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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

Archive for Aprile, 2013

La discesa agli inferi e l’ascesa al cielo di Gesù

Posted By Felice Moro on Aprile 22nd, 2013

Saggi di Benedetto XVI (J. Ratzinger) sui temi: la discesa agli inferi e l’ascesa al cielo di Gesù 

Il lavoro qui presentato è tratto dal libro “Perché siamo ancora nella Chiesa”, pubblicato nell’anno  2007 dalla Casa Editrice Rizzoli. Il saggio è molto interessante perché indaga su una questione teologica di primaria importanza analizzata da uno specialista della disciplina con un metodo scientifico adeguato alla materia stessa. In questa sede il lavoro viene riportato in parte integralmente, in parte per riassunto semplificato e sintetizzato, onde renderlo più comprensibile e più accessibile  al comune lettore.

Come approccio alla problematica in apertura della discussione l’Autore avverte il lettore che nessun articolo della fede cristiana è così oscuro e lontano dalla nostra attuale sensibilità e coscienza, come questo che stiamo prendendo in esame.

Eppure nel Credo simbolo apostolico, ogni credente fa la sua professione di fede in Dio Padre Onnipotente e  in Gesù Cristo, nato da Maria Vergine, che patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò dalla morte, salì al cielo, dove siede alla destra di Dio Padre.

Di tutti gli articoli contenuti nella professione di fede, quello della discesa agli inferi è il più difficile da capire da parte dell’uomo comune, che vive nella società moderna massificata e secolarizzata. Per questo motivo spesso gli stessi credenti lo accantonano come un problema troppo arduo, difficile da capire e ancor più da spiegare. Ma accantonare una questione difficile non significa certo risolvere il problema che essa implica. Al contrario, sarebbe una scelta più saggia quella di cercare di approfondire la questione per tentare di darsi una spiegazione.

L’Autore premette che nel corso dell’anno liturgico, temporalmente questo momento è collocato nel giorno del Sabato Santo. Il Venerdì Santo è il giorno della passione e della crocifissione di Gesù e lo sguardo dei credenti è rivolto alla croce, mentre il Sabato è il giorno della morte del Signore. Il Relatore sottolinea il fatto che il messaggio contenuto nel testo in questione sembra preannunciare e precorrere l’inaudita esperienza del nostro tempo, in cui sembra che Dio non ci sia più, che non esista o che comunque sia assente dalla presenza e dalle premure quotidiane dell’uomo moderno.

“Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso!” aveva affermato Nietzsche. Proprio questa frase, che viene dalla tradizione cristiana della passione, esprime molto bene il valore intrinseco della discesa agli inferi  di Gesù nel Sabato della sua morte.

Ma accanto all’apparente assenza o alla non noncuranza di Dio per le sorti dell’uomo, nel Nuovo Testamento abbiamo anche altri esempi del suo  risveglio e delle sue improvvise sorprese, come quello della tempesta sedata, riportato nei Vangeli sinottici (Mc 4,35-41; Mt 8,23-27; Lc 8,22-25) e la storia di Emmaus riportata da Luca (Lc 24, 13-25). In quest’ultimo caso viene presentato l’episodio di due discepoli in cammino verso il villaggio di Emmaus, non molto distante da Gerusalemme. Mentre i due viandanti parlano tra di loro, sconvolti per fatti accaduti, si unisce ad essi un terzo viaggiatore, uno sconosciuto. I tre parlano degli ultimi avvenimenti verificatisi a Gerusalemme, che hanno portato all’uccisione in croce di Gesù di Nazareth. I due viandanti appaiono afflitti e delusi per la tragica fine del Messia e quindi  per la mancata realizzazione delle loro speranze riposte in Lui. E proprio mentre vanno avanti parlando di queste cose, non si accorgono che la loro speranza non è finita perché Dio non è morto, ma è accanto a loro, è con loro. Quello che è morto non è Dio, ma il loro mito di Dio, l’immagine che di Lui si erano costruiti essi stessi e le loro fallaci aspettative  riposte in un messianismo  di diversa natura.

L’articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda anche che della rivelazione cristiana fa parte, non soltanto il parlare di Dio, ma anche il suo tacere. Dio non è soltanto la parola comprensibile che si avvicina a noi, ma è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile, che ci sfugge mentre tentiamo di afferrarla. Certamente sappiamo che nel cristianesimo, in modo particolare nel prologo del Vangelo di Giovanni, c’è il primato del Logos, della parola rispetto al silenzio:

In principio era il Verbo e il verbo era Dio … e il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi … Dio ha parlato, Dio è la parola.

Ma oltre tutto, scrive l’Autore, “non dovremmo mai dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando Lo abbiamo conosciuto come silenzio, noi possiamo sperare di sentire anche la sua parola, la sua voce,  il suo parlare, che emana dal silenzio. La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell’amore divino, anche nella morte, nel silenzio e nell’oscuramento.

A partire da questa considerazione, appare logico che la Chiesa e la vita di ogni singolo uomo venga ricondotta sempre in quest’ora di silenzio dell’articolo dimenticato e messo da parte: la discesa agli inferi del Signore.

Se si tiene conto di questo, si comprende sicuramente meglio  il grido di morte di Gesù “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34) e il segreto della sua discesa agli inferi, che diventa visibile come l’irrompere di un lampo di luce accecante in una notte buia”.

Inoltre occorre ricordare che questa frase di dolore del Crocefisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele [Sal. 22 (21), 2] nella quale si esprimono in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio e, almeno in apparenza, da Lui abbandonato. Questa preghiera, che sale come richiesta nel momento dell’oscurità di Dio, finisce con l’esaltazione accorata della sua grandezza. Ernest Käsemann ha definito questo Salmo come una preghiera dagli inferi, come l’istituzione della prima preghiera nel deserto dell’apparente assenza di Dio. “Il Figlio mantiene ancora la fede anche quando questa sembra che sia diventata senza senso e la realtà terrena rivela il Dio assente … Il suo grido è indirizzato, non al vivere o al sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. questo grido è contro la realtà del mondo intero”.

“Noi, continua Ratzinger, abbiamo bisogno di chiederci qui: Che  cosa deve significare la preghiera nella nostra ora buia? Può essere qualcosa di diverso dal grido dal profondo insieme al Signore, il quale discese agli inferi e ha dato vita alla vicinanza di Dio paradossalmente proprio nel momento dell’abbandono di Dio?

Ma tentiamo ancora un’ulteriore riflessione per cercare di penetrare in questo complesso mistero con un’osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine “inferno” sarebbe una traduzione errata di schë ol (in greco hades), con il quale l’ebreo definiva la condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell’ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò originariamente la frase avrebbe significato solo che Gesù è entrato nello schë’ol, ovvero che è morto …”.

Allora si pongono altri quesiti importanti, del tipo:

Che cos’è veramente la morte? Che cosa accade all’uomo dopo la morte?

A queste domande l’Autore risponde nel modo seguente: “Possiamo tentare un avvicinamento al problema partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, ivi trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell’uomo. Il senso più profondo di quest’ultima preghiera di Gesù sembra che sia, non un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il totale abbandono. In questo punto appare veramente l’abisso della solitudine dell’uomo come tale, dell’uomo che nel suo intimo è sempre solo. Questa solitudine, che generalmente è coperta in vario modo con diversi palliativi illusori, è la vera condizione esistenziale dell’uomo; e questa condizione è in profonda contraddizione con la  sua essenza che è fatta, non per stare da solo, ma per essere in comunione con gli altri. Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venir meno dell’essenza; ma in questo momento l’essenza è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile recuperare.

Un esempio: se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta ombrosa nella notte buia, ha paura. Ha paura anche se gli si è dimostrato in maniera evidente che non c’è nulla da temere. Nel momento in cui egli è solo nell’oscurità e sente la solitudine in maniera radicale, sorge la paura, la vera paura dell’uomo, che non è paura di qualcosa, bensì la paura di sé. In fin dei conti la paura di qualcosa di determinato è innocua, può sempre essere esorcizzata allontanando l’oggetto o la causa che produce la paura.

Qui invece ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l’uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa, ma ha paura della solitudine, dell’inquietudine e della sospensione della sua essenza, che non può essere superata razionalmente.

Un altro esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione imbarazzante e inquietante. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla di male e che, in un certo qual modo, la sua situazione potrebbe diventare molto più pericolosa se la persona morta fosse ancora in vita. Quello che nasce qui è una paura di tutt’altro tipo, non paura di qualcosa, bensì dell’essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell’esistenza.

Ma la domanda resta sempre in piedi: dato il fatto che la prova dell’infondatezza cade nel vuoto, come può essere superata questa paura? Ora, tornando all’esempio del bambino, egli perderà la paura nel momento in cui sentirà vicino a sé una mano che lo prende, una voce che gli parla, un afflato umano che lo rassicura, cioè sente la presenza di una persona amica che gli vuole bene. E anche chi è solo con il morto, sentirà la sua paura svanire se qualcuno è con lui, se egli sente la vicinanza di un “tu”. Questa è un’ulteriore prova del fatto che la paura, è paura della solitudine, paura di un essere che è nato per vivere in comunione con gli altri. Pertanto la vera paura dell’uomo non può essere superata o vinta  con la ragione, bensì solo con la presenza di qualcuno che egli conosce, che gli rivolge una parola amica rassicurante.

Se esistesse una solitudine assoluta in cui nessuna parola di un altro potesse arrivare per suscitare l’effetto rassicurante; se sopraggiungesse una sospensione dell’esistenza tanto grave che in quel luogo non potesse giungere alcun “tu”, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e la terribilità che il teologo chiama ”inferno”. Soltanto allora possiamo capire cosa significhi questa parola: essa indica la solitudine nella quale non penetra più la parola dell’amore e perciò stesso costituisce la vera sospensione dell’esistenza.

Giova qui ricordare una verità: la convinzione dei poeti, dei filosofi e dei sapienti di tutti i tempi, secondo i quali, i rapporti tra gli uomini rimangono generalmente nella superficie; nessun uomo avrebbe mai l’accesso alla vera profondità dell’essere dell’altro; ogni incontro, per quanto possa apparire bello, salutare e proficuo, non fa altro che narcotizzare l’insanabile ferita della solitudine individuale. Ne deriva una conseguenza logica tremenda: nel profondo più intimo dell’esistenza di ciascuno di noi abiterebbe l’inferno, la disperazione, la solitudine radicale tanto indefinibile quanto terribile.

Jean Paul Sartre è uno dei tanti intellettuali che ha costruito la sua antropologia su quest’idea di solitudine, sull’isolazionismo sostanziale dell’individuo.

Non solo, ma anche un poeta equilibrato come Hermann Hesse, che sembra così conciliante e sereno, di fatto dà forma allo stesso pensiero quando afferma:

Strano vagare nella nebbia!

Vivere è essere soli.

Nessun uomo conosce l’altro,

ognuno è solo.

Qui sia consentito a chi scrive di compiere un’incursione nella letteratura italiana per fare una citazione che cade a proposito di questo discorso sulla solitudine esistenziale dell’individuo. Ciò perché il testo della poesia di Hesse richiama direttamente alla memoria la lirica di Salvatore Quasimodo “Ed è subito sera”:

Ognuno sta solo nel cuore della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Le categorie della solitudine e dell’incomunicabilità tra gli uomini sono modelli poetici archetipi. Pertanto  sono temi ricorrenti, non soltanto tra i poeti ermetici, ma in tutti i poeti di ogni tempo e di diverso indirizzo letterario.

Chiusa la parentesi. Tornando al nostro testo, il teologo afferma: “Una cosa è certa: c’è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare soltanto in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l’Antico Testamento abbia una sola parola per indicare sia l’inferno che la morte, il termine schë,ol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. La solitudine nella quale l’amore non può più penetrare: questo è l’inferno …!

Questo significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in quest’abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l’inferno è superato; ossia: la morte che prima era l’inferno, non lo è più …. L’inferno è ora soltanto una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.

Conseguentemente a queste premesse, l’Autore scrive: “Diventa chiaro anche il testo, apparentemente così mitico, del Vangelo di San Matteo, che racconta come alla morte di Gesù le tombe si aprirono e i corpi dei santi risuscitarono (Mt 27,52-53): la porta della morte è aperta da quando nella morte abita la vita, l’amore …

LASCENSIONE AL CIELO 

Il discorso sull’ascensione di Gesù al cielo, come quello della sua discesa agli inferi, negli ultimi tempi ha subito l’attacco critico da parte di molti studiosi, compreso il Bultmann, che hanno dichiarato inaccettabile la concezione del mondo rappresentato a tre livelli con i concetti di “sotto” e di “sopra”. Secondo questi studiosi il mondo è solamente mondo, governato ovunque dalle inderogabili leggi della fisica. Non ha piani e i concetti di “sopra” e “sotto” sono relativi, dipendono dal punto di vista dell’osservatore. Poi, con la conoscenza che oggi abbiamo dell’universo, non abbiamo più punti di riferimento, dato che la terra non lo più. Il cosmo non ha più un orientamento fisso. Ma la concezione di tripartizione dello spazio è implicita nelle affermazioni di fede di “discesa agli inferi” e di “ascensione del Signore al cielo”.

A questo riguardo l’Autore afferma: “Entrambe le frasi esprimono piuttosto, insieme alla professione del Gesù storico, la dimensione generale dell’esistenza dell’uomo, che non abbraccia tre piani cosmici, ma sicuramente tre dimensioni metafisiche. Purtroppo la posizione teoretica di certi critici moderni mette da parte, non soltanto i concetti di “discesa agli inferi” e di “ascesa al cielo”, ma, insieme ad esse, anche quello dell’esistenza del Gesù storico, cioè le tre dimensioni dell’esistenza umana. Allora ciò che rimane può solo essere un fantasma che può essere drappeggiato in vari modi, come ognuno lo vuole o se lo aspetta.

Pertanto che cosa significano veramente queste tre dimensioni? Abbiamo già chiarito che la discesa agli inferi non rimanda ad una profondità esteriore del cosmo, che, nell’economia del nostro discorso, non è affatto indispensabile.

Nella preghiera del Crocifisso a Dio che lo ha abbandonato, manca qualsiasi allusione cosmologica di spazio (non c’è alcun riferimento ai concetti topografici di “sotto”, “sopra”, “a destra”, “a sinistra”). Il significato della frase conduce il nostro sguardo sulla profondità dell’esistenza umana, la quale arriva giù giù nel fondo della morte, nella zona della solitudine intangibile e con ciò racchiude la dimensione dell’inferno. L’inferno non è una certezza cosmografica, bensì una dimensione della natura umana che decade, arriva in basso.

Oggi poi sappiamo di più di quello che si sapeva un tempo e cioè che questa profondità tocca l’esistenza di ognuno; e poiché in fin dei conti l’umanità è “un essere umano”,  questa profondità tocca, non soltanto il singolo, bensì il corpo unico del genere umano in generale.

Da qui si comprende che Cristo, il “nuovo Adamo” ha voluto condividere questa profondità fino a lasciarsi toccare da essa; al contrario, soltanto ora il totale rifiuto è diventato possibile nella sua totale insondabilità”.

L’Autore continua: “L’ascensione di Cristo, per contro, ci rimanda all’altra fine dell’esistenza umana, che si estende oltre se stessa all’infinito verso l’alto e verso il basso. Come polo opposto all’isolamento radicale, all’integrità dell’amore negato, questa esistenza è portatrice della possibilità del contatto con tutti gli altri uomini nel contatto dell’amore divino in sé, cosicché l’umanità possa trovare il suo luogo geometrico all’interno dell’essere stesso di Dio.

La profondità, che noi chiamiamo inferno, può darla solo l’uomo a se stesso. E’ la condizione in cui egli non vuole ricevere nulla e vuole essere totalmente indipendente. L’inferno è l’espressione della chiusura in  sé. L’uomo non vuole ricevere e non vuole prendere nulla, bensì vuole stare su se stesso e bastare a se stesso. Se questo atteggiamento ottiene la radicalità definitiva, allora l’uomo diventa l’intoccabile, il solitario, il rifiutato.

Inferno è il voler essere completamente soli, il che avviene quando l’uomo si barrica in sé.

Contraria è l’essenza di quel sopra ( la grazia), che noi abbiamo chiamato cielo, che può solo essere ricevuto, come l’inferno può solo essere dato da se stessi. Nella teologia scolastica si diceva che il cielo è come una grazia “donum indebitum et superadditum naturae = un dono della natura non dovuto e aggiunto. Il cielo, come amore ricolmo, può sempre essere donato all’uomo; il suo inferno è invece la solitudine di colui che non vuole accettare, che rifiuta lo status di bisognoso di grazia e si ritira in se stesso.

Il cielo non dev’essere inteso come un luogo eterno, ultraterreno, ma neppure come una regione metafisica eterna. Dobbiamo piuttosto dire che la realtà ”cielo” e “ascensione di Cristo” sono unite in maniera indissolubile. Solo partendo da questa premessa diventa chiaro il senso cristologico, personale, ricevuto storicamente nel messaggio cristiano del cielo.

Il cielo non è un luogo che sarebbe stato chiuso prima dell’ascensione di Cristo, in base a un positivo decreto punitivo di Dio, per essere poi aperto un giorno in maniera altrettanto positivistica. La realtà del cielo nasce piuttosto in primo luogo attraverso il compenetrarsi di Dio e dell’uomo. Il cielo dev’essere definito come il contatto dell’essenza dell’uomo con l’essenza di Dio: questo compenetrarsi di Dio e dell’uomo è accaduto definitivamente in Cristo con il suo oltrepassare il bios con la morte verso la nuova vita. Il cielo è perciò quel futuro dell’uomo e dell’umanità che essa non può darsi da sola e che quindi le è precluso finché essa lo aspetta da se stessa, che è stato soltanto aperto in quell’Uomo, il cui luogo di esistenza era Dio e attraverso il quale Dio è entrato nell’essenza dell’uomo. Perciò il cielo è sempre qualcosa di più che un destino singolo privato: esso è necessariamente una conseguenza dell’”ultimo Adamo”, dell’uomo definitivo e dunque del futuro totale dell’uomo stesso”.