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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

Archive for Marzo, 2020

La Filosofia di Sant’Agostino

Posted By Felice Moro on Marzo 30th, 2020

La vita

Aurelio Agostino era nato a Tagaste, nell’Africa romana, nell’anno 354. Era figlio di padre pagano, Patrizio e di madre cristiana, Monica che esercitò una grande influenza sull’educazione, la formazione e lo sviluppo della personalità del figlio. Trascorse la fanciullezza e l’adolescenza tra Tagaste e Cartagine. Era di temperamento impulsivo, effervescente, insofferente dei freni imposti dalle norme educative familiari, per cui, nella prima gioventù, condusse una vita disordinata, dissoluta e dispersa all’inseguimento di fallaci illusioni. Tuttavia, coltivava gli studi classici, in modo particolare, quello della grammatica latina. All’età di 19 anni lesse l’Ortensio di Cicerone, che gli suscitò l’interesse per la filosofia. In virtù di questa motivazione, Agostino passò, dallo studio delle questioni formali e grammaticali, all’entusiasmo per i problemi del pensiero e all’amore per la ricerca filosofica. Per un certo periodo aderì alla setta filosofica dei Manichei. Dall’età dei 19 anni fino ai 29, per dieci anni, insegnò retorica a Cartagine. Fu questo il tempo della sua vita spensierata e gaudente, dissipata tra amori di donne e affetti di amici, di cui in seguito si pentirà amaramente. Intanto il suo pensiero andava maturando. Lesse il libro Sulle Categorie di Aristotele e altri libri di notevole spessore culturale, che gli suscitavano i primi dubbi sul Manicheismo, dubbi che andavano confermandosi quando vide che neppure Fausto, il capo dei manichei, sapeva risolvere i problemi che comportava quella dottrina.

Nel 383, quando aveva 29 anni, si recò a Roma per esercitare il suo insegnamento di retorica con la speranza di trovarsi davanti una scolaresca più disciplinata di quella cartaginese e di guadagnare più soldi. Ma ben presto rimase deluso e dopo un anno si trasferì a Milano per tenere il suo insegnamento nella cattedra di retorica. Nella città lombarda ebbe modo di avvicinare il vescovo Ambrogio che, con la sua ardente fede e la suadente parola evangelica, gli contagiò i fondamenti della fede cristiana, per cui Agostino divenne catecumeno. A Milano lo raggiunse la madre Monica, la cui influenza ebbe un’importanza decisiva anche nella crisi spirituale di Agostino. Nella lettura dei Neoplatonici, non trovò elementi sull’incarnazione, argomento che gli stava molto a cuore, ma trovò affermati e dimostrati altri temi che lo interessavano, tra i quali, quelli dell’incorporeità edell’incorruttibilità di Dio e ciò lo liberò definitivamente del materialismo, cui era rimasto attaccato fino ad allora. Nel 386 lasciò l’insegnamento e, con piccolo gruppo di amici e parenti, si ritirò in una villa a Cassiciaco, nel territorio del contado milanese. Dalla meditazione e dalle conversazioni con gli amici avvenute durante quel soggiorno, scaturiscono le sue prime opere, tra le quali Soliloqui. Il 25 aprile del 387 riceve il battesimo dalle mani del vescovo Ambrogio. Allora egli ha la piena consapevolezza che la sua missione sarebbe stata quella di diffondere la sapienza cristiana nella sua patria e pensò quindi al ritorno. In attesa dell’imbarco, a Ostia, in dialogo con la madre, trascorse giorni d’intenso godimento spirituale, discorrendo di questioni spirituali sulla fede cristiana. Ma lì, dopo nove giorni di malattia sopportati con cristiana rassegnazione alla volontà del Signore, Monica muore. Da quel momento egli impegna tutta la sua vita alla ricerca della verità e in una continua lotta contro l’errore. Nel 388 Agostino lascia Roma e torna a Tagaste, dove realizza il sogno della sua vita: fonda una comunità impegnata nella preghiera e nella contemplazione.  Nel 389 muore il giovanissimo figlio Adeodato. Nel 391 viene ordinato sacerdote e nel 395 consacrato vescovo di Ippona. Da allora la sua attività è rivolta in due direzioni: da una parte a chiarire e difendere i principi della fede mediante una ricerca intensa, di cui la fede è più il risultato finale che il presupposto iniziale; dall’altra a combattere i nemici della fede e della Chiesa: il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo. Nel 410 i Goti di Alarico osarono compiere il sacco di Roma. Quest’evento aveva rimesso in auge la tesi secondo cui, la forza e la sicurezza di Roma e dell’Impero erano legati, più al paganesimo che al cristianesimo e che, per il potere imperiale, quest’ultimo costituisse un elemento di debolezza e di dissolvimento. Contro questa tesi Agostino compose, tra il 412 e il 426, il capolavoro delle sue opere: La città di Dio. Ma intanto, nel 428, un flagello analogo a quello compiuto dai Goti a Roma, si abbatté nell’Africa romana con l’invasione dei Vandali. Il 28 agosto del 430, mentre le orde barbariche di Genserico compivano l’assedio di Ippona, il suo illustre vescovo Agostino moriva.

Le opere principali

Agostino scrisse numerosissime opere, molte delle quali di carattere polemico contro avversari che professavano idee contrarie alla fede o dottrine eretiche, alcune delle quali sono le seguenti: Contro gli Accademici, Sulla “Genesi” contro i Manichei, contro Fortunato, Contro Adimanto, Contro Fausto (capo dei Manichei), Contro i Donatisti, contro i Pelagiani e contro tanti altri eretici o avversari. Altrettante opere sono state scritte su altre tematiche, come Sulla beatitudine, Sull’ordine, Sulla colpa e sulla remissione dei peccati, Soliloqui. Tra le opere maggiori si ricordano gli scritti Sulla Trinità, Sulla dottrina cristiana e il suo capolavoro: La città di Dio. Intorno al 400 compose i 13 libri sulle Confessioni, che costituiscono l’opera chiave per comprendere la sua complessa personalità di filosofo, di uomo di fede e di pensatore dotato di eccezionale talento creativo. Verso la fine della sua vita, nel 427, scrisse le Ritrattazioni, dove compiva un’analisi retrospettiva su tutta la sua produzione filosofica, teologica e letteraria.

Lo scopo della ricerca: Dio e l’anima.

In una delle sue prime opere, Soliloqui, Agostino annuncia lo scopo della sua ricerca, dov’egli dichiara: “Io desidero conoscere Dio e l’anima; e nient’altro”. Egli ha tenuto fede alle sue parole, orientando la sua speculazione verso questo fine. Ma Dio e l’anima non costituiscono due filoni di indagini separate su due soggetti diversi. Ma un’unica indagine perché Dio è l’anima stessa che sta nell’interiorità della coscienza di ciascun uomo. Infatti, cercare Dio significa cercare l’anima e cercare l’anima, significa ripiegarsi su se stessi, riconoscersi nella propria natura spirituale, confessarsi. L’atteggiamento della confessione sarà un perno costante della vita, della ricerca e delle opere del filosofo e Padre della Chiesa. Questo atteggiamento è finalizzato a fare chiarezze sui fondamenti che costituiscono il nucleo della propria personalità. Il libro Le Confessioni, che da molti è considerato un testo autobiografico tout court, in realtà autobiografico è solo in parte, i libri che vanno dal primo al nono; e gli stessi contengono, non soltanto la confessione delle colpe e il pentimento di Agostino, ma anche la riconoscenza e il ringraziamento a Dio per la misericordiosa attenzione che gli ha riservato fin dalla sua infanzia. Nel libro X l’autore trascura ogni elemento autobiografico e fa l’autoanalisi della sua posizione etico-religiosa nel momento in cui scrive. La terza parte occupa i libri XI-XIII e contiene un ricco e versatile commento dei primi versetti della Genesi sulla Creazione. In questo spazio narrativo Agostino, attraverso diverse interpretazioni allegoriche, fa profonde riflessioni su tematiche di alto livello teologico. In tutte queste meditazioni Agostino arriva a capire che la motivazione dell’inquietudine che, in altri tempi l’aveva portato a disperdersi, derivava, non da altro, ma dall’impellente bisogno di verità, che è Dio stesso e che sta all’interno della coscienza di ogni uomo.  

Al riguardo egli dichiarava con piena convinzione: Noli foras ire, redi in te ipsum, in interiore homine habitata veritas = non uscire fuori da te, o uomo, ritorna in te stesso, nella parte interiore (più intima) della coscienza abita la verità; e se trovi mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso”. Soltanto il ritorno a se stessi, il rinchiudersi nella propria interiorità, costituisce veramente l’aprirsi alla verità e a Dio. Bisogna raggiungere il più intimo e nascosto nucleo dell’Io per rintracciare, al di là di esso, la verità e Dio stesso. Nella profondità dell’essere si trova la certezza che dissipa il dubbio. Non si può rimanere fermi nel dubbio con la sospensione dell’assenso, come pretendevano di fare gli Accademici.

Chi dubita della verità è certo di dubitare com’è certo di vivere e di pensare; al dubbio consegue la certezza che lo sottrae al dubbio stesso e lo riporta alla verità. Questo movimento di pensiero, per cui il dubbio stesso viene assunto a fondamento di una certezza, che non è immobile perché significa che si può e si deve cercare, si ritrova anche agli inizi della filosofia moderna in Cartesio con il suo famoso motto: Cogito, ergo sum = penso, quindi sono. Di tutto si può dubitare, ma non di me dubitante, diceva egli”. In Agostino esso significa che la vita interiore dell’anima non può fermarsi al dubbio, che perfino il dubbio consente all’anima di trascendersi e di muovere verso la verità. La verità dunque è dentro e fuori dell’uomo perché la verità è interiore, ma anche trascendente. Ma questa verità non può riconoscersi, né confessarsi se non per la verità e di fronte alla verità che viene affermata proprio nell’atto in cui la sua trascendenza guida e dà luce alla ricerca.

La verità si rivela trascendente e presente nella coscienza: la verità si rivela trascendente proprio a colui che la cerca come va cercata, nell’interiorità della coscienza. La verità, difatti, non è l’anima, ma la luce che dall’alto guida e richiama l’anima alla sincerità del riconoscimento di sé e all’umiltà della confessione.

La verità non è la ragione ma è la legge della ragione, cioè il criterio di cui la ragione si serve per giudicare le cose del mondo. Se la ragione è superiore alle cose che giudica, la legge, in base alla quale essa giudica, è superiore alla ragione. Il giudice umano giudica in base alla legge, ma non può giudicare la legge stessa. Il legislatore umano, se è saggio e onesto, giudica delle leggi umane ma, nel far questo, consulta la legge eterna della ragione; e questa legge sfugge a ogni giudizio umano perché è la verità stessa nella sua trascendenza.

La ricerca di Dio

Secondo la teologia agostiniana, la verità è Dio. La verità è la rivelazione dell’essere come tale. Essa è l’essere che si rivela, l’essere che illumina la ragione umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. In questo rivelarsi dell’essere all’interiorità dell’uomo, in questo suo valere di fronte all’uomo come il principio illuminante della ricerca, è la verità. Ma l’Essere che si rivela e parla all’uomo, l’Essere che è Parola e Ragione illuminante, è Dio nel suo Logos o Verbo. La verità è dunque il Logos o Verbo. Queste affermazioni richiamano alla mente il significato e il valore teologico contenuto nel Prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo; e il Verbo era Dio…Tutto venne all’esistenza per mezzo di lui. Senza di lui nulla fu creato di ciò che esiste …”. Dio è per l’uomo Essere e Verità proprio perché l’uomo cerca Dio nell’interiorità della propria coscienza. Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorosamente lo cerca nella profondità del suo io: ciò vuol dire che egli è Essere e insieme manifestazione di sé e, come tale, Verità; che non è trascendenza, se non in quanto è insieme rivelazione, che non è Padre se non in quanto è insieme Figlio, Logos o Verbo che muove incontro all’uomo per attrarlo a sé. Le due prime persone della Trinità si manifestano all’uomo nella ricerca; e così l’altra, lo Spirito Santo, che è l’amore. Dio è Amore oltre che Verità. Amore e Verità vanno congiunti perché non ci può essere amore, se non per la verità e nella verità. Amare Dio significa amare l’Amore, ma non si può amare l’Amore, se non si ama, chi ama. Non è amore quello che non ama nessuno. Perciò, l’uomo non può amare Dio, che è l’Amore, se non ama l’altro uomo. L’amore fraterno tra gli uomini, “non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso”. Dio si rivela come verità solo a chi cerca la verità, Dio si offre come amore, solo a chi ama. Perciò la ricerca di Dio non può essere soltanto intellettuale, non può essere soltanto ragione speculativa, ma è anche bisogno di amore fraterno. Bisogna porsi una domanda fondamentale: Che cosa amo, o Dio, quando amo te?

Questo è il punto cruciale della ricerca diretta all’anima e della ricerca diretta a Dio. Questo è il punto centrale della personalità di Agostino. Non è possibile cercare Dio se non profondandosi nella propria interiorità, se non confessandosi e riconoscendo il vero se stesso. Ma questo riconoscimento è lo stesso riconoscimento di Dio come verità e trascendenza. Se l’uomo non cerca se stesso, non può riconoscere Dio. Questa formula ricapitola l’intera esperienza di vita e la più autentica e robusta personalità di Agostino.

Al di là di questa dimensione, nella prospettiva che trascende la parte più alta dell’io, si intravede, per la stessa impossibilità di raggiungerla, la realtà dell’essere trascendente. Il complesso sforzo dell’intelligenza umana si esplica nella ricerca. Senza la ricerca l’uomo, non solo non può trovare Dio trascendente, ma non può trovare o ritrovare neanche se stesso. La ricerca è il terreno di vita dell’intelletto.

Certo, l’uomo non può riconoscere la trascendenza se non cerca, ma non può cercare se la trascendenza non lo chiama a sé e non lo sorregge rivelandoglisi nella sua portata imperscrutabile. Dio, proprio nella sua trascendenza, è il trascendentale dell’anima, la condizione della sua ricerca, di ogni sua attività; ed è anche la condizione dei rapporti interumani. Dio è l’Amore che condiziona e rende possibile ogni altro amore.

L’amore fraterno, la carità cristiana condiziona il rapporto tra Dio e l’uomo e, nello stesso tempo, ne è condizionato. Da questa condizione ne deriva il fatto che l’Amore divino, lo Spirito Santo, è nella sua trascendenza, il trascendentale della ricerca che porta l’uomo verso l’altro uomo. Il tema della speculazione di S. Agostino è uno solo ed è il tema della sua vita: il rapporto tra l’anima e Dio, tra la ricerca umana e il suo termine trascendente e divino. Ma questo rapporto in Agostino si atteggia religiosamente, non filosoficamente. Il suo accento non batte tanto sulla possibilità umana della ricerca del trascendente, quanto sulla presenza del trascendente all’uomo come possibilità della ricerca. L’iniziativa è abbandonata a Dio. Se Dio non lo soccorre nel suo stato di debolezza ontologica accordandogli la grazia che gli faccia balenare la luce della trascendenza, l’uomo, con i soli poteri della ragione umana, non è in grado d’intraprendere il cammino della ricerca. Ma allora lo sforzo filosofico si trasforma in umiltà religiosa, la ricerca diventa fede. La libertà dell’iniziativa filosofica appare come grazia divina. Questo dimostra che non sempre gli fu chiara la distinzione tra le verità rivelate e le verità razionali, fra il campo della natura e quello della grazia.  Su questo punto, nel filosofo e Padre della Chiesa, si annodano insieme la filosofia e la religione, la fede e la ragione, concetti che, invece, sono tenuti ben distinti in S. Tommaso. La sfiducia di Agostino nelle capacità naturali dell’uomo sono alla base del suo pessimismo e questo alimenterà tante polemiche nella filosofia dei secoli successivi, non solo del medioevo, ma anche dell’età moderna.

L’uomo     

Nella natura dell’’uomo è radicata l’esigenza di cercare e di amare Dio. Se fossimo animali, potremmo amare soltanto la vita carnale e gli oggetti sensibili. Se fossimo alberi, non potremmo amare nulla delle cose dotate di movimento e sensibilità. Ma siamo uomini, creati a immagine del nostro Creatore che è la vera Eternità, l’eterna Verità, l’eterno e vero Amore; abbiamo la possibilità di tornare a lui, nel quale il nostro essere non subirà più la morte, il nostro sapere non commetterà più errori, il nostro amore non avrà più offese. Questa possibilità di ritornare a Dio nella triplice forma della sua natura è inscritta nella triplice forma della natura umana, in quanto fatta a immagine di Dio. “Io sono, io conosco, io voglio. Sono in quanto so e voglio; so di essere e di volere; voglio essere e sapere. In queste tre cose vi è una vita inseparabile: un’unica vita, un’unica mente, un’unica essenza. Sono i tre aspetti dell’uomo che si rivelano nelle tre facoltà dell’anima umana, la memoria, l’intelligenza e la volontà, le quali insieme e ciascuna per conto proprio, costituiscono la vita, la mente e la sostanza dell’anima. Agostino dichiara: “Io ricordo di avere memoria, intelligenza e volontà; intendo di intendere, di volere e di ricordare e voglio volere, ricordare ed intendere”. Questa unità dell’anima, che si differenzia in tre facoltà autonome, ciascuna delle quali comprende anche le altre, è l’immagine della trinità divina, impari sì, ma pur sempre immagine. La struttura dell’uomo interiore rende possibile la ricerca di Dio. Quindi, Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza partecipandogli l’essere che, sebbene in grado minore, è sempre supremo Essere e supremo Bene. Tuttavia, l’uomo è libero per cui può scegliere di allontanarsi dall’essere, commettendo il peccato. Infatti, l’uomo può realizzarsi in diverse dimensioni: può essere l’uomo vecchio, esteriore o carnale, che nasce, cresce, vive gaudente, invecchia e muore. Ma può essere anche l’uomo nuovo o spirituale, che può rinascere spiritualmente e adeguare la sua condotta alle norme della legge divina. Anche l’uomo nuovo ha le sue età che, però, non sono date dal trascorrere del tempo, ma dal suo progressivo avvicinarsi al divino. Ogni individuo per natura è un uomo vecchio, ma deve diventare un uomo nuovo, rinascendo alla vita spirituale. Questa rinascita gli si pone come alternativa tra due scelte: o vivere secondo la carne, indebolire, rompere il proprio rapporto con l’essere, cioè con Dio e cadere nella menzogna del peccato; o vivere secondo lo spirito, rinsaldando il proprio rapporto con Dio e preparandosi a partecipare un giorno alla stessa sua vita eterna. La prima non è, né una scelta, né una decisione, ma è un lasciarsi andare al tenore dell’istintiva vita materiale, al piacere gaudente della vita sensuale e all’egoismo personale; la vera scelta è la seconda, nella quale l’uomo decide di aderire liberamente all’essere, cioè a rapportarsi a Dio. La causa del peccato degli uomini, nonché quella degli angeli ribelli, è una sola: la rinunzia all’adesione. Essi si sono allontanati dall’essere e si sono rivolti e se stessi che non sono l’essere. Il vizio fu quindi quello della superbia. Questa superbia della volontà, che distoglie l’uomo dall’essere e lo attacca alla cupidigia delle cose materiali e dell’egoismo, è il peccato. Esso non ha una causa efficiente, ma una causa deficiente, nel senso di una perdita, anziché di una realizzazione piena dell’’essere che Dio gli ha partecipato alla nascita.

La creazione del tempo

Dio è il fondatore di tutto, il creatore di tutto, anche del tempo. La mutevolezza del mondo che ci circonda dimostra che esso non è l’essere. Ha dovuto essere creato da un essere eterno. Dio ha creato tutto attraverso la Parola e la parola di cui parla il libro della Genesi, non è la parola sensibile, ma il Logos o Figlio di Dio, che è coeterno con lui. Il Logos o Figlio ha in sé le idee, cioè le forme o le ragioni immutabili delle cose che sono eterne, come eterno è egli stesso. In conformità di tali forme o ragioni sono formate tutte le cose che nascono e muoiono. Queste idee o forme, non sono le idee archetipe intelligibili di Platone, ma l’eterna e immutabile Ragione attraverso la quale Dio ha creato il mondo. Le idee divine di Agostino, più che alle idee di Platone, sono vicine alle ragioni seminali (rationes seminales) degli stoici. L’ordine del mondo, diviso in cose, generi e specie, è garantito dalle ragioni seminali. Queste sono implicite nella mente divina nell’atto della creazione e determinano la divisione e l’ordinamento delle cose singole.

“Tu, o Dio, sei il creatore di tutti i tempi; se mai esistette un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra, non si può dire che tu ti astenevi dall’operare. Anche quel tempo l’avevi creato tu e, prima che tu creassi il tempo, non poteva passare alcun tempo. Ma se prima del cielo e della terra non esisteva alcun tempo, allora che senso ha chiedersi, come fanno alcuni, “Che cosa faceva Dio prima della creazione del mondo?”. A questa domanda si potrebbe rispondere scherzosamente, come fa qualche altro, dicendo che Dio preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare i misteri. Io, invece, a questa domanda risponderò senza esitazione, che prima del cielo e della terra Dio non faceva nulla. Se, infatti, avesse fatto qualcosa, non avrebbe fatto altro che una creatura. Ma “allora” che cosa, tu o Dio, facevi? Ma non c’è un “allora”, dove non c’è un tempo. E nemmeno tu precedi i tempi stando nel tempo, altrimenti non precederesti tutti i tempi. Tu precedi tutto il passato dall’altezza della tua eternità sempre presente e sorpassi tutto l’avvenire perché ora esso è futuro, ma quando sarà venuto, diverrà passato: tu invece sei sempre il medesimo e i tuoi anni non finiranno mai. I tuoi anni non vanno e vengono, i nostri invece vanno e vengono per poter tutti venire. I tuoi anni esistono tutti insieme perché sono stabili e non se ne vanno eliminati da quelli che sopravvengono perché non passano; i nostri, invece, ci saranno davvero tutti, quando non ci saranno più. I tuoi anni saranno come un solo giorno …” (Confess., XI, 12 e 13).

Alcuni Padri della Chiesa, come Origene, ritenevano che la creazione del mondo fosse eterna, non potendo essa implicare un mutamento nella volontà divina. Agostino però sostiene un’altra tesi: Dio è l’autore, non solo di tutto ciò che esiste nel tempo, ma anche del tempo stesso. Prima della creazione non c’era tempo: non c’era un “prima” e non ha senso domandarsi che cosa facesse Dio “allora”, come alcuni si chiedono. L’eternità è al di sopra di ogni tempo: in Dio nulla è passato e nulla è futuro perché il suo essere è immutabile e l’immutabilità è un presente eterno in cui nulla trapassa. Ma, allora, che cos’è il tempo?

La realtà del tempo non è nulla di permanente. Il passato è tale perché non è più, il futuro è tale perché non è ancora; se il presente fosse sempre presente e non trapassasse nel passato, non sarebbe tempo ma eternità. Ma nonostante la sua fuggevolezza, noi il tempo riusciamo a misurarlo e parliamo di tempo breve o lungo, sia passato, sia futuro. Ma come e dove effettuiamo questa misura? Agostino risponde: nell’anima! Non si può certo misurare il passato che non è più, né il futuro che non è ancora. Ma noi conserviamo memoria del passato e siamo in attesa del futuro. Esso non è ancora, ma nell’anima c’è l’attesa delle cose future; il passato non è più, ma nell’anima c’è la memoria delle cose passate. Il presente non ha durata perché dura appena un istante, ma dura nell’anima l’attenzione per le cose presenti. Agostino insegna che il tempo trova nell’anima il sistema della sua misurazione, che rende sempre presente: il passato mediante la memoria, il tempo attuale mediante l’attenzione, il futuro mediante l’aspettazione, nella continuità interiore della coscienza che conserva dentro di sé il passato e si protende verso il futuro.

Partito alla ricerca della realtà oggettiva del tempo, Agostino, sostenendo che il tempo è un prodotto della nostra anima, giunge alla conclusione secondo cui, non fa altro che affermarne la sua piena soggettività. Ancora una volta, il ripiegarsi della coscienza su se stessa appare il metodo risolutivo di un problema oggettivo fondamentale.

La polemica contro il Manicheismo

Sant’Agostino, volendo affrontare il problema del male nel mondo, decide di combattere i sostenitori della tesi secondo cui, il male è un’entità sostanziale, come sostenevano i Manichei. Per fare questo, egli parte dal principio del carattere fondamentale di Dio: l’incorruttibilità in quanto egli è l’essere per eccellenza. Questa tesi appariva in contrasto con le credenze dei Manichei, i quali ammettevano che Dio dovesse combattere eternamente col principio del Male. Ma se il principio del male può nuocere a Dio o limitare la sua onnipotenza, allora Dio non è incorruttibile perché può subire l’offesa; e se nessun essere antagonista gli può nuocere, viene meno qualsiasi ragione perché Dio debba combattere contro qualcuno per affermare la sua supremazia divina. La conseguenza logica di questo ragionamento è il riconoscimento dell’incorruttibilità di Dio, che toglie ogni fondamento all’affermazione manichea della sussistenza di un principio del Male. Tuttavia, la tesi agostiniana non toglie, anzi ripropone, l’ineludibile problema della presenza del male nel mondo.

Se Dio è l’autore di tutto e anche dell’uomo, da quale fonte deriva il male? Se l’autore del male è il diavolo, da dove deriva il diavolo stesso? Se il male dipende dalla materia di cui è formato il mondo, perché nell’ordinarla, Dio lasciò un residuo di male? Qualunque sia la soluzione del dilemma, la realtà del male, contraddice la perfetta bontà di Dio. La negazione della realtà del male, ad Agostino appare la soluzione giusta del problema. Pertanto, egli afferma che tutto ciò che è, in quanto è, è bene. Anche le cose corruttibili sono buone perché, se non lo fossero corrompendosi, perderebbero la loro bontà. Ma, nella misura in cui si corrompono, perdono, non solo la loro bontà, ma anche la loro realtà; giacché se perdessero la loro bontà continuando ad essere, resterebbero prive di bontà ma continuando ad essere reali, quindi incorruttibili. Ma incorruttibile è soltanto Dio ed è assurdo supporre che le cose, corrompendosi, si avvicinino a Dio. Di conseguenza bisogna ammettere che le cose, nella misura in cui si corrompono, perdono la loro realtà, che il male assoluto è il nulla assoluto e che l’essere e il bene coincidono.

Non ci può essere altro male al mondo che il peccato e la sua pena. Ora, come abbiamo visto in precedenza, il peccato consiste nella deficienza della volontà che rinunzia all’essere per attaccarsi alle cose di ordine inferiore. Nessuna cosa creata, per quanto umile sia, è un male; ma è male attaccarsi ad essa come se fosse l’essere e per essa rinunciare all’essere vero. Dalla tesi manichea che faceva del male non soltanto una realtà, un principio sostanziale del mondo, Agostino è giunto così alla tesi opposta: la negazione totale della realtà o sostanzialità del Male e la sua riduzione a defezione della volontà umana di fronte all’essere. Il male dunque non è realtà neppure nell’uomo, giacché è defezione, deficienza, rinunzia, non decisione, non scelta; anche nell’uomo è dunque non-essere e morte. Nel peccato, Dio, che è l’essere, abbandona l’anima, come nella morte del corpo l’anima abbandona il corpo.

La polemica contro il donatismo

Un’altra grande polemica è quella che Agostino instaura contro il donatismo. Questa polemica condusse il filosofo a chiarire i punti fondamentali della sua costruzione religiosa. Il donatismo deriva da Donato (Donato delle Case Nere), capo di quel movimento religioso che, ai tempi in cui Agostino era vescovo d’Ippona, era molto diffuso nell’Africa romana. Era un movimento scismatico, fondato sul principio di assoluta intransigenza della Chiesa di fronte allo Stato. Secondo la loro ideologia, i fedeli della Chiesa costituivano una comunità di perfetti che non dovevano avere rapporti con le istituzioni civili. Le autorità religiose che tollerano questi contatti perdono la capacità di amministrare i sacramenti, i fedeli devono considerarli traditori, indegni della loro missione e rinnovare il battesimo e gli altri sacramenti da loro ricevuti. Queste teorie rendevano impossibile l’esistenza di ogni gerarchia ecclesiastica, perché davano ai fedeli il diritto di indagare sui titoli del proprio superiore gerarchico e di negargli, quando lo ritenessero opportuno, la propria obbedienza e disciplina. Inoltre, legando il valore dei sacramenti alla presunta purezza di vita del ministro, esponevano i sacramenti stessi a un dubbio continuo. E ancora affermavano che, tra la Chiesa e lo Stato doveva esistere un’antitesi perenne, che avrebbe ridotto l’azione della Chiesa a una pura negazione di disponibilità e di dialogo con le altre istituzioni del territorio.

Contro il donatismo, Agostino riafferma la validità dei sacramenti, indipendentemente dalla persona che li amministra. Secondo lui, è Cristo che opera direttamente attraverso il sacerdote e conferisce efficacia al sacramento che egli amministra; e su tale efficacia non può esserci alcun dubbio. Inoltre, la comunità dei fedeli non può essere ristretta a una minoranza di persone che, in base a una loro erronea ideologia, si isolano dagli altri.

Il sangue di Cristo fu il prezzo speso per la salvezza di tutti gli uomini, non per una minoranza di persone che nutrono ideologie sbagliate nei confronti della fede e della religione. Solo la Chiesa, che ha innalzato la croce in ogni parte del pianeta, testimonia, con la sua stessa esistenza, la validità del Vangelo nel mondo; la rappresentante legittima di quest’istituzione è la Chiesa di Roma.

Così Sant’Agostino vedeva nella Chiesa la dimostrazione del valore universale del messaggio cristiano in ogni dove e in ogni tempo. Con la riaffermazione dell’universalità di questo messaggio difendeva la Chiesa contro il subdolo tentativo dei donatisti di ridurre la comunità cristiana a una conventicola di fanatici isolati.  

La polemica contro il pelagianesimo

La terza grande polemica di Agostino è quella che egli ha intentata contro il pelagianesimo.  Si tratta dell’opera di pensiero che ha maggiormente influito nella formulazione teorica della dottrina agostiniana perché ha indotto l’Autore a fissare, con energia e chiarezza, il suo pensiero sul problema del libero arbitrio e della grazia.

Nei primi anni del V secolo, il monaco inglese Pelagio, che viveva a Roma, ebbe sentore della dottrina agostiniana espressa nell’invocazione a Dio: “Dà quod iubes et iube quod vis = Concedi quel che comandi e comanda quel che vuoi” (Confess. X 29). A causa dell’avvicinarsi delle orde barbariche dei Goti, che avrebbero compiuto l’umiliante oltraggio del sacco su a Roma, molte famiglie romane erano fuggite dalla città e si erano rifugiate in Africa. Tra gli emigrati romani c’erano anche Pelagio con l’amico Celestio, che si erano instaurati a Cartagine. Nella città africana entrami rivolgevano molte critiche alle dottrine agostiniane, critiche che andavano diffondendosi tra i fedeli della diocesi di Agostino.

Il punto di vista di Pelagio consisteva nel negare che la colpa di Adamo avesse tolto completamente la libertà originaria all’uomo e quindi anche la sua capacità di fare il bene. Il peccato di Adamo, egli sosteneva, è stato solo un cattivo esempio che ha indebolito le capacità dell’uomo di fare il bene, ma non l’ha resa impossibile e, soprattutto, non ha tolto all’uomo la possibilità di fare il bene e di reagire positivamente, collaborando per il bene di tutti. Per Pelagio l’uomo, sia prima, che dopo il peccato di Adamo, è naturalmente capace di operare virtuosamente, senza bisogno del soccorso straordinario della grazia.

Ma questa dottrina, così formulata, portava alla logica conclusione, secondo cui, sarebbe stata inutile l’opera della redenzione portata da Gesù Cristo con il suo insegnamento, la sua vita esemplare e soprattutto la sua passione e morte in croce per la salvezza di tutti gli uomini. Se dopo il peccato di Adamo l’uomo ha conservato ugualmente la possibilità di salvarsi, sebbene diminuita d’intensità, per salvarsi non ha bisogno della grazia divina, né dell’opera mediatrice della Chiesa, né dei sacramenti che essa amministra a tal fine.

Di fronte al dilagare di una dottrina eretica, così rovinosa per la dogmatica cattolica e la missione della Chiesa nel mondo, Agostino reagisce energicamente affermando che con Adamo ha peccato tutta l’umanità. Perciò stesso tutto il genere umano è diventato una grande massa dannata, per cui nessun uomo può sottrarsi alla dovuta punizione, se non con l’aiuto della misericordia e della grazia, non dovuta, di Dio.

Per giustificare la trasmissione del peccato, Agostino fu indotto a difendere la sua teoria sull’origine dell’anima, introducendo la tesi del traducianesimo, al posto di quella del creazionismo (non potendo ammettere che Dio crei un’anima dannata). Di conseguenza egli sosteneva che l’anima è creata, non da Dio, ma viene trasmessa da padre in figlio attraverso la generazione del corpo. Egli difese questa teoria con caloroso vigore profetico, non temendo neppure per le conseguenze a cui poteva portare. Infatti, su questo punto egli inclinò al pessimismo più radicale sulla natura e la possibilità dell’uomo, ritenuto incapace d’intraprendere il cammino verso l’elevazione spirituale e la salvezza. Egli insistette sulla dottrina della predestinazione, secondo la quale, Dio, con disegno imperscrutabile della sua volontà, predestina alcuni uomini alla salvezza, altri, alla dannazione. Per quanto queste conclusioni appaiano troppo severe e paradossali (e infatti la Chiesa cattolica intervenne per mitigarne la portata), indubbiamente il principio su cui Agostino le fonda ha un alto valore dottrinale che, andando ben oltre la polemica anti-pelagiana, stabilisce l’identità tra la libertà umana e la grazia divina. La volontà, secondo Agostino, è libera soltanto quando non è asservita al vizio e al peccato; e questa libertà può essere restituita all’uomo solo dalla grazia divina. Il primo libero arbitrio dato all’uomo, quello di Adamo, consisteva nel poter non peccare. Perduta questa libertà per la colpa originaria, la libertà finale, quella che Dio darà come premio, consisterà nel non poter peccare.

Quest’ultima libertà, che non appartiene più alla natura umana, sarà data all’uomo come dono divino, che lo renderà partecipe della stessa impeccabilità di Dio. Poiché la prima libertà è stata data all’uomo affinché egli si prepari l’ultima e più compiuta libertà, ne consegue che solo quest’ultima esprime ciò che l’uomo può e deve essere. Il non poter peccare, cioè la liberazione totale dal male, è una possibilità data all’uomo da un dono divino: “Dio stesso, dice Agostino, è la nostra possibilità di salvezza”. Queste parole esprimono l’identità della libertà e della grazia. Tutto ciò che nell’uomo è sforzo di liberazione, volontà di cercare e di amare Dio, è, nella sua ultima possibilità, l’azione gratificante di Dio. Agostino esclude anche un altro elemento della teoria dei pelagiani, secondo cui esiste una cooperazione tra l’uomo e Dio, giacché l’uomo non sta nello stesso piano di Dio. Dio è l’Essere che gli dà esistenza, la Verità che dà legge alla ragione, l’Amore che lo chiama ad amare. Senza Dio l’uomo non può che allontanarsi dall’essere, dalla verità e dall’amore, cioè peccare e dannarsi. Perciò l’uomo non ha meriti propri da far valere davanti a Dio. I meriti dell’uomo non sono altro che doni divini; è a Dio che li deve attribuire, non a se stesso. L’iniziativa non può appartenere ad altri che a Dio. La grazia divina si rivela nell’uomo come libertà, come ricerca della verità e del bene, come allontanamento dall’errore e dal vizio, come aspirazione all’impeccabilità finale. Sant’Agostino ha concepito il rapporto tra Dio e l’uomo nel modo più intrinseco possibile, cosicché riconosce all’iniziativa divina tutti i caratteri positivi dell’uomo: intelligenza, sapienza e volontà.

All’iniziativa dell’uomo, staccata dalla grazia di Dio, non riconosce alcun merito perché l’intero genere umano è considerato una natura decaduta.

La città di Dio   

La vita dell’uomo è costantemente dominata da un’alternativa fondamentale: vivere secondo la carne o vivere secondo lo spirito. A livello individuale essa ripropone la stessa alternativa che domina la storia dell’umanità, la storia dei popoli; da una parte c’è la città terrena o città del diavolo, che è la società degli empi; dall’altra c’è la città di Dio, la città celeste che è la comunità dei giusti.

Il loro campo di azione nella società non è mai diviso nettamente. Nessun periodo della storia, nessuna istituzione è mai dominata esclusivamente dall’una o dall’altra di queste due città, dall’uno o dall’altro dei due schieramenti opposti, in cui è divisa la società umana. Le due città non si identificano mai con particolari caratteristiche con le quali è costruita la storia degli uomini, perché esse dipendono dalle scelte di ogni singolo uomo, da ciò che egli decide di essere tra i due possibili schieramenti umani: “l’amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio, genera la città terrena; l’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé, genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio testimoniato nella coscienza e non solo … I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia di predominio, che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’un l’altro in servizio con spirito di carità vicendevole e rispettano i doveri della disciplina sociale”. Nessun cotrassegno esteriore distingue le due città che sono mescolate insieme sin dall’inizio della storia umana e lo saranno fino alla fine dei tempi. Ma ciascuno di noi potrà scoprire a quale gregge appartiene interrogando la propria coscienza.

Tutta la storia degli uomini nel tempo è data dallo sviluppo di queste due città, di questi due schieramenti sociali nel tempo e nello spazio. In questa storia Agostino distingue tre periodi fondamentali:

  1. Nel primo periodo gli uomini vivono senza leggi e non è ancora sorta la lotta per i beni terreni;
  2. Nel secondo periodo gli uomini vivono sotto la legge e perciò combattono contro il mondo, ma sono vinti;
  3. Il terzo periodo è il tempo della grazia in cui gli uomini combattono e vincono.

Agostino distingue questi tre periodi nella storia del popolo d’Israele. Atene e Roma sono giudicate soprattutto attraverso il politeismo della loro religione. Roma è la Babilonia dell’Occidente. Alla sua origine c’è un fratricidio, quello di Romolo, che riproduce il fratricidio di Caino alle origini dell’umanità, da cui è nata la città terrena. Le virtù stesse dei cittadini di Roma sono virtù apparenti, ma in realtà sono vizi perché la virtù senza Cristo non è possibile.

Il libro VIII del De civitate Dei è dedicato all’esame della filosofia pagana. Agostino si sofferma soprattutto su Platone che definisce “il più famoso tra i discepoli di Socrate”. Egli è stato tanto conquistato dal pensiero e l’opera dell’antico filosofo greco, da essere stato chiamato lui stesso il Platone cristiano. Agostino rende merito a Platone per essere stato il primo ad aver riconosciuto la spiritualità e l’unità di Dio, ma, nello stesso tempo, riconosce che neppure lui lo ha glorificato e adorato come tale; anzi, come tanti altri filosofi pagani, ha ammesso il culto politeistico. Le coincidenze della dottrina platonica con quella cristiana si spiegano con i viaggi che Platone aveva compiuto in Oriente, durante i quali egli aveva potuto conoscere i contenuti dei libri sacri. Agostino, innanzitutto è stato influenzato al cristianesimo dalle dottrine dei Neoplatonici, soprattutto dagli scritti di Plotino. Questi era un filosofo greco, formatosi nella cultura ellenistica di Alessandria d’Egitto, che visse a Roma nel III secolo dopo Cristo. Quest’intellettuale, di cultura greco-ellenistica, gli aveva insegnato la dottrina del Verbo, ma non che il Verbo si è incarnato e si è sacrificato per la salvezza degli uomini. Questa verità Agostino l’ha appresa dalla lettura dei testi sacri, tradotti dal greco in latino ed è stata rinforzata dalla parola e dal carisma spirituale del vescovo Ambrogio.

Molti filosofi antichi, indubbiamente hanno intravisto, sia pure oscuramente, il destino dell’uomo, la sua fine nella patria celeste, ma non hanno potuto additarne la via che, invece, è stata indicata chiaramente nei testi sacri, soprattutto nei Vangeli e, in modo molto chiaro, nel Vangelo di Giovanni, che esordisce: “In principio era il Verbo … E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi …”.

P.S. Questo saggio è stato attinto del testo “Storia della Filosofia” di N. Abbagnano. Ma è stato ridotto, integrato e semplificato, in contenuto e forma, per renderlo accessibile a tutti. Anche a quelli che filosofi non sono.

Il sistema filosofico di San Tommaso D’Aquino

Posted By Felice Moro on Marzo 1st, 2020

La vita e le opere principali.

Tommaso discendeva dalla famiglia nobile dei conti di Aquino ed era nato a Roccasecca, presso Cassino, nel 1225 o nel 1226. Ebbe la prima educazione dai monaci benedettini del Monastero di Montecassino. Nel 1243, a Napoli, entrò nell’ordine dei frati domenicani che lo mandarono a studiare a Parigi, dove fu allievo del maestro Alberto Magno, uno dei più alti esponenti della scolastica latina degli inizi del XIII secolo. Nel 1248 Alberto si trasferì a Colonia e Tommaso lo seguì nella sua nuova sede accademica. Scrisse le sue prime opere, tra cui, un commento della Bibbia. Intanto i maestri scolari di Parigi avevano iniziato una lotta polemica contro i frati mendicanti, da loro definiti “falsi apostoli dell’anticristo”, per cui pretendevano che fosse tolta loro la facoltà d’insegnare. Contro di loro e il loro capo, Guglielmo di Sant’Amore, Tommaso scrisse l’opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. Il Papa, prima rimase indeciso sulla posizione da assumere nei confronti dei due gruppi duellanti, poi decise a favore degli ordini predicanti. Nel 1257 Tommaso, insieme al suo amico Bonaventura da Bagnoregio, fu nominato maestro nell’università di Parigi. Nel 1259 Tomaso tornò in Italia dove, fino al 1264, fu ospite e consigliere del Papa Urbano IV, prima a Orvieto, poi a Viterbo. In questo periodo scrisse le sue opere maggiori: Summa contra Gentiles, Commentario alla Sentenze e le prime due parti della Summa Theologiae. Nel1269 tornò a Parigi, dove teneva la sua cattedra di maestro di teologia, occupandosi di controbattere alle lotte dei maestri scolari che, nel frattempo, avevano ripreso le polemiche aggressive contro i frati mendicanti. Tommaso scrisse una serie di opere polemiche contro i colleghi avversari e contro i sostenitori delle teorie dell’aristotelismo nell’interpretazione del filosofo arabo Averroè. Per le insistenze del re Carlo d’Angiò di Sicilia, fratello del re francese Luigi IX (dopo la morte, proclamato santo), nel 1272 Tommaso tornò ad insegnare all’Università di Napoli. Nel gennaio del 1274 fu designato dal Papa, Gregorio X recarsi al Concilio di Lione come suo rappresentante. Durante il viaggio si ammalò per cui tornò in Italia, fu accolto nel monastero cistercense di Fossanova (presso Terracina), dove morì nel mese di marzo del 1274. Alla sua morte Tommaso aveva appena 48 0 49 anni, ma la sua opera era già vastissima, conteneva già 36 libri e 25 opuscoli. Ma questo catalogo è parziale e ancora incompleto, perché le sue opere sono ancor più numerose.

Fede e Ragione

Il sistema filosofico tomista si basa soprattutto su due concetti fondamentali, due colonne portanti, due pilastri strutturali nettamente distinti tra di loro, sui quali poggia l‘intero edificio teoretico di Tommaso: la fede e la ragione. Sono i due concetti basilari che indicano i due ambiti nei quali si articola la ricerca di ogni conoscenza umana e che bisogna tenere sempre separati e distinti l’uno dall’altro: la Filosofia e la Rivelazione. All’uomo, che ha come fine Dio, la cui comprensione supera i limiti della ragione, non basta la ricerca filosofica fondata sulla ragione umana. L’uomo non può raggiungere le verità della fede con le sole forze della ragione, che poi non a tutti sono state distribuite in eguale misura. Perciò era necessario che egli venisse convenientemente istruito dalla rivelazione divina. Ma la rivelazione non annulla né rende inutile la ragione: “la grazia non elimina la natura, ma la perfeziona”. La ragione naturale si subordina alla fede come l’inclinazione naturale si subordina alla carità. Certo la ragione non può dimostrare ciò che è di pertinenza della fede, altrimenti la fede perderebbe ogni merito. Ma può servire alla fede in tre modi diversi:

  1. Anzitutto dimostrando i preamboli della fede (praeambula fidei), cioè quelle verità, la cui dimostrazione è necessaria alla fede stessa. Non si può credere a ciò che Dio ha rivelato, se non si sa che Dio c’è. La ragione naturale dimostra che Dio esiste, che è uno, che ha quei caratteri e quegli attributi che possono essere ricavati dalla considerazione delle cose da lui create;
  2. In secondo luogo, la filosofia può essere adoperata a chiarire, con similitudini, le verità della fede;
  3. In terzo luogo, può controbattere le obiezioni che si fanno alla fede, dimostrando che esse sono false o almeno che non hanno forza dimostrativa.

Dall’altro lato, però, la ragione ha la sua verità propria. I principi che sono intrinseci e che sono verissimi perché non possono essere falsi, le sono stati infusi da Dio stesso, che è l’autore della natura umana. La verità della ragione non può mai venire in contrasto con la verità rivelata. Quando un contrasto appare, è segno che non si tratta di verità razionali, ma di conclusioni false o, almeno, non necessarie: la fede è la regola del corretto procedere della ragione (Summa contra Gentiles).

Tommaso riconosce corretto il principio della logica aristotelica, secondo cui, “ogni conoscenza umana comincia dai sensi”: (Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu). (Questo principio universale della conoscenza umana, a livello pedagogico-scientifico, fu convalidato, all’inizio del Novecento, dalla conoscenza e dalle sperimentazioni educative di Maria Montessori, che aprirono la strada al cognitivismo pedagogico moderno di VygotsKy e Bruner). La ragione può bensì elevarsi a Dio, ma partendo dalle cose sensibili. “L’uomo non può giungere con la ragione naturale alla conoscenza di Dio, se non attraverso le sue creature. Le creature conducono alla conoscenza di Dio creatore, come l’effetto conduce alla causa. Ma se la ragione può giungere a riconoscere l’esistenza di Dio come causa prima, non dice nulla circa l’essenza di Dio. La ragione, infatti, con le sole sue forze, non può giungere a dimostrare i misteri superiori della creazione, della Trinità, dell’incarnazione e gli altri misteri loro connessi. Tali misteri possono essere, in parte, delucidati dalla ragione, ma non da essa dimostrati; mentre l’esistenza e altri caratteri generali su Dio possono essere dimostrati con la ragione speculativa e costituiscono i così detti preamboli della fede.

Chiarito così il rispettivo dominio della fede e della ragione, Tommaso passa a chiarire gli atti di fede. Accettando la definizione che ne aveva dato Agostino, anche Tommaso definisce l’atto di fede credere “come un pensare con assorbimento” (cogitare cum assensu), intendendo con l’atto di pensiero l’intero coinvolgimento delle due facoltà umane” l’intelletto e la volontà”.

La Teoria della Conoscenza

Tomaso ricalca la sua teoria della conoscenza sulla precedente teoria nosologica di Aristotele. Il tratto più caratteristico è il carattere astrattivo del processo della conoscenza, cioè l’astrazione. Commentando un passaggio del De anima, dove Aristotele dichiara che l’anima è tutte le cose, Tommaso osserva: “Se l’anima è tutte le cose, è necessario che essa sia, o le cose stesse o le loro specie. Ora la specie (l’eidos) è la forma delle cose. Allora l’intelletto è la potenza ricettiva di tutte le forme intelligibili e il senso è la potenza ricettiva di tutte le forme sensibili. Il processo attraverso il quale il soggetto riceve la conoscenza è l’astrazione. L’intelletto, nell’atto di conoscere le cose, le astrae dai corpi stessi; il conoscere è perciò un astrarre le forme dalla materia individuale, un trarre fuori l’universale intelligibile dal particolare sensibile, concreto. Così possiamo conoscere le forme o specie universali dell’uomo, del cavallo, della pietra, prescindendo dagli elementi materiali a cui sono uniti e senza pretendere che esistano separatamente da questi. L’astrazione non altera la realtà; consente soltanto una considerazione separata della forma; e tale considerazione costituisce la conoscenza intellettuale dell’uomo. Tuttavia, permane il fatto che l’universale non sussiste fuori delle cose singole, ma è reale soltanto perché è unito ad esse. Di per sé l’intelletto umano non può conoscere le cose singole. Ma, per sua natura costituzionale, esso funziona astraendo la specie intelligibile dalla materia individuale. L’intelletto che astrae la forma dalla materia è l’intelletto agente. Quest’intelletto agente ha la funzione di far passare gli elementi intelligibili delle cose stesse dalla potenza all’atto, astraendoli dalle condizioni materiali, agendo come la luce sui colori. Contro le teorie di Averroè e dei suoi seguaci, Tommaso afferma l’unità di quest’intelletto con l’anima umana; l’intelletto deve, di necessità, far parte dell’anima. Perciò l’intelletto attivo (agente) non è uno solo, ma ci sono tanti intelletti attivi quante sono le anime, uno per ogni essere umano. Contro gli averroisti che sostenevano la tesi dell’unicità dell’intelletto, è diretto il famoso opuscolo di Tommaso De unitate intellectus contra Averroistas.

Il procedimento astrattivo dell’intelletto garantisce la verità della conoscenza intellettuale perché garantisce che la specie esistente nell’intelletto è la forma stessa delle cose e perciò vi è corrispondenza tra l’intelletto e la cosa. A questo riguardo Tommaso definisce la verità come “l’adeguazione dell’intelletto e della cosa”. L’intelletto possiede la verità in quanto si conforma alla cosa. La verità suprema è Dio in quanto il suo intendere è la misura di tutte le cose; la scienza che egli ha delle cose è causa di esse. In Dio l’essere e l’intendere coincidono; in Dio intendere le cose significa comunicare ad esse l’essere, posto che all’intendere sia congiunta la volontà creativa.

Ciò stabilisce una differenza radicale tra l’intelletto divino e quello umano, tra la scienza divina e quella umana. Dio intende ogni cosa con la semplice intelligenza della cosa stessa: con un solo atto afferra (e, volendo, crea) l’essenza totale e completa della cosa stessa. Il nostro intelletto, invece, non attinge con un unico atto la conoscenza perfetta di una cosa; ma dapprima apprende di essa qualche elemento, per esempio l’essenza, poi passa a intendere le altre proprietà. Da qui deriva il fatto che la conoscenza intellettuale umana si svolge per atti successivi di composizione o di divisione, che si susseguono nel tempo e che si esprimono mediante proposizioni. Il procedere da una proposizione all’altra dà luogo al ragionamento; e la scienza che si viene così costituendo per successivi e concatenati atti di affermazione o di negazione è la scienza discorsiva. La conoscenza umana è quindi conoscenza razionale e la scienza umana è scienza discorsiva: caratteri che non possono attribuirsi alla conoscenza e alla scienza di Dio che intende tutto simultaneamente in se stesso, con atto semplice e perfetto d’intelligenza. Ciò stabilisce anche una differenza radicale tra l’autocoscienza divina e quella umana. Dio conosce, non solo se stesso, ma tutte le cose attraverso la sua essenza che è atto puro e perfetto. L’intelletto umano, invece, non è atto, ma potenza; non può conoscersi, se non passa attraverso l’atto di astrazione.

La Metafisica   

Nell’opera De ente et essentia Tommaso riforma la metafisica aristotelica per adattarla alle esigenze del dogma cristiano, facendo una distinzione reale tra il concetto di essenza e quello di esistenza. A differenza di altri (Avicenna e i suoi seguaci), secondo i quali l’essenza implica l’esistenza (cioè Dio) e l’essere la cui essenza non implica l’esistenza (cioè il finito), nella dottrina di Tommaso l’essenza implica l’esigenza della creazionenella stessa costituzione delle cose finite; e questo è il principio riformatore, di cui Tommaso si avvale per rendere l’aristotelismo adatto all’interpretazione del dogma cristiano, cui intende farlo servire. Con quest’interpretazione, il primo risultato che la dottrina tomistica vuole ottenere è quello di staccare i concetti di potenza e atto e di materia e forma. Per Aristotele potenza e atto s’identificano con materia e forma; per Tommaso, non solo materia e forma, ma anche essenza ed esistenza stanno tra di loro nel rapporto di potenza e atto. Per esempio, l’essenza che egli chiama quiddità o natura comprende, non solo la forma, ma anche la materia delle cose composte; per esempio, l’essenza uomo, che è definito “animale razionale” comprende non solo la “ragionevolezza” (forma), ma anche “l’animalità” (materia). Dall’essenza si distingue l’esistenza cioè l’esistere delle cose stesse. Perciò l’uomo risulta composto dell’essenza (materia e forma) e dell’esistenza, tra loro separabili; l’essenza è in potenza rispetto all’esistenza, l’esistenza è atto dell’essenza; l’unione dell’essenza con l’esistenza, cioè il passaggio dalla potenza all’atto, richiede l’intervento creativo di Dio. Solo in lui, in Dio, non c’è un’essenza che sia anche potenza perché egli è atto puro. Nelle sostanze composte di materia e forma l’essere è aggiunto dall’esterno, quindi creato e finito. Queste ultime sostanze, poiché comprendono la materia, che è il principio d’individuazione, si moltiplicano in una grande quantità d’individui.

Con riforma della metafisica aristotelica, Tommaso fa in modo che la stessa costituzione delle sostanze finite esiga la creazione divina. Aristotele, invece, identificando l’esistenza in atto con la forma, stabilisce che dovunque c’è forma, c’è realtà in atto e che perciò la forma è indistruttibile e ingenerabile e, quindi necessaria ed eterna come Dio stesso. Con ciò egli garantisce la necessità e l’eternità della struttura formale dell’universo: generi, specie, forme e, in generale sostanze. Dal suo universo è esclusa la creazione ed ogni intervento attivo di Dio nella costituzione delle cose. Proprio per questo motivo il sistema aristotelico appariva poco flessibile e inadatto adinterpretare i misteri della religione cristiana. Ma la riforma tomistica muta completamente la metafisica aristotelica trasformando l’essere, da necessario a essere creato. Di conseguenza il termine essere riferito alla creatura ha un significato non identico ma simileo corrispondente all’essere di Dio. E’ questo il principio dell’analogicità dell’essere che Tommaso deduce da Aristotele, ma che acquista un significato diverso da quello che il termine aveva nel sistema di Aristotele. Questi aveva distinto varie categorie dell’essere ma riportandole tutte alla categoria fondamentale, quella di sostanza=ousia. Perciò egli non distingueva tra l’essere di Dio e l’essere delle cose; per esempio per lui Dio e la mente sono sostanze nello stesso senso. Tommaso invece, in virtù della distinzione tra essenza ed esistenza deve distinguere l’essere delle creature, separabile dall’essenza e quindi creato, mentre l’essere di Dio identico con l’essenza e quindi necessario. Questi due significati non sono univoci e neppure equivoci, ma analoghi, cioè simili ma di proporzioni diverse. Dio solo è l’essere per essenza, le creature hanno l’essere per partecipazione. Sono simili a Dio che è il principio universale di tutto l’essere, ma Dio non è simile ad esse. Tutti i predicati che si attribuiscono a Dio, per rapporto analogico, sono riferibili anche alle creature, naturalmente con diversa intensità.

La scienza che concerne le sostanze create e si avvale dei principi che sono evidenti alla ragione umana è la metafisica. Ma la scienza che concerne l’essere necessario è la teologia. Essa ha una certezza superiore e principi che discendono direttamente dalla rivelazione divina; è perciò in dignità superiore a tutte le altre scienze (compresa la metafisica) che, nei suoi confronti, sono subordinate ed ancelle.

Poiché l’essere di tutte le cose (tranne Dio) è sempre un essere creato, la creazione, se è verità di fede come inizio di tutte le cose nel tempo, è invece verità dimostrata come produzione delle cose dal nulla e come derivazione di ogni essere da Dio. Detto per inciso, queste ultime affermazioni combaciano perfettamente con il contenuto del Prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo … e il Verbo era Dio… Tutto venne all’esistenza per mezzo di lui e, senza di lui, nulla fu creato di ciò che esiste… Era nel mondo e il mondo fu creato per mezzo suo … E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi …”.

Il ragionamento di Tommaso continua affermando che Dio solo è l’essere che è tale per la sua stessa essenza, cioè che esiste necessariamente e di per sé; le altre cose ricevono il loro essere da lui per partecipazione. Anche la materia prima è creata. Tutte le cose del mondo costituiscono una gerarchia ordinata secondo la loro maggiore o minore partecipazione dell’essere di Dio. Dio è il termine e il fine supremo di questa gerarchia. In lui sono le idee, cioè le forme esemplari delle cose create, forme che non sono separate dalla stessa sapienza divina. Pertanto, deve dirsi che Dio stesso è l’unico esemplare di tutto.

Il distacco tra l’essere creato e l’essere eterno di Dio, che è proprio di tale metafisica, consente a Tommaso di salvare la trascendenza di Dio rispetto al mondo e di tagliare la via a ogni forma di panteismo che voglia in qualche modo identificare l’essere di Dio con l’essere del mondo.

Contro alcune forme di panteismo che circolavano in certe dottrine filosofiche del suo tempo, Tommaso oppone un principio inoppugnabile, secondo cui Dio non può entrare in alcun modo come elemento componente delle cose del mondo. Come causa efficiente, Dio non s’identifica, né con la forma né con la materia di cui è causa; ma il suo essere e la sua azione sono assolutamente primi, cioè trascendenti rispetto alle cose stesse.

Le prove dell’esistenza di Dio

Uno dei punti forti del sistema filosofico di Tommaso è costituito dalle prove sull’esistenza di Dio. Egli indica cinque vie per giungere dagli effetti sensibili alla dimostrazione dell’esistenza di Dio.

  1. La prima via è la prova cosmologica, desunta dalla Fisica e dalla Metafisica di Aristotele che, per primo, attribuiva ogni movimento al Primo Motore Immobile. Anche Tommaso parte dal principio secondo cui “tutto ciò che si muove e mosso da altro”. Ora se ciò da cui è mosso a sua volta si muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora: ma non è possibile procedere da causa in causa all’infinito; altrimenti non ci sarebbe un primo motore. Dunque, è necessario giungere a un primo motore, cioè a un motore che non sia mosso da altro e che, pur restando immobile, muove tutti gli altri; e per primo motore tutti intendono Dio.
  2. La seconda prova è quella causale. Analogamente al ragionamento sul movimento fatto per la prima prova, la seconda prova prende in considerazione la serie delle cause efficienti. Infatti, anche nell’ordine causale non si può risalire all’infinito sull’ordine delle cause causanti, altrimenti non vi sarebbe una prima causa, né un’ultima causa e neppure tutte le cause intermedie. Pertanto, vi deve essere una prima causa efficiente che è Dio;
  3. La terza via è desunta dal rapporto tra possibile e necessario. Le cose possibili esistono in virtù delle cose necessarie; e queste hanno la causa della loro necessità o in sé o in altro. Quelle che hanno la causa in altro, rinviano a quest’altro; e poiché non è possibile rinviare all’infinito, bisogna risalire a qualcosa che sia necessario di per sé e che sia causa di necessità di ciò che è necessario per altro e questo è Dio;
  4. La quarta via è quella dei gradi. Nelle cose del mondo si trova il meno e il più del vero, del bene, del bello e di tutte le altre perfezioni: vi sarà quindi anche il grado massimo di tali perfezioni e sarà esso la causa dei gradi minori, come il fuoco, che è massimamente caldo, è la causa di tutte le cose calde. Ora la causa dell’essere e della bontà e di ogni perfezione è Dio. Questa causa è di origine platonica ed è desunta da Aristotele.  
  5. La quinta via è quella che si desume dal governo delle cose. Le cose naturali, prive d’intelligenza, sono, tuttavia, dirette a un fine; e questo non accadrebbe se non fossero governate da un Essere dotato d’intelligenza. Vi è dunque un Essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine, il loro scopo di esistere; e quest’Essere è Dio. In questa prova, che è la più antica e la più venerabile fra tutte, probabilmente l’esposizione di Tommaso segue le tracce delle teorie di Giovanni Damasceno e di Averroè. 

La Teologia

Secondo Tommaso, i dogmi fondamentali del cristianesimo, la creazione, l’incarnazione e la trinità, sono articoli di fede, non suscettibili di trattamento dimostrativo, di fronte ai quali, la ragione si limita prima a chiarire, poi a resistere alle obiezioni.

Per ciò che riguarda il dogma della Trinità, la difficoltà più grande è quella d’intendere in che modo l’unità della sostanza divina si concili con la trinità delle persone. Per mostrare la conciliazione necessaria, Tommaso si serve del concetto di relazione. La relazione, da un lato costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro s’identifica con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione col Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto col Padre; lo Spirito dall’amore, cioè dal rapporto reciproco di Padre e Figlio. Ora queste relazioni in Dio non sono accidentali (nulla può essere accidentale in Dio) ma reali; sussistono realmente nell’essenza divina. Proprio l’essenza divina, nella sua unità, implicando le relazioni, implica la diversità delle persone. Questo chiarimento basta, secondo Tommaso, a mostrare che “ciò che la fede rivela non è impossibile”. Il che è tutto quanto si deve fare in questi argomenti; nei quali ogni tentativo di dimostrazione è più nocivo che meritorio, giacché induce gli increduli a supporre che i cristiani, per credere, si fondino su ragioni prive di valore necessario.

Per quanto riguarda l’incarnazione, la difficoltà consiste nel poter intendere la presenza, nell’unica persona di Cristo, delle due nature, la divina e l’umana. Nel V secolo (anno 451, Concilio Ecumenico di Calcedonia presieduto dal papa San Leone Magno) la Chiesa si era trovata nella circostanza di dover condannare due interpretazioni opposte di questo dogma, interpretazioni alle quali Tommaso riduce tutte le altre per confutarle. Una era l’eresia di Eutichio che, insistendo sull’unità della persona di Cristo, riduceva ad unità le due nature, facendone una sola, quella divina. L’eresia di Nestorio, invece, insistendo sulla dualità delle nature, ammetteva in Cristo anche due persone coesistenti insieme, la persona umana come strumento o rivestimento di quella divina. A questo punto la distinzione tra l’essenza e l’esistenza nelle creature e la loro unità in Dio offrono a Tommaso la chiave dell’interpretazione. L’essenza o natura divina è identica con l’essere di Dio; dunque Cristo, che ha natura divina, è Dio, sussiste come Dio, cioè come persona divina; egli è dunque una sola persona, quella divina. Dall’altro lato, data la separabilità della natura umana dall’esistenza, egli può ben assumere la natura umana (che è anima razionale e corpo) senza essere una persona umana. Si intende così come la natura umana ha potuto essere assunta da Cristo che, rivestendola, l’ha nobilitata, sollevata e resa nuovamente degna della grazia divina.

Quanto alla creazione, essa è articolo di fede, secondo Tommaso, solo nel senso di inizio del tempo, non nel senso della produzione dal nulla. Si può ammettere, dice il filosofo, che il mondo sia stato prodotto dal nulla e parlare perciò di creazione, senza ammettere che esso venga dopo il nulla. Gli argomenti che si possono addurre in favore di un inizio del mondo nel tempo non concludono necessariamente. Dall’altro lato non concludono necessariamente neppure quelli che pretenderebbero dimostrare l’eternità del mondo. Ad ogni argomentazione contraria alla tesi della creazione, Tommaso risponde con altrettante opinioni che rendono ugualmente invalide le tesi degli avversari. Infine, la conclusione, secondo lui, è la seguente: non si può dimostrare, né l’inizio del tempo, né l’eternità del mondo e ciò lascia la via libera a credere alla creazione nel tempo (id credere maxime exspedit). I chiarimenti di San Tommaso hanno una grande forza dialettica e una raffinata eleganza formale da farne una delle parti più importanti del suo intero sistema teoretico.

La psicologia

Secondo Tommaso, la natura dell’uomo è costituita di anima e corpo. L’uomo non è solo anima; della sua essenza fa parte anche il corpo giacché, oltre che intendere, sente e il sentire non è operazione dell’anima sola. Secondo Aristotele, l’anima è l’atto del corpo: è la forma, il principio vitale che fa sì che l’uomo conosca e si muova: come tale è sostanza, cioè sussiste per suo conto. Tommaso rigetta la teoria del neoplatonismo arabo-giudaico accettata anche dai francescani, secondo cui, l’anima stessa è composta di materia e forma. Tommaso sostiene che non c’è materia nell’anima; se ci fosse, cadrebbe fuori dell’anima che è pura forma. Né l’intelletto potrebbe conoscere le pure forme delle cose se avesse in sé materia. Nell’uomo sussiste la sola forma intellettiva dell’anima, la quale compie anche le funzioni inferiori, sensitiva e vegetativa. In generale, la forma superiore può sempre compiere le funzioni delle forme inferiori; così negli animali l’anima sensitiva compie pure la funzione vegetativa, mentre nelle piante sussiste solo l’anima vegetativa. Pertanto, nell’anima umana c’è una sola forma, quella superiore intellettiva, che compie anche le altre funzioni inferiori, sensitiva e vegetativa.

Come pura forma, l’nima è immortale. La materia può corrompersi perché la forma (che atto, cioè esistenza) può separarsi da essa. Ma è impossibile che la forma si separi da se stessa e perciò è impossibile che si corrompa. In questo argomento di Tomaso ritorna le tesi del Fedone platonico, secondo cui l’anima, avendo in sé l’idea stessa della vita, non può morire. D’altronde, secondo il filosofo, anche ammettendo che l’anima sia composta di materia e forma, bisogna ammetterne l’incorruttibilità. Nulla, infatti, può corrompersi che non abbia il suo contrario e l’anima intellettiva non ha contrari perché la conoscenza stessa dei contrari costituisce nell’anima un’unica scienza. Infine, lo stesso desiderio che l’anima ha di esistere è indice (signum) di immortalità. L’intelletto che conosce l’essere assolutamente, desidera naturalmente di essere sempre; e un desiderio naturale non può essere vano. Ma com’è possibile che, dopo la separazione dal corpo, l’anima conservi quell’individualità che viene appunto dal corpo? Tommaso risponde che l’anima intellettiva è unita al corpo per il suo stesso essere (esse); distrutto il corpo, quest’essere rimane e rimane proprio come quand’era unito al corpo, individuale e singolo. La persistenza dell’individualità nell’anima separata consentirà pure, nel giorno della resurrezione dei corpi, ad ogni anima di riprendere la materia nelle dimensioni determinate che le erano proprie e di ricostituire così il proprio corpo.  Questa risposta di Tommaso si ricollega a un preciso passo dei testi Evangelici sinottici:

la “I Sadducei dissero a Gesù: “C’erano tra di noi sette fratelli. Il primo si sposò e morì senza avere figli lasciando la moglie a un suo fratello. La stessa cosa accadde al secondo, poi al terzo fino al settimo senza avere figli. Infine, morì anche la donna. Ebbene, quando i morti risorgeranno, di quale dei sette fratelli sarà moglie, visto che tutti l’hanno avuta in moglie? Gesù rispose loro: “Voi vi sbagliate perché non comprendete né le Sacre Scritture, né la potenza di Dio. Quando risuscitano, i morti non si sposano né prendono marito, ma sono come gli angeli del cielo. Quanto alla resurrezione dei morti, non avete letto la parola di Dio che vi ha detto: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Matteo, 22, 23-33). Questa stessa parabola la si ritrova in Marco 12,18-27 e in Luca 20, 27-40.

L’Etica

Dalla quinta prova dell’esistenza di Dio, risulta che Dio ordina tutte le cose al loro fine supremo che è Lui stesso in quanto Supremo Bene. Il governo divino del mondo, che ordina il mondo verso il suo fine, è la provvidenza. Ogni cosa, e l’uomo stesso, è soggetta alla provvidenza divina. Ma ciò non implica che tutto avvenga per necessità e che il disegno provvidenziale escluda la libertà dell’uomo. Giacché quel disegno divino stabilisce, non solo le cose che accadono, ma anche il modo con cui accadono. Perciò esso preordina le cause necessarie per le cose che devono accadere necessariamente e le cause contingenti per le cose che devono accadere contingentemente. Così fa parte della provvidenza divina anche l’azione libera dell’uomo.

Né la libertà dell’uomo è tolta dalla predestinazione alla beatitudine eterna. A questa beatitudine, che consiste nella visione di Dio, l’uomo non può giungere con le sole sue forze naturali, ma dev’essere indirizzato dalla grazia, da Dio stesso. Ma con ciò Dio non necessita l’uomo perché fa parte della predestinazione, è un aspetto della provvidenza, che l’uomo attinga liberamente la beatitudine alla quale Dio liberamente lo ha scelto. Provvidenza e predestinazione suppongono la prescienza divina con la quale Dio prevede i futuri contingenti, cioè le azioni dovute alla libertà umana. La prescienza divina è certa e infallibile perché ad essa sono presenti anche le cose future; perciò vede svolgersi in atto quelle azioni libere che, non essendo come tali necessitate dalle loro cause, sono per l’uomo imprevedibili. In Dio, che è l’eternità stessa, tutto il tempo è presente e sono presenti anche le azioni future degli uomini. Egli le vede, ma col vederle, non toglie ad esse la libertà del loro accadere, come non la toglie a chi vi assiste al momento del loro compiersi.

La volontà umana è dunque un libero arbitrio che non è tolto, né diminuito dall’ordinamento finalistico del mondo, né dalla grazia divina e neppure da un aiuto straordinario di Dio, gratuitamente concesso. Tommaso sostiene che: “Dio muove tutte le cose nel modo secondo l’ordine proprio di ciascuna di esse. Così nel mondo naturale egli muove in un modo i corpi leggeri, in un altro modo i corpi pesanti per la loro diversa natura. Muove l’uomo alla giustizia secondo la condizione propria della natura umana e tenendo conto che egli dispone del libero arbitrio. Il libero arbitrio dell’uomo è dovuto alla presenza del male nel mondo. Tommaso ammette la dottrina platonico-agostiniana sulla non sostanzialità del male; anche per lui il male non è altro che mancanza del bene. Il male nel mondo c’è perché è implicito nell’ordine stesso delle cose, alcune delle cose ordinate al maggior bene, altre al minor bene, che poi diventa male sotto forma di pena o colpa. La pena è deficienza di forma, come, per esempio, la cecità è deficienza della vista.

Ma il male peggiore è la colpa che la provvidenza cerca di correggere o eliminare con la pena. Ora la colpa o peccato è l’atto con cui l’uomo sceglie deliberatamente il male, cioè agisce in modo disforme dall’ordine della ragione e della legge divina. L’uomo è dotato della capacità (habitus) di distinguere il bene dal male, di fare l’una o l’altra scelta. Quest’habitus naturale, che conferisce all’uomo la capacità di giudizio e di scelta, è la coscienza. Le potenze o facoltà naturali sono determinate ad agire in un unico modo, non hanno scelta né libertà, ma agiscono in modo costante guidate dall’istinto infallibile. Le potenze razionali sono proprie dell’uomo, non agiscono in un unico senso, ma possono agire in più sensi, a seconda della loro libera scelta. Perciò le scelte che fanno e il senso in cui agiscono produce una disposizione costante (non infallibile) che è l’habitus; quest’habitus mentale produce le virtù che sono disposizioni pratiche a vivere rettamente e a rifuggire dal male. Tommaso eredita da Aristotele la distinzione tra virtù intellettuali e virtù morali; tra queste ultime le principali sono le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, prudenza e temperanza. Le virtù intellettuali e quelle morali sono virtù umane. Esse conducono alla felicità che l’uomo può conseguire in questa vita con le sole sue forze naturali. Ma per conseguire la beatitudine eterna esse non bastano; sono necessarie le virtù teologiche, direttamente infuse da Dio nell’uomo, che sono: la fede, la speranza e la carità.

La Politica

Il fondamento della teoria politica di S. Tommaso è l’infallibile legge del diritto naturale, che è una delle maggiori eredità che lo stoicismo ha lasciato al mondo antico e moderno e che, all’epoca di Tommaso era stata assunta a fondamento anche del diritto canonico. Infatti, secondo la filosofia di Tommaso, c’è una legge eterna, cioè una ragione che governa tutto l’universo e che esiste nella mente divina; di questa legge eterna, che poi è la legge di natura, vi un riflesso, una partecipazione negli uomini. Questa legge si concretizza in tre fondamentali inclinazioni:

  1. Quella verso il bene naturale, che l’uomo condivide con qualsiasi sostanza che desidera la propria conservazione;
  2. L’inclinazione speciale ad atti determinati, che sono quelli che la natura ha insegnato a tutti gli animali, come quella di unirsi il maschio con la femmina per l’atto procreativo, la guida e l’educazione dei figli e simili;
  3. L’inclinazione al bene secondo la natura razionale che è propria dell’uomo, come la ragionevolezza, il buon senso, l’inclinazione a conoscere la verità, a vivere in società.

Oltre questa legge eterna, che per l’uomo è legge di natura, ci sono altre due specie di leggi:

  1. Quella umana, inventata dagli uomini e per la quale si dispone in modo particolare delle cose cui già si riferisce la legge di natura;
  2. Quella divina che è necessaria per indirizzare l’uomo al il suo fine soprannaturale. Conformemente alla teoria del diritto naturale, Tommaso afferma che la legge che non rispetta il diritto naturale non è legge perché non è giusta. Questa norma è la prima regola della ragione umana e del diritto positivo costruito dagli uomini. La legge ha come fine primario e fondamentale quello di dirigere le condotte degli uomini verso il bene comune. Ora, ordinare qualcosa verso il bene comune è compito dell’intera collettività o di chi la rappresenta. Pertanto, stabilire le leggi spetta alla collettività, al popolo o all’autorità che lo rappresenta. In questo modo Tommaso ha affermato l’origine popolare delle leggi. Tuttavia, tra le forme di governo enunciate da Aristotele, egli ritiene che la forma migliore sia la monarchia perché è quella che meglio garantisce l’ordine, l’unità dello stato ed è la più simile allo stesso governo divino del mondo.

Ma lo Stato, se può indirizzare gli uomini alla virtù, non può indirizzarli alla fruizione di Dio, che è il loro fine ultimo. Un tale governo spirituale spetta solo a quel re, che non è soltanto uomo, ma anche Dio, cioè a Cristo. E come il fine meno alto si subordina a quello più alto, l’autorità inferiore si subordina a quella superiore, cosi il governo civile deve subordinarsi al governo religioso che è proprio di Cristo e che da Cristo fu affidato, non ai re terreni, ma al papa che è il suo vicario in terra. A lui, come allo stesso Signore Gesù Cristo, devono essere soggetti i re di tutti i popoli cristiani della terra.

L’Estetica

Le idee che S. Tommaso esprime sull’estetica sono desunte dalla Pseudo Dionigi l’Areopagita e sono di chiara ispirazione neoplatonica.

Secondo S. Tommaso, il bello è un aspetto del bene. E’ identico al bene e, in quanto bene, tutti lo desiderano e, se è desiderato, è anche un fine. Ma del bello ciò che si desidera è la visione (aspectus)o la conoscenza: a differenza del bene, il bello è in rapporto con la facoltà conoscitiva. Se è tale, tra i sensi quelli che hanno maggiore capacità conoscitiva sono la vista e l’udito, che servono alla ragione; diciamo belle le cose visibili e i suoni armonici, ma non i sapori e gli odori. Nella bellezza ciò che piace, non è l’oggetto, ma è l’apprensione (aprehensio) dell’oggetto.

Tommaso attribuisce al bello tre caratteri fondamentali: l’integrità o perfezione; la proporzione o congruenza delle parti; la chiarezza. E questi caratteri si ritrovano, non solo nelle cose sensibili, ma anche nelle cose spirituali, le quali hanno anch’esse una loro bellezza. Se diciamo che è bello un corpo quando è ben proporzionato, diciamo che è bello anche un discorso o un’orazione quando è ben proporzionata ed ha la spirituale chiarezza della ragione. Ed è bella la virtù perché modera con la ragione le faccende umane.

Un’immagine poi si dice bella se rappresenta perfettamente il suo oggetto, anche se esso è brutto. In questo senso Tommaso, seguendo Agostino, vede la perfetta bellezza nel Verbo di Dio, che è l’immagine perfetta del Padre.

il saggio è ispirato al testo italiano “Storia della Filosofia” di Nicola Abbagnano.