opere appaiono come dei grandi poemi del pensiero umano, come mondi speculativi a sé stanti, teorie di idee. La pienezza del loro discorso, al vaglio dell’insuperabile precarietà dell’esistenza singola e collettiva, si manifesta come un vuoto formalismo. L’esito formalistico di queste metafisiche immanentistiche denuncia il loro carattere ideologico.
Fallita la via della razionalità piena delle metafisiche moderne, insoddisfatti per la risposta parziale ed astratta della metafisica classica greca, i problemi dell’esistenza, del dolore, della morte, della salvezza personale, permangono. Esse non possono trovare soluzione in forme astratte del pensiero, tuttavia occorre dar loro una risposta; e la risposta che si può dare è il terzo tipo di risposta possibile: la risposta che non è omogenea alla domanda.
La risposta da dare all’interrogativo sorto dallo stupore originario deve essere una risposta oggettiva, che dia il senso totale, definitivo e omnicomprensivo della vita e della realtà. Per essere tale la risposta che si può dare deve collocarsi su di un terreno non omogeneo alla domanda, tale che superi la struttura logica del domandare e del rispondere, su un piano di verità che si riveli, piuttosto che su una verità da scoprire e da dimostrare. La natura della risposta è quella di un messaggio di salvezza, è quindi di ordine tipicamente religioso. La ricerca filosofica allora dev’essere inquadrata tra l’ideologia da un lato e atteggiamento religioso dall’altro.
In origine la filosofia greca appare un’appassionata ricerca per dominare teoreticamente lo “stupore” originario; e questo stupore, che suscita “meraviglia”, può essere superato con l’attività conoscitiva. La ricerca teoretica che scaturisce dallo stesso problema del conoscere, nasce dal bisogno di scoprire gli elementi universali che possono spiegare i fatti particolari: la necessità di dominare il particolare, il frammentario, il transeunte, tutto ciò che fugge nel tempo. E poiché il particolare, il frammentario, il fuggevole si presentano, sia nella natura che nel singolo individuo, la teoreticità greca si articola in due direzioni:
I risultati di questo dominio sono i seguenti:
Tutta la filosofia greca si svolge e si sviluppa intorno a questi due termini, a questi due poli: dalle cosmologie meccanicistiche dei Presocratici alle grandi metafisiche finalistiche successive, mentre la riflessione sulla sostanza si configura come l’eidos (idea) in Platone e come forma in Aristotele. Più tardi questo concetto verrà ripreso e aggiornato da Usserl con il concetto di essenza/oggetto.
La dialettica indica un altro momento della teoresi. Essa esprime il movimento dell’anima per risalire dall’esperienza che muta alla verità (all’idea) che non muta. È circoscritta nella tensione tra l’esistenza e l’idea. È un concetto di chiara derivazione platonica, inteso a sottrarre alla corruzione del tempo la gioia del connubio tra esistenza e perfezione: tutto nasce, si sviluppa e muore; soltanto le idee brillano eterne nella loro immortale giovinezza.
La dialettica è anche lo strumento speculativo per attingere a questa immortalità.
L’altro termine essenziale della teoreticità è l’analitica, concetto di chiara derivazione aristotelica. Conoscere in modo analitico significa togliere il particolare dal suo isolamento per inserirlo in tutte le connessioni possibili, assurgere all’universale. Da questo principio nascono la deduzione definitoria e la dimostrazione. Definire significa applicare l’analitica, cioè precisare il rapporto di un particolare con ciò che esso non è; dimostrare significa rendere evidenti i fondamenti universali da cui il particolare è dedotto. Si può dire che l’analitica è la forma stessa della teoreticità.
Inoltre, il pensiero greco ci ha dato un altro elemento teoretico importante: la scepsi, l’epoché, cioè la sospensione del giudizio. Si tratta del principio di un salutare scetticismo prudenziale che mette in guardia verso le facili e mitiche fedi degli uomini e di tante altre cose caduche dell’orizzonte umano. Quest’atteggiamento può essere utile al pensiero dell’uomo perché può costituire un’apertura alla trascendenza religiosa.
La teoreticità greca è stata una scoperta essenziale del pensiero anche perché ha fondato la mentalità critica; ha messo in luce il carattere non immediato, ma problematico della conoscenza umana. La connessione tra il particolare e l’universale ha dato vita al metodo deduttivo, fornendo gli elementi tecnici della definizione e della dimostrazione; ha fatto presente la sapienziale consapevolezza del limite di ogni umana sistemazione teorica dogmaticamente assunta e mitizzata. La scepsi è decantatrice di ogni chiusura definitiva. Problema, dialettica, analitica, scepsi non sono momenti separati, indipendenti o contradditori tra di loro, ma costituiscono le parti di un organico percorso ideale dell’attività teoretico-speculativa. Il problema è la condizione essenziale della teoreticità, la dialettica è il suo profilo dinamico, l’analitica è la sua struttura interna, la scepsi è l’insegnamento morale che essa reca nei confronti della vita. La teoreticità greca è il dominio sul particolare, sul frammentario, sul fuggevole colti nel mondo oggettivo.
La teoreticità idealistica è invece il dominio sul particolare, sul frammentario, sul fuggevole tipici dell’attività umana e delle vicende storiche. L’oggetto di tale teoreticità non è il cosmo o l’individuo, ma i contenuti empirici, casuali dell’agire umano. Il momento iniziale di questa teoreticità si ritrova nel clima romantico; il secondo momento è costituito dall’elaborazione della nozione di “trascendentale” e della dottrina storicistica. Il trascendentale è la teorizzazione dell’attività umana, lo storicismo è il divenire storico. Questi due risultati, portati al loro consequenziale sviluppo, coincidono.
La teoreticità greca si struttura in funzione di un realismo oggettivo per cui, conoscere è vedere.
La teoreticità moderno-idealistica si struttura invece attorno al conoscere come giudicare. Il giudizio è attività autoponentesi indeducibile. Il posto dell’idea è preso dalla struttura trascendentale. L’analitica, da sistema di rapporti, diventa norma concreta dell’attività pensante. L’intelligibilità si identifica con la trascendentalità. L’identificazione di pensiero e di essere, che nella teoreticità greco-classica è soltanto intenzionale, in quella idealistica diventa reale attraverso la riduzione dell’essere a pensiero e del pensiero alle sue strutture trascendentali. L’essenza della teoreticità, come superamento del particolare e del frammentario in un rapporto logico universale e dotato di necessità, è la stessa, sia nel pensiero greco che in quello dell’idealismo moderno. La diversa natura del particolare e del frammentario da trascendersi, che nella prospettiva greca si riferisce al cosmo, in quella idealistica si riferisce all’attività umana, determina una diversa maniera d’intendere l’universalità: struttura costitutiva dell’essere nel primo caso, norma costitutiva del pensiero nel secondo caso. La conoscibilità del reale, per i Greci è contemplazione, mentre per gli idealisti è atto di giudizio e infine creatività. La critica idealistica all’intellettualismo classico è la critica rivolta dall’intellettualismo trascendentale all’intellettualismo oggettivistico; essa deriva dall’identificazione intenzionale dei due termini: pensiero ed essere.
Il pensiero idealistico-trascendentale, con l’identificazione di pensiero ed essere riproduce, in sede dinamica e storicistica, il monismo metafisico di Spinoza. Non solo, ma l’identificazione di pensiero ed essere diventa la teoria della verità globale e definitiva, diventa cioè ideologia, inganno ordito con gli strumenti di un discorso dedotto da premesse inadeguate.
Passiamo adesso ad analizzare alcuni aspetti della filosofia moderna, in modo particolare nella sua dimensione analitica. Ebbene, pur nell’unità della struttura fondamentale (come trama logica che regge e spiega il fenomeno) essa si diversifica a seconda dei campi di esperienza in cui viene applicata, per cui, abbiamo diversi tipi di analitica. A titolo di esempio, se ne indicano alcuni.
L’analitica esistenziale, per esempio, è il fenomeno dello scorrere della nostra esistenza, il percepirci come viventi, il nostro esserci al mondo. Ciascuno ha il suo mondo, che può essere indagato, espresso in vari modi. Ma al di là di ogni condizione soggettiva, sottoponendo il proprio mondo interiore a una considerazione analitica, si può scoprire l’interna logicità, la struttura portante che lo accomuna agli altri mondi umani, alle più svariate vicende esistenziali di tutti e di ciascun uomo. In relazione a questa struttura costante si chiarisce il valore e il destino della vita umana in se stessa.
Heidegger, per esempio, individua questo destino comune nell’essere per la morte. Alla luce della morte tutte le singole vicende esistenziali evidenziano la comune struttura, che è appunto la finitudine. Allora si rivela la connessione logico-semantica dei nostri atti singoli; dinanzi al destino di morte, di fronte all’ineludibile finitudine, l’esistenza si focalizza in tutta la sua autenticità e distinguiamo in maniera netta ciò che è essenziale da ciò che è inessenziale.
L’analitica del linguaggio, invece, studia l’espressione linguistica. Essa sottopone il linguaggio ad un’analisi chiara delle sue funzioni, che separi l’essenziale trama logica, univoca, rigorosa, dalle ambiguità del linguaggio comune, carico di altre componenti: emotive, psicologiche, mitiche, pragmatiche con cui si esprime ciò che scientificamente non è corretto. Alcune scuole propongono l’uso di un linguaggio perfetto, mutuato dal simbolismo logico-matematico; altre scuole sostengono la tesi, secondo cui, oltre il linguaggio scientifico, bisogna riconoscere l’esistenza di una pluralità di altri linguaggi, distinguendo, tra questi, il linguaggio morale, il linguaggio religioso, il linguaggio giuridico; il linguaggio letterario (lirico e narrativo).
All’analitica va ricondotto anche lo strutturalismo linguistico. In fondo la struttura non è che la trama dei rapporti analitici. Essa è una totalità articolata secondo linee organicamente connesse, la cui dinamica è prefigurata e costante.
Le varie forme di analitica, in cui si articola buona parte del pensiero contemporaneo, rinviano a una considerazione fenomenologica della realtà.
La fenomenologia è il presupposto all’uso metodologico dell’analitica. Essa è il punto di partenza di tanta parte del pensiero contemporaneo. La fenomenologia è un metodo, un atteggiamento, una maniera di guardare il mondo. Essa richiede la “purificazione dello sguardo”, la rimozione di tutto ciò che può inquinare la purezza iniziale della coscienza.
La ricerca fenomenologica, pur nell’accurato rigore del metodo, non sfugge ad una certa ambiguità che in certi casi può essere salutare. Comunque essa offre una serie di dati che devono essere interpretati; la scienza che interpreta i dati è l’ermeneutica. Questa è chiamata anche filosofia dell’interpretazione ed è un’ulteriore via del pensiero contemporaneo. L’interpretazione ha origini lontane nella storia del pensiero. Era stata già praticata nella filosofia greca . Nella patristica si sviluppa come tecnica d’interpretazione dei testi sacri e giunge fino alle complesse tematiche teologiche contemporanee. Non solo, ma come struttura di ricerca, continua a essere praticata anche adesso, oltre che nel pensiero religioso, anche in campo laico come, per esempio, in campo storico-letterario per conoscere la cronistoria di composizione delle opere bibliografiche, in campo psicoanalitico per cercare di tirar fuori ciò che è celato sotto la configurazione dei gesti e dei segni.
Le ricerche analitiche, il metodo fenomenologico, le ipotesi ermeneutiche nel loro complesso disegnano l’ambito e le modalità in cui si muove il pensiero contemporaneo.
La riflessione filosofica sul fatto religioso può diventare un’altra dimensione, addirittura emblematica, delle nuove possibilità di fare filosofia oggi. La riflessione su questa tematica può diventare la struttura portante delle nuove frontiere speculative. Il fatto religioso presuppone una presa di coscienza di trovarsi in condizione di mancanza, di limitazione, di dissenso. Senza dissenso, senza rottura, senza contestazione di quel mondo per cui Gesù non prega, non si dà esperienza religiosa autentica. Infinite sono le implicazioni teoretiche che comporta il dibattito intorno all’universo religioso. Una nota essenziale ad ogni esperienza religiosa è il sentimento di dipendenza di fronte alla realtà ideale, all’Assoluto che costituisce la totalità di significato. Dal senso di dipendenza sorge l’invocazione da cui scaturisce la preghiera. Dipendenza e invocazione scaturiscono dalla “meraviglia”, dallo “stupore” di trovarsi di fronte alla soluzione totale. E’ cosa utile individuare le aree di esperienza in cui si può risvegliare oggi quello stupore da cui, agli albori della civiltà greca, nasce la filosofia. Ma queste nuove possibilità di stupore chiedono di essere dominate da nuovi strumenti speculativi.
La scienza ha la pretesa di esaurire in sé la conoscenza stessa per il fatto di essere oggettivamente verificabile. L’oggettività scientifica è come situata tra due livelli: uno inferiore che è il mondo quotidiano della vita e uno superiore che è l’interpretazione filosofica dell’uomo nel mondo. E’ a questo livello superiore e globale che si decide sul senso o non senso dell’uomo.
Ad un terzo livello di oggettività si perviene ponendoci la non rinunciabile domanda sul senso dell’uomo nella realtà. Ogni filosofia è un’ermeneutica del significato nascosto nel volto prescientifico del mondo e non è esauribile in una prospettiva soltanto. La filosofia non offre un sapere puro cui corrisponda una realtà compiutamente definita, ma prospetta tante letture parziali, dove la verità si dischiude attraverso un conflitto (una comparazione) di interpretazioni diverse. La riflessione filosofica nei confronti della scienza compie un lavoro di superamento, di delimitazione dei confini. Questo lavoro la filosofia l’ha già fatto nei confronti della matematica e della fisica, ancora lo deve definire nei confronti delle scienze umane. Pur rimanendo la prospettiva fenomenologica come termine di riferimento ideale, la nuova riflessione filosofica porta avanti il discorso sul limite del sapere scientifico univoco. Il punto centrale, sotto il profilo teoretico, è il carattere riflessivo del pensiero umano. Pensare è mediare, riflettere: interpretare un dato in sede approfondita, coglierne il significato più autentico, magari, in una seconda lettura. Le vie di accesso a questa ermeneutica si muovono lungo l’itinerario dell’attività simbolica. Il percorso fatto lungo questo itinerario può chiamarsi “lotta per il significato” e venir connotato come “nostalgia dell’Assente”. Nell’atteggiamento ermeneutico del pensiero è evidente la richiesta di significato, richiesta che impegna al faticoso compito di scoprire i simboli e d’interpretarli. In questo faticoso cammino, chiara è l’intenzionalità religiosa di questo fare filosofia come interpretazione: il simbolo, il rimando, il duplice senso sono tutte figure che emergono nitide dall’analisi di un’esperienza del sacro. La presa di coscienza globale di un universo di significati diventa un impegno nello esplicitarli. La vita stessa, intesa come costante attenzione a ciò che dà senso, diviene, se compiutamente realizzata, un’autentica testimonianza di significato.
“Perché la filosofia” Terza Parte (83)
Libertà e solitudine
Il filosofo e letterato tedesco del Settecento, Wilhelm Humbolt, indica la condizione di vita del ricercatore universitario con i sostantivi: libertà e solitudine. Anche nel linguaggio attuale l’espressione è pertinente a connotare il pensatore, il filosofo, lo studioso in genere. Infatti, l’esercizio disinteressato della ricerca, il desiderio del puro sapere isolano colui che intraprende l’avventura teoretica. La libertà del suo inquieto cercare lo rende inadatto alla partecipazione attiva alla vita pubblica e, a limite, alla stessa vita quotidiana con le sue immancabili esigenze di praticità, mediazione e attività operativa. Il vantaggio della libertà di chi si dica allo studio e alla ricerca viene pagato con il prezzo della solitudine, dell’isolamento che, talvolta, rasenta l’emarginazione sociale. La situazione si accentua quando si tratta di stabilire il rapporto tra l’intellettuale e il potere politico.
La logica interna alla dinamica stessa del sapere teoretico rende l’individuo (studioso, ricercatore, filosofo) inadatto al duttile esercizio del potere politico diretto. Questo mestiere richiede mediazione e adattabilità alle varie situazioni, mutevoli o di emergenza, che si presentano nell’esercizio quotidiano dell’attività politica. La storia della filosofia è cosparsa di esempi di rotture dirompenti tra il sapiente e il potere politico, genericamente impersonato dal “principe” o da qualunque altro “gruppo al potere” della città o dello stato: da Socrate che beve la cicuta per non tradire la verità che professa, ad Aristotele che abbandona Atene “affinché la città non pecchi due volte contro la filosofia”; da Seneca che sceglie il suicidio per non sottostare all’ira irrazionale del suo furioso discepolo Nerone, a Spinoza che si chiude, “senza riso, né pianto”, nella fredda ed esaltante solitudine del comprendere. Ma anche quando non si giunge a soluzioni radicali di questo genere, il disagio rimane e diventa habitus mentale dell’atteggiamento del filosofo o del sapiente di turno.
D’altronde, la consapevolezza che il politico ha delle capacità culturali e critiche del filosofo, che in genere sono superiori alla sua per cui costui sarebbe sempre in grado d’insegnargli o di rimproverargli qualcosa, suscita la sua persistente diffidenza nei confronti dell’uomo di cultura, del filosofo in particolare. Anche nella storia del pensiero contemporaneo questa diffidenza persiste. Basti pensare al discorso di Camus fatto in Svezia, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 1957, dove dichiara: ”Io sono un uomo quasi giovane, ricco soltanto dei miei dubbi e abituato a vivere nella solitudine del lavoro o nel rifugio dell’amicizia …”; o al pensiero critico di Sartre nei confronti del potere politico marxista stalinista sovietico e delle involuzioni autoritarie del Partito Comunista Francese; o a Ernst Bloch, esule a Tubinga nella Repubblica Federale Tedesca; o a Martin Heiddeger che si è ritirato nel suo rifugio solitario nella Foresta Nera, lontano dagli intrighi del potere politico. Certamente la filosofia vissuta intensamente da alcuni pensatori espone al forte rischio di solitudine. Ma anche la solitudine può essere un atto di presenza polemica, un atto di precisa contestazione o di dissenso dal potere politico.
Il consigliere del principe
Può essere un caso interessante quello di analizzare la figura del filosofo nella veste di “consigliere del principe”. I riferimenti storici non mancano, sono molteplici, come molteplici sono stati anche gli esiti drammatici delle loro consulenze. Basti pensare all’amicizia di Platone con Dione e ai suoi avventurosi rapporti con i tiranni di Siracusa; o a Seneca, precettore di Nerone, poi consigliere inascoltato e, infine, ridotto a tragico silenzio. Nel corso della storia gli esempi che si potrebbero citare sono infiniti.
Il “principe” è colui che comanda perché detiene il potere. Ma in senso generale con quest’appellativo simbolico può essere individuata qualunque figura, individuale o collettiva, che detiene il potere. Secondo Gramsci, il “principe moderno” è il partito politico al potere e, sotto un’accezione più ampia, può comprendere il popolo stesso. Questo concetto richiama alla mente un altro concetto della terminologia gramsciana: quella dell’intellettuale organico. La figura dell’intellettuale organico s’intreccia con quella del “moderno Principe”, contribuendo a caratterizzare un partito che, in vista della propria “egemonia”, svolge un compito etico, assolve a funzioni educative e, per ottenere il consenso, ricorre sia ai metodi di persuasione, sia ai metodi di costrizione.
La funzione del filosofo impegnato sul piano politico assume una grande varietà di posizioni che vanno dal ruolo di semplice consulente esterno, a quello di protagonista. Ma anche nella varietà delle situazioni, il filosofo tende sempre alla realizzazione dell’idea nelle istituzioni storiche. Il suo ideale recondito è quello di dare veste visibile alla sua idea, vuole illuminare l’azione storico-politica con i contorni dell’idealità fino al limite di trasfigurare le suggestioni della forza e della violenza in immagine di un dominio ideale. In tali circostanze, nell’anima del filosofo alberga una segreta intenzionalità totalitaria. Ma siccome egli non ha i mezzi, né le tecniche per attuare il suo progetto, va alla ricerca del suo braccio secolare; e la strumentalizzazione diventa reciproca, del filosofo verso il principe, del principe verso il filosofo. Il filosofo o l’intellettuale che elabori progetti teorici al servizio del principe, del monarca o del partito politico di turno, rimane spesso deluso dalle sue creature ideali, perché la sua idea spesso viene stravolta e utilizzata secondo progetti estranei alla sua volontà. Allora gli sarà attribuita la paternità di figlioletti non suoi, che egli dovrà in qualche modo, legittimare nei confronti dell’opinione pubblica.
Un legame sano (non inficiato da alcun tornaconto reciproco) tra la filosofia e il potere si radica nella natura stessa della filosofia. Ma il legame sano tra filosofia e potere politico è soltanto un ideale regolativo, intenzionale per definizione. Se questo legame si realizzasse nella pienezza totale, secondo Emmanuel Mounier, darebbe luogo alla peggiore delle dittature, quella dello spirito, la dittatura dell’idea.
Il filosofo può anche essere il consigliere del principe, ma con un certo margine di distacco, in modo che, all’occorrenza, possa giocare anche il ruolo di oppositore, di uno che richiama il politico ai valori, che l’avverte del limite, che contesta l’unilateralità delle scelte. Una posizione simile non si riconosce nella completa organicità del filosofo (o intellettuale) nei confronti del potere politico, ma propone l’intervento puntuale per interpretare le esigenze che emergono dalla realtà e contribuisce a dar loro puntuali risposte. Tutto questo senza che egli sia subordinato al potere stesso. Tuttavia, la funzione del filosofo è essenziale per allargare l’orizzonte, per tenere aperte le prospettive, per umanizzare l’azione. Per questo la presenza sapienziale e duttile del filosofo è ancora necessaria al potere. La sua figura ha qualcosa di saggio che sa vedere lontano e con distacco la realtà, ma la sua saggezza è ben diversa da quella antica, irrigidita nella sua atarassia, nel principio imbalsamato del non intervento.
A proposito del rapporto tra il filosofo e il potere una nota importante è stata scritta da quel movimento di pensiero e di cultura sorto sulle rive della Senna e indicato con l’espressione “nouveaux philosophes”. Una delle figure emblematiche di questo gruppo è Bernard-Henry Lévy. Egli, con evidente riferimento alla terminologia gramsciana, definisce se stesso un “intellettuale disorganico”; e afferma che il compito dell’intellettuale e, a maggior ragione del filosofo, non è quello di essere profeta della città futura, ma è quello d’impersonare il dissenso, di conservare lo spazio politico per la protesta. Anche quando l’intellettuale sembra staccarsi dalle masse, rifiutando gli slogan dell’apparente sentire comune, egli lo fa nell’interesse delle stesse masse per salvarle, come sosteneva Popper, dal comune belato. L’intellettuale, sempre per Lévy, non deve, servire né il principe, né il popolo. La sua “disorganicità” è una garanzia di libertà propria e di efficacia nella funzione maieutico-educativa, non sempre comoda, anzi talvolta rischiosa.
Per un intellettuale non organico, questo manifesto dei giovani intellettuali francesi ha un significato importante anche per la nostra cultura italiana. Esso è un invito alla ricerca della propria identità. L’intellettuale è, per sua natura, un oppositore, uno che non s’identifica con il potere, ma che è sempre un garante di fronte ad esso, una mentalità critica, un tribuno della plebe del mondo delle idee, mai un governante.
L’Autore ha configurato l’azione del filosofo impegnato per il bene comune con l’espressione impegno e testimonianza, concetto che non è lontano dall’immagine dell’intellettuale disorganico di Lévy. Certamente nella prospettiva del giovane filosofo francese la reazione è più radicale, il dibattito è più vicino alla cultura militante; nell’espressione impegno e testimonianza, la vivacità tribunizia e il dibattito quotidiano si compongono, s’interiorizzano, si traducono in una categoria di vita spirituale, esplicitano una dimensione di trascendenza che non appare nella disorganicità asettica di Lévy. Ciò avviene, sia in riferimento al modo di concepire il potere politico, sia in relazione all’esercizio di quello stesso potere politico, sia ancora in relazione all’esercizio del potere culturale che, sotto le declamazioni di libertà e uguaglianza, sacrifica l’una e l’altra all’ideologia e trasforma il consenso in conformismo.
L’impegno anti-ideologico
Se volessimo sintetizzare discorso sui rapporti tra il filosofo e il potere, potremmo usare l’espressione che Jan Lacroix ha utilizzato come titolo di un suo fortunato agile saggio: Le personnalisme come anti-ideologie.
Naturalmente dovremmo sostituire il termine ‘personalismo’ con il termine ‘filosofia’ e l’espressione diventerebbe: La filosofia come anti-ideologia. Il personalismo, nelle intenzioni del nostro Autore, non sarebbe né una filosofia, né un’ideologia, ma un’anti-ideologia, quindi un fenomeno di reazione. Fondamentalmente il personalismo si caratterizza come un’aspirazione speculativa intenzionale del pensiero, connessa all’attività pratica. Esso è un movimento di pensiero impegnato a sostenere le istanze di formazione integrale della persona umana, combattendo contro le concezioni e le ideologie unilaterali e totalitarie.
Ma la filosofia vera e propria, oltre che contestazione alle chiusure scientistiche e alle organizzazioni ideologiche del potere, è ben altra cosa. Essa è apertura problematica, è proposta positiva in ordine a tematiche fondamentali della vita culturale, quali: la logica, l’ontologia, la metafisica, l’etica. Inoltre, nel contesto della cultura contemporanea, avvertiamo l’esigenza e riaffermiamo il significato della filosofia come strumento anti-ideologico, come fenomeno di reazione. Il suo convergere con le istanze personalistiche è indicativo della funzione tipica del pensiero filosofico attuale. Nonostante le riduzioni scientistiche, la filosofia vive come forza di opposizione, come dibattito in nome della dignità della persona e delle sue libertà. Questo specialmente dopo che il marxismo e l’illuminismo sembrano essere approdati nell’area dell’ideologia. Ad associare l’illuminismo alla repressione, cioè al suo contrario, non è soltanto il nostro Autore. Prima di lui altri autori famosi, tra cui Max Horkheimer e T. W. Adorno, cittadini tedeschi emigrati negli Stati Uniti al tempo della Germania nazista, nella loro opera, Didattica dell’Illuminismo, indicano le “le tendenze che trasformano il progresso nel suo contrario”. Il progresso ha un nome: l’illuminismo; il suo contrario ha un altro nome: barbarie nazista che, negli anni Quaranta, ha imperversato in Germania e in Europa. Perché mai l’illuminismo torna a rovesciarsi in ideologia? Nato da un programma di liberazione dell’uomo, come mai ha dato vita alla selva da cui sono uscite le orde barbariche della gioventù hitleriana (Hitleriungend)?
Gli oppositori romantici accusavano l’illuminismo di aver disperso i valori della persona; ma vi è una ragione più profonda che deriva dalla logica dei fatti. Secondo questa tesi, la causa di questo trasformismo è stata il fatto che l’illuminismo ha dato vita a una razionalità esasperata che esclude ogni opposizione possibile. Pertanto, ogni cosa è vista dall’incontrovertibile punto di osservazione del rigore scientifico; il processo risulta allora previsto in anticipo. Come accade in matematica quando l’incognita del problema è già contenuta nelle premesse, prima che ne venga determinato il valore.
Il mondo illuministico ha abdicato a gestire l’effetto imprevisto. A questo punto esplode l’irrazionalità. Il formalismo logico produce l’appiattimento e l’appiattimento la dittatura. Il dittatore (o la classe al potere) non si rassegna alla semplice gestione del popolo (all’inquadramento della truppa). L’enorme potere che ha su una massa istupidita di automi diventa un mito, un rituale. Nasce una nuova mitologia: quella dell’uomo solo al potere. Da qui alla follia politica il passo è breve. “Accade quel che è sempre accaduto nel pensiero vittorioso: appena esso esce volontariamente dal suo elemento critico per divenire strumento al servizio della realtà, anche senza volerlo, trasforma il positivo in negativo, in qualcosa di esiziale” (Orkheimer e Adorno). La ragione, ridotta a rapporti logici, diventa formalismo e il formalismo implica il passaggio dialettico alla rinnovata mitologia e quindi alla conseguente barbarie. La ragione formalizzata è strumento per appiattire e ridurre la spontaneità dell’uomo nell’organizzazione funzionale. Il progresso allora può migliorare il tenore di vita di una persona, di un gruppo o di un popolo, ma, di contro, gli fa perdere il proprio nome, la propria libertà.
La questione paradossale è la seguente: dalla pretesa di tutto chiarire razionalmente, che nasce dalla lotta per la libertà dalle autorità e dai miti, scaturisce la nuova mitologia, una nuova dittatura. L’istanza totalizzante che investe la ragione porta all’irrazionale, per cui, la pretesa liberazione totale, ci coinvolge in nuove forme di schiavitù. Resta problematico il discorso di Horkheimer e Adorno laddove vedono un consequenziale parallelismo tra l’illuminismo e il nazismo prima, tra l’illuminismo e la società consumistica, tipica delle grandi democrazie borghesi decadenti dell’era attuale; nonché la deduzione che “i nuovi filosofi francesi” scorgono tra l’illuminismo e il marxismo da un lato, e i campi di sterminio staliniani dall’altro. Il marxismo è certamente connesso all’illuminismo. Lo storicismo trascendentale è l’anello di congiunzione che trasferisce l’istanza illuministica nel marxismo. Il marxismo, laddove è rimasto ancora al potere, è il “nuovo principe”. Gli elementi della filosofia moderna evidenziati in queste pagine da Hokheimer e Adorno e dai “nuovi filosofi francesi” chiariscono molto bene il concetto della consequenziale confluenza dell’immanentismo sistematico nell’ideologia e dell’esito spersonalizzante, meramente funzionalistico, della concezione scientifica del pensiero così, come dall’illuminismo in poi, si è andati configurando. Il pensiero della liberazione dell’uomo da ogni forma di condizionamento, nato dalla società dei lumi, sembra che sia approdato in esiti drammaticamente diversi, diametralmente opposti alle sue premesse: ideologia, spersonalizzazione, appiattimento, conformismo, dittatura. La filosofia, comunque, non s’identifica con la filosofia illuministica e con i suoi sviluppi consequenziali; essa torna a vivere come impegno di contestazione nei confronti di ogni sistematicità; riprende la sua vocazione alla critica di ogni uso strumentale del pensiero; riprende il suo spazio proprio come impegno di opposizione in funzione anti-ideologica. Quest’impegno definisce il modo di concepire la vita teoretica. La sua componente speculativa si esplica nell’esercizio delle capacità critiche nei confronti di una concezione meramente formale della razionalità. L’aspetto pratico traduce le considerazioni speculative in intervento concreto nel contesto sociale, finalizzato alla rimozione delle false razionalizzazioni e delle conseguenti forme di potere politico, che ne discendono. Impegnarsi in questa prospettiva significa assumere diversi tipi di atteggiamento, alcuni dei quali sono stati indicati nelle precedenti pagine. Per richiamarli alla mente, si ricordano i seguenti punti:
Concludendo si può dire che la filosofia oggi si giustifica ancora nella nostra esperienza culturale poiché, con il suo richiamo a ciò che è assoluto, ci aiuta a vincere la grande malattia dell’Occidente: la stanchezza. Inoltre, ci aiuta a liberarci dalle antiche e nuove superstizioni: lo scientismo riduttivistico, il funzionalismo esclusivo, l’uso ideologico del potere.