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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

Archive for Maggio, 2010

Rapporti tra Linguaggio interiore e Linguaggio esteriore secondo Vygotsky

Posted By Felice Moro on Maggio 29th, 2010

Rapporti tra Linguaggio interiore e Linguaggio esteriore secondo Vygotsky

In quest’articolo, come in quelli precedenti e in altri che seguiranno, si è cercato d’illustrare le principali scoperte scientifiche di L. S. Vygotsky e della sua equipe, che insieme avevano creato la Scuola Storico-Culturale di Mosca. La sintesi del lavoro sperimentale e dei risultati ottenuti sono stati esposti dall’Autore nella sua opera principale intitolata Pensiero e Linguaggio.

Si tratta di un’opera di divulgazione scientifica, la cui lettura a primo acchito può apparire non semplice, non piacevole e di non facile comprensione. Pertanto in questa serie di articoli si è cercato di compiere un non semplice lavoro di esegesi, cercando di delinearne sinteticamente i contenuti, senza tradire i loro significati concettuali. Lo scopo è quello di rendere i risultati della ricerca sperimentale fruibili nell’azione educativa della scuola, della famiglia o delle altre agenzie educative, che intendono impostare il loro lavoro sulla base dei risultati di una seria ricerca.

La tematica dei rapporti tra il Linguaggio interiore e quello esteriore appare come uno dei temi più interessanti del libro per una serie di motivi che esamineremo qui di seguito.

Nell’introdurre l’argomento l’Autore avverte sul fatto che, per comprendere adeguatamente il Linguaggio interiore,  bisogna partire dal presupposto che si tratta di un tipo di linguaggio che ha struttura e funzioni del tutto particolari, che bisogna studiare e conoscere nelle loro specificità, onde comprenderne la portata e le sue implicazioni.

Anzitutto per comprendere le sue caratteristiche, bisogna comprendere quali rapporti esso contrae, da un lato con il pensiero, cioè con il linguaggio “per se stessi”; dall’altro lato con la parola, cioè con  il linguaggio “per gli altri” che rappresentano il mondo esterno in generale.

Infatti, mentre il linguaggio interiore è un linguaggio utilizzato per dialogare con se stessi, il linguaggio esteriore, che si esprime con la sonorità della parola parlata o con la simbologia della parola scritta, è un linguaggio che serve per comunicare con gli altri.

Una volta chiarita questa differenza di fondo, per conseguenza logica bisogna ammettere che la differenza di funzione si trascina dietro anche una differenza di struttura.

A questo riguardo l’Autore scrive: “Il linguaggio esteriore è quel processo per cui il pensiero si trasforma nelle parole, si materializza e si obiettivizza in esse; quello interiore, invece, segue la direzione opposta, è quasi un processo di volatilizzazione del linguaggio nel pensiero. Da questa differenza funzionale hanno origine importanti differenze strutturali tra i due linguaggi”.

Con l’impiego del termine volatilizzazione lo studioso moscovita vuole significare tutta la difficoltà che comporta l’analisi del linguaggio interiore che investe un’area nascosta e silenziosa del comportamento verbale dell’individuo. Indagare su questo processo è un’impresa difficile come quella di cercare di conoscere che cosa c’è nell’altra faccia buia della luna.

Molto onestamente egli riconosce che il primo studioso che ha dedicato una particolare attenzione a questo tipo di linguaggio è stato il fondatore della psicologia clinica e direttore dell’Istituto J. J. Rousseau di Ginevra: Jean Piaget.

Infatti questi aveva posto al centro dei suoi studi il linguaggio egocentrico del bambino.  Egli aveva compiuto le sue indagini con campioni sperimentali limitati (i suoi  figli) e i mezzi scientifici che, a suo tempo, riuscì ad avere a disposizione, ma il tutto era stato compensato dalla profusione di un attento e sistematico lavoro longitudinale che aveva occupato oltre la metà del secolo XX .

Dalle sue ricerche lo studioso ginevrino deduce la sua verità, secondo cui, il linguaggio egocentrico occupa una fase intermedia che sta tra la prima fase del linguaggio di tipo autistico del bambino molto piccolo e la terza fase del linguaggio socializzato che emerge all’inizio della prima scolarizzazione. Ma, con l’affermarsi del linguaggio sociale, il linguaggio egocentrico viene meno, si atrofizza e scompare definitivamente, lasciando il campo libero al linguaggio comunicativo.

Il Vygotsky non é convinto di questa interpretazione che considera insufficiente a spiegare il fenomeno. Perciò si cimenta nella ricerca e investe tempo, fatica e risorse per approfondire la questione. Alla fine della sperimentazione espone i risultati conseguiti nel lavoro nella sua opera principale: Pensiero e Linguaggio.

Secondo lui, lo studioso ginevrino avrebbe sbagliato l’interpretazione di alcune caratteristiche fondamentali del linguaggio egocentrico: la genesi, la struttura e le funzioni.

E con dati alla mano, egli sostiene che il linguaggio egocentrico è in qualche modo collegato al linguaggio interiore per un triplice ordine di  motivi:

a)      Funzionale, perché il linguaggio egocentrico assolve ad una sua funzione simile a quella del linguaggio interiore;

b)      Strutturale, perché il linguaggio egocentrico è strutturalmente affine a quello interiore;

c)      Genetico, perché da una serie di dati emersi dalla ricerca, si può desumere il fatto che, all’inizio dell’età scolare (quella alla quale Piaget faceva risalire la scomparsa del linguaggio egocentrico) ha inizio l’attività del linguaggio interiore. Questa coincidenza temporale con il cambiamento  strutturale e funzionale dei due processi ha fatto sorgere il dubbio secondo cui, in quella fase dell’età evolutiva, il linguaggio egocentrico non scompaia, ma che vada in profondità generando il linguaggio interiore.

E se l’ipotesi è corretta, il linguaggio egocentrico può offrire la chiave di volta per comprendere il linguaggio interiore perché esso è sonoro e vocalizzato nella forma, ma interiore nella struttura e nella funzione.

Perciò bisogna riconoscere che il linguaggio egocentrico è un tipo di linguaggio interiore, colto nel tratto iniziale del suo cammino verso la struttura psichica interna. E’udibile all’esterno e così si rende accessibile anche  all’osservazione sperimentale che lo segue nella sua evoluzione, registra la graduale scomparsa di alcune sue caratteristiche e la progressiva comparsa di altre. E tutto questo lavorio attento e mirato offre la possibilità di studiare e conoscere almeno alcuni tratti essenziali di questo tipo di linguaggio interno.

Lo studioso russo ricorda anche che, per Piaget, il Linguaggio egocentrico del bambino è la manifestazione immediata del suo egocentrismo che, a sua volta, è un compromesso tra l’autismo iniziale e il suo progressivo decentramento che consente la socializzazione del pensiero infantile. L’egocentrismo è un compromesso dinamico perché, man mano che si evolve, perde via via gli elementi autistici, acquistando i tratti del pensiero socializzato. Ciò fino al momento in cui, sia nel pensiero che nel linguaggio, l’egocentrismo scompare definitivamente.

Questa conclusione poi appare quanto meno discutibile anche per altri motivi, uno dei quali la constatazione che una buona dose di egocentrismo, sia linguistico che psicologico, permane anche nell’età adulta. Affermazione, questa, che verrà ripresa più tardi dal Piaget precisando che l’egocentrismo infantile non dev’essere confuso con l’individualismo sociale dell’adulto di matrice rousseauina.

A parte quest’osservazione e attenendoci alle risultanze della sperimentazione ci sono ancora altre osservazioni da fare.

Secondo Vygotsky, la linea evolutiva dello sviluppo del linguaggio segue una parabola di segno opposto a quella indicata dal Piaget. Ciò perché il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta, non tanto una fase terminale dello sviluppo, quanto l’inizio di un fenomeno di transizione delle attività espressive, dalle funzioni psicologiche esteriori a quelle interiori;  cioè rappresenta un momento di passaggio da una forma di attività sociale e collaborativa a forme di attività psichiche individuali.

Secondo l’esperto, proprio in questo momento ha origine la biforcazione del linguaggio comunicativo che va articolandosi in due rami, di cui, un ramo va verso l’interno, costituisce il linguaggio per se stessi, potenziando le attività cogitative della mente; mentre l’altro ramo, continua la sua evoluzione originaria di natura sociale, costituisce il linguaggio per gli altri, che cresce, si evolve e si afferma con lo sviluppo, l’età, l’esperienza e la cultura.

Mentre l’individuo all’esterno manifesta una progressiva socializzazione del linguaggio verbale, all’interno compie una corrispondente maturazione silenziosa nella crescita della personalità individuale. Pertanto la maggiore completezza del linguaggio esteriore è una spia della crescita interiore dell’individuo.

In conseguenza di questa maturazione globale della personalità, mutano anche la struttura e la funzione del linguaggio egocentrico. Esso allora assume un altro significato funzionale correlativamente alle sue nuove funzioni e alla sua nuova struttura.

Dal punto di vista funzionale il linguaggio egocentrico è affine al linguaggio interiore e questo rappresenterebbe uno stadio più elevato  del suo processo evolutivo.

Inoltre, a proposito di linguaggio egocentrico, si può dire che all’età di 3 anni, non c’è differenza tra il linguaggio egocentrico e quello comunicativo. La differenza cresce con l’età e lo sviluppo, per cui, a 7 anni, il linguaggio egocentrico si differenzia notevolmente da quello socializzato.

Questa vistosa differenza significa che la sua forbice evolutiva, anziché chiudersi come sostiene Piaget, è andata aprendosi con l’età e pare che tale apertura sia dovuta alla progressiva differenziazione delle funzioni verbali.

La conclusione che si può trarre è quella secondo cui, partendo inizialmente da un’indifferenziata funzione verbale, col superamento dell’egocentrismo, si arriva alla distinzione di un linguaggio per se stessi e di un linguaggio per gli altri.

A causa della sua cambiata funzione, il linguaggio interiore deve perdere tutti gli aspetti di quello esteriore sonoro e perciò deve far scomparire la vocalizzazione che deve scendere a zero.

In questo modo viene spiegato il declino del coefficiente del linguaggio egocentrico nel periodo compreso tra i 3 e i 7 anni. Infatti con il suo progressivo isolamento, questo tipo di linguaggio diventa linguaggio per se stessi, la vocalizzazione diventa inutile perché l’individuo conosce già in partenza il contenuto della frase che ha pensato già da prima di pronunciarla.

Infatti il linguaggio per se stessi, non potendosi manifestare strutturalmente come linguaggio esteriore, deve necessariamente trovare un’altra forma espressiva.

Ad un certo punto, avendo esso già raggiunto il livello funzionale di linguaggio per se stessi, necessariamente deve separarsi dal linguaggio per gli altri e perciò stesso deve cessare di essere linguaggio sonoro e dare l’illusione di scomparire completamente.

La progressiva differenziazione del linguaggio egocentrico dal linguaggio comunicativo dev’essere considerata come l’effetto di una crescente capacità di pensare le parole prima di pronunciarle, nonché la capacità di operare con le loro immagini, anziché con le parole stesse.

La differenza tra il linguaggio interiore e quello esteriore è data dall’assenza di vocalizzazione.

Il linguaggio interiore è una forma di linguaggio muto, silenzioso e a questo fine tende il linguaggio egocentrico: a perdere la sonorità e a diventare gravido di dinamismo semantico, ma muto nella forma.

Il processo naturale di perdita della vocalizzazione/sonorità dipende dalla progressiva differenziazione del linguaggio esteriore secondo un passaggio che ha la seguente progressione:

Linguaggio esteriore> Linguaggio egocentrico> Linguaggio interiore.

Pertanto il linguaggio egocentrico tende ad evolvere verso il linguaggio interiore.

Prima l’uno e poi l’altro, entrambi questi due linguaggi hanno una sintassi particolare che li avvicina e li caratterizza: la frammentarietà, l’abbreviazione e la contrazione di alcune parti strutturali o delle espansioni. Pertanto il linguaggio interiore, anche se potessimo registrarlo su un fonografo, risulterebbe abbreviato, frammentario e incomprensibile rispetto a quello esteriore, sempre più completo nelle strutture e più articolato negli attributi e nelle espansioni.

Anche il linguaggio egocentrico, antecedente genetico di quello interiore, presenta la sua dose di frammentarietà e incomprensibilità rispetto a quello esteriore.

A questo punto l’Autore scrive: “Tutte le caratteristiche del linguaggio interiore descritte giustificano la nostra tesi: che il linguaggio interiore rappresenta una funzione a sé stante, indipendente, autonoma, che si differenzia completamente dal linguaggio esteriore”. Perciò il linguaggio interiore è un particolare aspetto interiore del pensiero verbale che media il rapporto dinamico tra il pensiero (l’attività della mente) e la parola (attività fono-articolatoria del linguaggio esteriore).

Il passaggio dal linguaggio interiore a quello esteriore non è un semplice passaggio come quello che si fa passando da una lingua a un’altra; ma esso comporta una completa ristrutturazione del tipo di linguaggio, la trasposizione dalla sintassi autonoma e indipendente del linguaggio interiore di natura intuitiva, in altre forme strutturali tipiche del linguaggio esteriore, logico ed oggettivo, che diventa un patrimonio pubblico alla portata di tutti.

La commutazione, di un tipo di linguaggio in un altro tipo, comporta una complessa e dinamica trasformazione da una forma di linguaggio predicativo ed idiomatico individuale, in un altro tipo di linguaggio, più articolato e più strutturato, in modo da essere reso comprensibile dagli altri.

Santa Rita da Cascia

Posted By Felice Moro on Maggio 23rd, 2010

Rita da Cascia, ogni fedel  ti adora

delle cose impossibili avvocata;

difesa di ogni causa disperata,

conforto di chi soffre, spera, implora.

Sei stata sposa e madre addolorata

colpi, ferite e duol ricevi ognora;

umil  li offri a Gesù, a Nostra Signora

di tuo sposo e tuoi figli ti hanno orbata.

Il ventidue di maggio a te le rose,

dei giardini in omaggio il più bel fiore,

ti portano le madri, figlie e spose

che ti offrono le pene di lor cuore

che ti mostran lor piaghe dolorose

perché tu le presenti al Redentore.

Se poi di grazie  ce ne dai una sola:

dacci la pace in cor che ci consola!

Altre Considerazioni di Vygotsky sul rapporto tra Sviluppo e Apprendimento

Posted By Felice Moro on Maggio 20th, 2010

Il punto di partenza

Dagli studi condotti nella Scuola Storico-culturale di Mosca, Vygotsky annuncia molti risultati importanti delle indagini sperimentali, di cui dovrebbero tener conto gli insegnanti, i genitori e gli altri operatori scolastici responsabili della costruzione dei curricoli e della stesura dei Piani dell’Offerta Formativa (POF).

Premesso quanto già detto nel precedente articolo incentrato sulla stessa tematica e cioè:

–          che la grammatica e la scrittura sono due discipline di fondamentale importanza per lo sviluppo del linguaggio;

–           che il linguaggio corretto ed elaborato, a sua volta, rende possibile e rinforza lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori necessarie per l’apprendimento delle materie basilari del curriculum scolastico;

il Vygotsky enuclea una serie di altri concetti emersi dalla sua ricerca, che contribuiscono a suffragare la sua tesi della prevalenza della funzione dell’apprendimento su quella della maturazione spontanea, fino a fare emergere una contrapposizione teorica con la tassonomia dello sviluppo mentale del bambino del suo collega ginevrino J. Piaget.

Esponendo i risultati della sua ricerca, il Vygotsky dichiara:

1) Insegnamento e sviluppo

Una prima serie d’indagini era incentrata sulla relazione temporale tra il processo d’insegnamento e lo sviluppo delle funzioni psicologiche corrispondenti. Abbiamo scoperto che generalmente l’istruzione precede lo sviluppo e che il bambino acquisisce certe abitudini e certe capacità in alcune aree cognitive prima d’imparare ad applicarle consapevolmente e deliberatamente. Ciò perché non vi è mai un completo parallelismo tra l’istruzione,  che ha i suoi tempi, le sue sequenze e le sue regole, e le funzioni che essa mette in moto, che obbediscono a leggi interne dello sviluppo, che sfuggono all’analisi dell’osservatore. Pertanto la conclusione sperimentale è quella secondo cui l’insegnamento non segue, ma precede lo sviluppo e lo guida attraverso una continua interazione con i risultati che esso stesso consegue durante il suo svolgimento.

2)      Il transfert

In una seconda serie d’indagini gli studiosi hanno messo a fuoco il processo del transfert nell’apprendimento. Essi sono arrivati così a scoprire che lo sviluppo intellettuale non segue un percorso atomistico, parcellizzato e settoriale in accordo con le materie d’insegnamento come sosteneva il comportamentismo di Thorndike, ma al contrario, il suo corso è unitario, le differenti materie scolastiche interagiscono tra di loro nella genesi e nello svolgimento del processo evolutivo fortemente coeso. Anzi, indagando sul dinamismo psicologico di questo processo, sono stati scoperti anche altri fatti ad esso collegati, quali:

–          che i prerequisiti degli alunni inizialmente sono in gran parte gli stessi per le diverse materie scolastiche;

–          che l’istruzione data in una materia produce effetti, non settoriali confinati nell’ambito di quella stessa disciplina, ma generali e perciò capaci di coinvolgere l’intero sviluppo delle più elevate funzioni psichiche;

–          che le principali funzioni intellettive coinvolte nello studio delle diverse materie sono fondamentalmente interdipendenti.

La conseguenza logica dei risultati ottenuti attraverso questi esperimenti è stata la dimostrazione scientifica secondo cui tutte le materie scolastiche fondamentali fungono da disciplina formale per lo sviluppo intellettuale dell’individuo. Ciò perché, attraverso un meccanismo psicologico e motivazionale di influenze reciproche, ciascuna di esse facilita l’apprendimento dell’altra. Quest’affermazione farebbe pensare che le nuove scoperte legittimino il principio su cui si basava l’istruzione formale del passato come palestra per la formazione della mente e che la Riforma Gentile nel 1923 non fosse lontana dall’intuizione di questa verità. In realtà si tratta di una rassomiglianza più apparente che reale perché effettivamente le cose non stanno proprio così. Infatti, tra l’istruzione teorica formale di matrice filosofica fortemente selettiva del passato e l’istruzione scientifica di matrice sperimentale moderna, universale nei fini e democratica nei metodi, c’è una differenza sostanziale. Certamente si dirà che, allora come adesso, la finalità più importante era sempre quella della formazione dell’uomo. Domanda alla quale si può rispondere che, se anche l’istanza generale era e resta quella, vi è una grande  differenza nella filosofia di fondo sottesa alla domanda stessa: allora si trattava di preparare gli individui che avrebbero svolto il ruolo dei futuri quadri dirigenti di quella società stratificata e assestata al suo interno; adesso si tratta di formare insieme l’uomo e il cittadino del mondo di una società fortemente dinamica, democratica, multietnica, pluriculturale e globalizzata, che popolerà il pianeta nel terzo millennio.

3)      L’area di sviluppo potenziale

In una terza serie di ricerche sono state fatte osservazioni sul rapporto apprendimento/sviluppo, investigando sull’area di sviluppo potenziale.

Sintetizzando i risultati della sperimentazione, Vygotsky scrive:

Abbiamo trovato che l’età mentale di due bambini era di 8 anni, abbiamo dato a ciascuno di loro problemi più difficili di quelli che essi avrebbero saputo trattare da soli e abbiamo dato loro un po’ d’aiuto … Abbiamo scoperto che con un po’ d’aiuto, un bambino poteva risolvere problemi destinati a bambini di 12 anni, mentre l’altro non poteva risolvere problemi di grado superiore di quelli destinati a bambini di 9 anni. Il divario tra l’età mentale effettiva di un bambino e il livello che egli raggiungeva risolvendo certi problemi con un po’ d’aiuto indica la zona di sviluppo prossimale o potenziale.

Nel nostro esempio questa zona è di 4 anni per il primo bambino e di un solo anno per il secondo. Sinceramente non possiamo dire che lo sviluppo sia lo stesso. L’esperienza ha dimostrato che il bambino con la più vasta area di sviluppo prossimale riuscirà meglio a scuola.

4)      L’imitazione.

Nello sviluppo mentale del bambino, l’imitazione e l’insegnamento svolgono un ruolo molto importante. Nell’imparare a parlare, come nell’imparare le materie scolastiche, l’imitazione è indispensabile. Ciò che il bambino può fare in cooperazione con altri oggi, potrà fare da solo domani. Perciò l’unico tipo d’istruzione efficace è quello che precede lo sviluppo, lo guida e si autoalimenta con i propri risultati accrescendo la conoscenza e la motivazione. Esso dev’essere diretto, non tanto alle funzioni mature e già pronte, quanto a quelle ancora in fieri, in fase di maturazione. Spesso le nostre scuole hanno proposto all’alunno problemi che egli sapeva già risolvere da solo senza l’aiuto dell’adulto e così facendo gli hanno creato stanchezza e apatia. In questo modo egli non cresce o cresce poco perché non utilizza l’area di sviluppo prossimale. Pedagogicamente sarebbe stato più opportuno dirigere il bambino ad affrontare lo studio delle cose che non sa ancora fare e che perciò sono in grado di stimolare la sua curiosità e di suscitare in lui nuove energie motivazionali.

Così facendo, l’insegnamento viene portato avanti “per punti deboli” e il bambino non viene incoraggiato a crescere e a progredire; mentre se è rivolto ai “punti forti” (quello che il bambino non sa) il suo sviluppo verrà stimolato a crescere perché scattano in lui le molle psicologiche della motivazione a scoprire le cose nuove.

5)      Richiamo alla Montessori.

Poi, rifacendosi a un principio comune nella pedagogia scientifica secondo cui per l’insegnamento di ciascuna materia di studio vi è un periodo ottimale, il Vygotsky scrive: “Maria Montessori e altri educatori li hanno chiamati periodi sensitivi. Il termine proviene dalla biologia e indica il periodo in cui l’organismo è particolarmente sensibile e ricettivo a certi tipi d’influenza. L’insegnamento dato prima o dopo o comunque al di fuori di quelle fasi non dà gli stessi risultati”.

L’esistenza di periodi ottimali per l’insegnamento di determinate materie non può essere spiegata soltanto in termini di pulsioni di natura biologica; o per lo meno una tale spiegazione non può valere per l’elaborazione di processi complessi come quelli che comportano l’apprendimento del linguaggio scritto che, come è stato detto in precedenza, è il codice simbolico di un altro codice (il linguaggio parlato).

Ad un certo punto lo studioso dichiara:

“Dalle nostre indagini risulta che il linguaggio scritto è in connessione con la cooperazione che il bambino stabilisce con il mondo adulto (genitori e/o insegnanti) specialmente con l’attività dell’insegnamento diretto”.

Poi continuando aggiunge: “I dati della Montessori conservano la loro importanza. Essa scoprì, per esempio, che se a un bambino si insegna molto presto a scrivere, a quattro anni e mezza o cinque anni, egli risponde con uno scrivere esplosivo, un uso abbondante e fantasioso del linguaggio scritto che non trova riscontro in bambini che hanno qualche anno di più. Questo è un esempio sorprendente della forte influenza che l’insegnamento può avere quando le funzioni non sono pienamente mature. L’esistenza di periodi sensibili per l’insegnamento di tutte le materie  risulta confermato dai nostri studi.

Gli anni scolastici costituiscono il periodo ottimale per l’insegnamento delle operazioni che richiedono consapevolezza e controllo intenzionale”.

6) Concetti scientifici e concetti spontanei.

Sotto il controllo del maestro, l’allievo Zh. I. Shif aveva condotto una ricerca sperimentale sul rapporto esistente tra lo sviluppo dei concetti scientifici e quelli di ordine quotidiano con alunni della scuola primaria. Agli allievi venivano proposti test strutturati apparentemente simili tra di loro nella forma, ma alcuni di essi riferiti a contenuti di ordine scientifico, altri a materiale di esperienza comune e venivano confrontate le risposte. I test richiedevano l’invenzione di storie sulla base di una serie di immagini che davano qualche spunto per l’inizio, lo sviluppo e la fine della storiella stessa e comprendevano frammenti di frasi che terminavano con connettivi logici come perché, se, sebbene ecc.; poi le prove venivano completate con un colloquio clinico.

L’esperimento era stato fatto con bambini di due fasce di età, del secondo e del quarto anno e in entrambi i casi i risultati erano stati sorprendenti perché gli allievi, in percentuale, avevano dato risposte corrette più negli argomenti che contenevano concetti scientifici, che in quelli che contenevano problemi di ordine quotidiano riferiti a esperienze di vita che loro facevano tutti i giorni.

Traendo le conclusioni, lo sperimentatore si chiede: ma com’è possibile questo fatto?

Risponde l’esperto: “Perché il maestro, lavorando con lo scolaro, ha spiegato, fornito informazioni, interrogato, corretto e fatto spiegare allo scolaro stesso”. In questo modo i suoi concetti sono venuti formandosi attraverso il processo d’insegnamento e la collaborazione con l’adulto. L’aiuto del maestro è rassicurante e, anche nella sua presenza invisibile, mette il bambino in grado di risolvere meglio i concetti scientifici (per i quali ha punti di riferimento linguistici ben precisi) piuttosto che quelli spontanei che, nonostante siano riferiti alla sua esperienza di vita quotidiana, mancano di punti dei riferimento concettuale sicuri forniti dall’adulto.

Il rapporto tra lo Sviluppo Neurofisiologico e l’Apprendimento Scolastico

Posted By Felice Moro on Maggio 15th, 2010

La relazione esistente tra lo sviluppo mentale conseguito per evoluzione naturale e l’istruzione scolastica è una tematica psicopedagogica interessante, molto dibattuta negli ultimi decenni tra gli specialisti della materia.

Una volta si pensava che tra lo sviluppo derivante dalla maturazione neurofisiologica degli organi e l’apprendimento scolastico non ci fosse alcun rapporto diretto. Tutto al più si ammetteva un semplice nesso temporale di causa ed effetto nel senso che prima doveva avvenire il processo di maturazione degli organi preposti all’apprendimento in rapporto all’età e allo sviluppo psicofisico. Il discorso era riferito al percorso di maturazione fisiologica dei grandi neuroni delle aree corticali del cervello e al connesso processo di mielinizzazione delle fibre nervose deputate alla conduzione degli impulsi in rete, dalla corteccia cerebrale ai nuclei sottocorticali e agli altri distretti del sistema nervoso centrale.

Compiuta questa prima tappa del processo evolutivo, si riteneva che il bambino fosse pronto per ricevere i doni dell’istruzione. Normalmente, da quando nel sistema scolastico italiano fu introdotto il principio dell’obbligatorietà della frequenza oltre centocinquanta anni fa, a sei anni scattava l’obbligo scolastico per cui, a partire da tale età, il bambino doveva essere a scuola per apprendere l’istruzione formale che gli  consentiva d’imparare a leggere, a scrivere e a  far di conto.

Ancora oggi i tempi fisiologici e legali sono quelli e l’età di sei anni segna l’inizio della prima tappa del lavoro dedicato all’alfabetizzazione strumentale; dopo di che si passa gradualmente e progressivamente alla seconda fase, quella dell’alfabetizzazione culturale. Naturalmente questa è la fase più lunga, più complessa e più delicata, che dura almeno un triennio nella scuola primaria e si prolunga durante la frequenza della scuola secondaria. E’ una fase molto importante perché imposta la conoscenza dei saperi e l’apprendimento ordinato e sistematico di tutti gli alfabeti verbali, figurativi, scientifici e tecnologici necessari affinché il bambino possa comprendere, leggere e orientarsi nella complessa realtà della vita moderna.

Il pregiudizio pedagogico e culturale del passato (che in parte resiste ancora)  è quello secondo cui i due processi, maturazione e apprendimento, sono due funzioni separate sia in senso strutturale che funzionale, ancorché a una certa età vengano a giustapporsi tra di loro, stabilendo così complessi circuiti di reciprocità funzionale. E se qualcuno si accontenta della prima condizione dello sviluppo, come d’altronde l’umanità aveva fatto per secoli e millenni; qualche altro non si accontenta più dello sviluppo bio-fisiologico regolato da una scansione naturale e, se ha i mezzi e la consapevolezza dei benefici che ne derivano, cerca di cogliere anche i frutti dell’istruzione con la speranza di procacciarsi un avvenire migliore per e per i propri figli.

Comunque la convinzione generale di una parte dell’opinione pubblica resta sempre quella secondo cui l’educazione è una cosa in più, un’aggiunta non necessaria alla vita, una sovrastruttura possibile da realizzare soltanto sopra la struttura dello sviluppo. La teoria poggia sul presupposto che ogni forma d’istruzione o di conoscenza richiede un certo grado di maturità neurofisiologica degli organi per poter compiere determinate funzioni sul piano astratto e simbolico. Non si può forzare la natura per tentare d’insegnare al bambino a leggere e a scrivere prima del tempo o della sua maturazione psicofisica. In questa prospettiva l’istruzione non può che essere una  variabile dipendente dallo sviluppo cui resta subordinata. Lo sviluppo deve completare i suoi standard evolutivi prima che l’istruzione possa incominciare il suo corso.

In un certo qual modo anche la tassonomia dello sviluppo di Piaget è ispirata alla filosofia della prevalenza dello sviluppo sull’apprendimento. Infatti egli ritiene che il pensiero del bambino, nel suo percorso evolutivo, passi attraverso fasi e stadi indipendentemente dall’istruzione che riceve o può non ricevere, ma che rimane sempre come un fattore a parte.

Il comportamentismo costruisce le sue teorie della conoscenza sulla base del principio strutturale dello stimolo/risposta. Autori come James e Thorndike spiegano lo sviluppo intellettuale del bambino come una variabile dipendente dal graduale accumularsi dei riflessi condizionati. Cioè vedono lo sviluppo allo stesso modo in cui vedono l’apprendimento. Ma se il processo di sviluppo dovesse coincidere con quello dell’istruzione i loro prodotti diventerebbero identici e perciò l’istruzione diventerebbe sinonimo di sviluppo e viceversa. Il che appare la logica conseguenza di un ragionamento assai poco condivisibile.

La Psicologia della Gestalt con Koffka afferma che qualsiasi sviluppo presenta due aspetti: la maturazione e l’apprendimento; e rifacendosi all’aforisma dell’evoluzionista Lamark secondo cui “la funzione crea l’organo” dimostra che la maturazione di un organo dipende dal suo funzionamento e migliora durante l’apprendimento, l’esercizio e la pratica. Così che questa scuola assegna all’istruzione una funzione strutturale di primaria importanza. E la struttura, una volta formatasi in un campo, ha una sua funzione autonoma per cui può essere trasferita ad altri campi e utilizzata in altri contesti operativi. In questi casi viene a costituirsi l’abilità del transfert, cioè la capacità di trasferire le abilità conseguite in un campo ad altro campo dell’umano esperire.

J. S. Bruner ha fatto della struttura e del transfert le chiavi di volta delle sue teorie psicopedagogiche sull’apprendimento, che hanno dominato le scelte educative dei sistemi scolastici americani ed europei nella seconda metà del Novecento. Ma, già prima di lui, gli psicologi della Gestalt theory avevano dimostrato che l’istruzione data al bambino in un settore può trasformare e potenziare altri settori delle sue mappe cognitive, della sua esperienza, del suo pensiero. Se le cose stanno così, si può logicamente dedurre il fatto che l’istruzione non deve sempre e necessariamente aspettare la maturazione, ma in certi casi, deve precederla o guidarla. Sotto certi aspetti questa teoria ci riporta all’antico concetto dell’istruzione formale di Herbart e al ruolo assegnato alla cultura umanistica, correnti di pensiero che in Italia hanno avuto un importante riscontro applicativo nella Riforma scolastica fatta da Giovanni Gentile  nel 1923. Infatti in quella Riforma le materie classiche come il greco, il latino e la filosofia offrivano le opportunità di addestramento e di formazione delle giovani menti e pertanto costituivano la spina dorsale dei curricoli scolastici. Gli oppositori furono molti, in modo particolare i Comportamentisti, che fecero di tutto per scardinare gli effetti formativi dell’istruzione formale, soprattutto nei settori della lingua e della matematica che hanno il potere di creare un’incidenza profonda a livello di concetti complessi, quali l’astrazione, la memoria, il ragionamento, l’autocontrollo.

Nella polemica su questo dibattito si inserisce la ricerca di Vygotsky, dei suoi collaboratori, Luria e Leontiev, e degli altri componenti dell’equipe della Scuola Storico-culturale di Mosca, che riafferma a chiare lettere i vantaggi formativi dell’istruzione formale, specialmente della lingua e della matematica. Nell’ambito della lingua, in modo particolare, essa riafferma la valenza fortemente formativa della grammatica.

A questo riguardo Vigotsky scrive: La grammatica sembra avere poca importanza nell’uso pratico. Al contrario di altre materie scolastiche, non sembra dare al bambino nuove capacità. Egli coniuga e declina prima di entrare a scuola. E’ stato pure suggerito di sopprimere nella scuola l’insegnamento della grammatica. Possiamo solo rispondere che le nostre analisi hanno dimostrato che lo studio della grammatica è di fondamentale importanza per lo sviluppo mentale del bambino.

Quest’affermazione dovrebbe far riflettere molti tra gli addetti ai lavori: teorici dell’educazione, insegnanti, Capi d’Istituto e genitori.

Da parecchi decenni nella scuola italiana (e non solo), è invalsa “l’ira funesta” dei detrattori della grammatica. Sono state fatte affermazioni gratuite non rispondenti ai veri bisogni del bambino in situazione di apprendimento, quali:

–          Una materia arida, formata da regole e schemi astratti, il cui studio costa sforzo e fatica inutili perché non servono per un migliore apprendimento della lingua!;

–          la grammatica comporta l’apprendimento di regole formali astratte, ma la lingua è una cosa viva che si apprende in modo naturale dalla comunicazione orale e dall’uso pratico del linguaggio verbale nella conversazione, la lettura, la narrazione, il dialogo e nei contesti di vita pratica frequentati dal bambino.

Questo modo qualunquistico e distorto di pensare e di ragionare sta dando, purtroppo, i cattivi frutti dell’ignoranza e della diseducazione di intere generazioni, specialmente di quelle che appartengono alle frange più deboli della società, che non hanno avuto un valido supporto nella famiglia di appartenenza. Il linguaggio parlato da molti giovani in casa, tra gli amici e nella società se non anche dentro le istituzioni scolastiche, è spesso di basso profilo, scorretto nella forma grammaticale e sintattica, incompleto nelle parti strutturali (soggetto e predicato) povero nelle espansioni (complementi ed attributi), scialbo o anche troppo prosaico se non scurrile, nei contenuti.

Quando poi si passa dal linguaggio orale al linguaggio scritto la situazione peggiora notevolmente, sia nella forma (ortografia, grammatica, sintassi, periodo) sia nei contenuti che comportano astrazione, riflessione, pregnanza di idee e coerenza concettuale nelle argomentazioni.

Se poi è vero il teorema secondo cui il linguaggio è strumento del pensiero, figuriamoci quale strutturazione di idee, di pensieri e di concetti ne derivi a livello profondo dall’interiorizzazione di un linguaggio scorretto nella forma, deficitario nel lessico, approssimativo nei contenuti!

La scuola è l’istituzione appositamente deputata per compiere il processo d’insegnamento/apprendimento della lingua in maniera scientificamente corretta. Ma spesso si trova impotente ad intervenire in maniera efficace o resta complice involontaria delle mode linguistiche spontaneistiche o licenziose della sua utenza debole; e gli alunni appartenenti a questa fascia di utenza, spesso sono portatori di deficit cumulativi di apprendimento, che prima o poi portano all’insuccesso scolastico. Spesso gli stessi addetti ai lavori (insegnanti e altri operatori scolastici) restano allibiti e smarriti davanti all’impotenza dell’istituzione per invertire il cattivo andazzo degli alunni nello studio e nell’uso della lingua. Talvolta cercano di correre ai ripari con progetti e  interventi straordinari che potenziano l’offerta formativa per tentare di arginare i fenomeni negativi che causano dispersione scolastica. A fine anno scolastico si grida allo scandalo per la falcidia dei bocciati determinata, si dice, dall’applicazione dei Decreti del ministro Gelmini. L’Università sta progressivamente reintroducendo il “numero chiuso” e procedendo a sottoporre gli studenti a test e a forme selettive di accesso agli studi superiori per scegliersi i giovani migliori, eliminare la zavorra dei pluri-ripetenti e per diminuire l’esercito dei fuori corso che appesantiscono le sue strutture, dequalificano la didattica e abbassano gli standard di qualità degli studi.

Le cause dello scarso impegno o dell’indolente rifiuto dei giovani allo studio sono molteplici, alcune delle quali riferibili alle scelte di politica scolastica sbagliata fatte da parte dei vari governi di turno; altre sono riferibili alla mancata collaborazione o alla distorta interferenza delle famiglie nel percorso educativo dei figli; altre ancora sono riferibili all’inefficienza dell’offerta formativa. Questa spesso non riesce a motivare adeguatamente gli alunni onde incidere in maniera determinante nel loro apprendimento e nel loro comportamento, che vengono spesso influenzati o fuorviati dalle superficiali mode esteriori (pigrizia, esibizionismo, miti sbagliati, influenze negative del gruppo dei pari).

Per invertire la situazione di degrado dell’istruzione che in certe scuole sta diventando un fenomeno allarmante, occorrerebbe rivedere molte cose di cui non si può fare l’inventario in questa sede. Tanto per incominciare si potrebbe intervenire in maniera decisa e robusta rivalutando i curricoli e i programmi della Lingua Italiana.

Bisognerebbe ridare più spazio temporale e maggiore incisività all’attività didattica  dell’insegnamento/apprendimento della Lingua, al cui centro si dovrebbe riproporre l’educazione linguistica. La grammatica dovrebbe riprendere il suo ruolo di guida normativa della lingua, il più importante patrimonio pubblico della società organizzata che ha un’influenza determinante nello sviluppo della privatissima sfera del pensiero e delle idee di ciascuno di noi. Se correttezza linguistica implica correttezza e ricchezza di pensiero e viceversa, vedete un po’ voi genitori e insegnanti che cosa volete fare dei vostri figli/alunni, oggi nella scuola, domani nella società globalizzata del terzo millennio.

La posta in gioco è importante per cui non rimane altro da fare che collaborare attivamente. E anche la più fattiva collaborazione tra scuola e famiglia corre il rischio di essere una forza troppo debole e  insufficiente per preparare i giovani ad affrontare adeguatamente le sfide epocali che li attendono nella società del futuro. Altro che ignorarsi reciprocamente …!

Altro che perdere tempo in chiacchiere inutili o, peggio ancora, alimentare sterili contrapposizioni polemiche che corrono il rischio di depotenziare il già difficile percorso educativo dei giovani!