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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

Archive for Maggio, 2013

Perché siamo ancora nella Chiesa?

Posted By Felice Moro on Maggio 2nd, 2013

Premessa

Il saggio che stiamo per analizzare, “Perché sono ancora nella Chiesa?”, è un segmento del libro dal titolo omonimo del Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) pubblicato dalla Casa Editrice Rizzoli nell’anno 2007. Il saggio riprende e sviluppa una relazione che l’allora professore di teologia dogmatica, Joseph Ratzinger, aveva tenuto a Monaco nel 1970 presso l’Accademia Cattolica di Baviera.

Pure a distanza di oltre quarant’anni, a parere dello scrivente il tema trattato riveste un carattere di attualità,  ora non meno di allora. Proprio per questo la “Rizzoli” l’ha pubblicato non più tardi di sei anni fa.

In questa sede affronteremo il lavoro di analisi e d’illustrazione del pensiero dell’Autore, in parte riassumendo i contenuti più o meno liberamente, in parte con citazioni dirette dei passaggi ritenuti più importanti e significativi.

 La situazione nella Chiesa attuale

Riprendendo il titolo della relazione, l’Autore esordisce affermando che oggi e anche domani ci sono e ci saranno molti motivi validi per stare dentro la Chiesa. E al riguardo non devono scoraggiare nessuno se, dalla prospettiva storica, emergono altrettanti motivi di dubbio, che potrebbero giustificare la scelta di starne fuori. Oggi a voltare le spalle alla Chiesa sono in molti, chi per un motivo, chi per un altro. Alcuni l’accusano di essere troppo arretrata, medioevale, ostile alle esigenze della vita moderna nella viziata società del benessere, dei consumi, emancipata, disinibita e laicizzata; altri l’accusano di tradire la sua immagine tradizionale, la sua figura storica, la sua liturgia, cedendo e concedendo troppo spazio alle insistenti pretese di un pervadente quanto vacuo modernismo.

Altri, per rimanere nella Chiesa, adducono motivazioni di segno opposto. Questi sono anzitutto quelli che hanno una fede profonda e stabile nel messaggio salvifico di Gesù e condividono le riforme che l’istituzione compie al suo interno per tenersi aggiornata in maniera corrispondente alle esigenze dei tempi che cambiano continuamente. Altri ancora, pur avendo una fede tiepida, fatta più di doveri, di obblighi e di adempimenti formali che non di convinzioni profonde, non vogliono staccarsi dalla vecchia e cara abitudine di stare dentro la Chiesa e di seguire i suoi cerimoniali liturgici. Con maggiore vigore rimangono attaccati ad essa  proprio quelli che rifiutano la sua essenza storica e contestano il significato che i suoi ministri cercano di darle e di conservarle. Si tratta di persone determinate a non lasciarsi mandar fuori, onde poter agire dall’interno in opere di rinnovamento necessarie, secondo il loro punto di vista.

Cosicché nella Chiesa, tra correnti contrapposte, a momenti si vivono condizioni contrastanti di malessere e di confusione di tipo babilonese. In questa situazione conflittuale nasce la sfiducia anche dentro l’istituzione stessa. Così, in un mondo che  appare tendenziale votato verso l’unità nella  globalizzazione dei rapporti internazionali, nella Chiesa subentra la disgregazione tra i suoi fedeli, divisi in più fazioni tra fautori della modernità e  difensori ad oltranza della tradizione, mentre l’opinione pubblica si divide ed assegna a ciascuno un suo posto. Così ci sono quelli che si schierano con i conservatori e quelli che parteggiano per i progressisti. Questa è la prima impressione di carattere generale, ma, grazie a Dio, al suo interno la realtà è molto diversa, più articolata di quello che può sembrare in apparenza. Tra queste due posizioni estreme, in silenzio e quasi senza voce, ci sono coloro che si impegnano realmente per realizzare la vera missione della Chiesa per la conversione del mondo; e lo fanno secondo il mandato che Gesù stesso, durante la sua predicazione, aveva lasciato agli apostoli e, dopo la sua morte e risurrezione, aveva esplicitamente affidato alla guida di Pietro: prima di tutto la trasmissione del dono della fede, poi il culto, la preghiera e l’accettazione della vita quotidiana concepita come rinuncia al proprio egoismo e vissuta secondo lo spirito del Vangelo, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore.

“La vera Chiesa, dice il Relatore, non è certamente invisibile, ma è profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini”.

Così è stato posto il problema, è stato tracciato lo sfondo del terreno socio-antropologico da cui emerge spontanea la domanda: Perché rimango ancora nella Chiesa?

Per penetrare più in profondità nell’analisi della problematica, l’Autore si pone una serie di domande coordinate tra di loro, quali:

“Come si è potuti arrivare a una situazione di grande confusione di tipo babilonese, mentre ci si aspettava una nova Pentecoste?

Come è possibile che, mentre il Concilio (Vaticano II) sembrava avesse raccolto il frutto maturo del risveglio degli ultimi decenni, invece della ricchezza del compimento, sia emerso un vuoto inquietante?

Come è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità (ut unum sint era il motto latino utilizzato dal Pontefice Giovanni XXIII per invocare l’unità della Chiesa nella fase di inaugurazione del Concilio nel 1962) sia sorta la disgregazione?”

Ad un certo punto la situazione appare assai poco incoraggiante, sia per il teologo Ratzinger, sia per gli altri padri conciliari suoi colleghi. Eppure essi, che per la realizzazione del Concilio si erano spesi tanto con grandi sforzi di mediazione teologica, liturgica e culturale in senso pluralista e di apertura al futuro, si aspettavano ben altri risultati di risveglio della fede e della carità cristiana all’interno e all’esterno dell’istituzione. Invece il livello di incomprensione reciproca è diventato tale da far dire all’Autore:

“Sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. Noi vediamo la realtà con una precisione microscopica talmente esasperata, che ci diventa impossibile percepire il tutto al di là delle parti. E così facendo, il guadagno in esattezza significa perdita in verità”.

E continuando il suo discorso scrive: “La riforma, nel suo significato originario, è un processo molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del fenomeno cristiano; e questo vale, sia per la vita del singolo, sia per tutta la storia della Chiesa. Anch’essa continua a vivere convertendosi continuamente nel Signore, lontana da ogni forma di irrigidimento in se stessa e da ogni altra forma di abitudine che sia contraria alla verità … Se si comprende questa verità, allora si comprende meglio lo sforzo fatto per rendere meno pesanti le strutture ecclesiastiche, ormai irrigidite, per correggere forme del ministero apostolico che derivano dal Medio Evo o, forse, dai tempi dell’assolutismo. Lo scopo del lavoro è quello di liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice, secondo lo spirito del Vangelo”.

Il relatore ammette che le istituzioni ci sono e sono necessarie finché servono al buon funzionamento del servizio ecclesiastico. Egli ammette anche che oggi esse sono esposte a forme di critica spietata mai conosciuta in epoca precedente e che inquadrate nell’ambito dell’ottica del servizio sono sempre necessarie al buon funzionamento del servizio stesso. L’importante è che esse non degenerino, non siano sopravvalutate rispetto all’obiettivo di fondo per cui esistono.  Perciò la battaglia intorno alla Chiesa non deve e non può risolversi come una battaglia delle o tra le sue istituzioni, in modo tale che possa intaccare il problema sostanziale. Il vero nocciolo della questione è ben altro: è la crisi della fede, cui bisogna porre urgente rimedio.

“La fede, scrive l’Autore, è entrata in una fase di fermento anche dentro la Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra difficilmente spiegabile, dove scompaiono i contorni delle cose; l’obiezione posta dalle scienze naturali e dalla concezione cosmologica moderna, non fanno altro che aggravare questo processo. I confini tra interpretazione e negazione diventano sempre più indistinti, sempre più sfumati. Stante questa situazione, diventa logico porsi domande come queste:

Che cosa significa “risuscitato dai morti”?

Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega?

E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione, si perde di vista il volto di Dio. La “ morte di Dio” è un processo del tutto reale che oggi penetra in profondità all’interno della Chiesa. Dio muore nella cristianità o almeno così sembra. C’è poi chi si pone la domanda: ma Egli è veramente risorto?”.

Così si verificano situazioni paradossali, come quelle rappresentate da persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa e tuttavia si considerano, con buona pace della loro coscienza, dei veri cristiani progressisti. Questi giudicano la Chiesa, non in base ai risultati nella sua opera di evangelizzazione e di missione apostolica, ma in base ad altri parametri di valore: la sua efficienza funzionale come istituzione storica, l’aiuto che può dare allo sviluppo sociale o la sua vitalità nella celebrazione dei riti e delle feste. Ma la Chiesa non era stata fondata per fare tutte queste cose e, del resto, nella sua forma attuale, non è neppure adatta a svolgere queste funzioni. E quest’amplificazione di compiti e di deviazione di finalità, non fa altro che accrescere la differenza e aumentare il disagio tra i credenti e i non credenti.

Fortunatamente si può obiettare che questa situazione di malessere non riguarda l’intera comunità ecclesiastica, dei ministri e dei credenti. D’altronde ci sono molti elementi positivi che non possono passare sotto silenzio: la nuova liturgia celebrata nelle lingue locali è stata resa accessibile a tutti, l’attenzione ai problemi sociali, una maggiore e più diffusa comprensione tra i cristiani delle diverse confessioni.

Tutto questo è vero, ma i tratti di ripresa innovativa non contraddistinguono la situazione generale. Anzi talvolta anche questi aspetti vengono trascinati in un terreno di ambiguità che emerge dall’attenuazione dei confini tra gli atteggiamenti fondamentali di chi crede e di chi non crede, tra fede e miscredenza.

A questo punto l’Autore rincara la dose del suo giudizio, tutt’altro che positivo, nei confronti di una parte della chiesa militante che fa il contrario di quello che dovrebbe fare.

Egli scrive al riguardo: “Il Concilio Ecumenico Vaticano I aveva descritto la Chiesa come  ‘signum levatum in nationes,’ cioè come il grande vessillo escatologico issato nel mondo e visibile da lontano, che chiama e unisce tutti gli uomini attorno a sé. Essa indica il cammino in maniera inequivocabile: con la sua prodigiosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità nel bene e la sua incrollabile stabilità; essa rappresenta il miracolo vivente del cristianesimo, la sua costante autenticazione che sostituisce tutti gli altri segni e miracoli della storia. Oggi però sembra vero tutto il contrario: non un’istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini, né dello spirito europeo, né di quello di origine medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica. Chi fa parte di questa storia dovrebbe coprirsi il capo vergognosamente per tanti mali di cui si è reso responsabile: l’accondiscendenza a tutte le correnti della storia, il colonialismo, il nazionalismo esasperato e perfino i tentativi di adattamento al marxismo”.

 

Una metafora sulla natura della Chiesa

Se le cose stanno così, allora la Chiesa, anziché essere il segno di richiamo alla fede, diventa il suo principale impedimento. Se alla Chiesa si devono togliere i suoi predicati teologici, essa può continuare ad esistere, ma soltanto come organismo politico o associativo che raggruppa i credenti per raggiungere altri scopi, non quello della fede, non quello della promessa del regno predicato da Gesù. Ma una Chiesa che, contro la sua natura e contro la sua storia, avesse soltanto una valenza sociale, politica ed etno-antropologica non avrebbe alcun senso.

Di fronte ad una situazione così variegata, sorge spontanea la voglia di fare qualche domanda pertinente:

Ma allora il credente può credere ancora? Ha ancora senso il suo restare nella Chiesa?

La risposta a questa domanda implica tutto un ragionamento articolato e complesso, per il cui sviluppo il relatore si rifà ad una meditazione simbolica dei Padri della Chiesa sull’analogia di funzioni esistente tra il cosmo e la luna,  tra luna e la Chiesa. Nello spazio dell’universo la luna non brilla di luce propria, ma per illuminare le nostre tenebre notturne, riflette la luce del sole sul nostro pianeta. Altrettanto fa la Chiesa che, pur non brillando di luce spirituale propria,  svolge un’analoga funzione satellitare, ricevendo da Dio la luce della grazia che perennemente riflette sull’umanità in cammino. Così la luce del Creatore perverrebbe alle creature attraverso l’arco riflesso di mediazione della Santa Chiesa. Inoltre il relatore aggiunge:

“Il simbolismo lunare e quello terrestre spesso si fondono: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità, non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole. In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce e diventa fertile in forza del seme che riceve dall’uomo.

I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole che il satellite riflette sulla terra. La luna in se stessa è oscurità perché fatta di sassi, sabbia e roccia (e gli astronauti che l’hanno visitata durante le esplorazioni spaziali degli ultimi decenni hanno confermato questa realtà fisica del suolo lunare); ma essa diventa luminosa perché riceve e riflette sul nostro pianeta la luce dell’astro solare. Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa che illumina pur essendo essa stessa buio. Non è luminosa per virtù della propria luce, ma per la luce che riceve dal vero sole che la illumina, Gesù Cristo. Pertanto pur essendo essa oscura terra, sabbia e roccia, è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio.

 

Perché rimango nella Chiesa?

 

Nelle considerazioni fatte finora nell’ambito della discussione precedente è già contenuta la risposta, o meglio, l’insieme delle risposte del relatore a quest’impegnativa domanda.

“Sono nella Chiesa, egli dichiara, perché credo che, ora come prima e, a prescindere da noi, dietro la nostra Chiesa, viva la Sua Chiesa e io posso stare vicino a Lui soltanto rimanendo nella Sua Chiesa.

Sono nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che nel profondo essa non sia nostra, bensì proprio e soltanto Sua”.

Dopo queste prime affermazioni lapidarie di deciso assenso alla Chiesa, l’Autore sviluppa il suo pensiero ampio, profondo, grondante di fede e di carità missionaria. Egli scrive al riguardo:

“Malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie ad essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora.

E, per dare maggior peso alla  sua scelta, riporta un’affermazione del suo maestro e collega universitario Henri de Lubac : “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo? Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti, non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’influenza del Vangelo e della fede nella sua divina persona? …

E che cosa sarebbe l’umanità senza Cristo?”.

E Ratzinger aggiunge: “Per quanto ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa. E’ attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore, come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali, il mondo non sarebbe più concepibile. Chi vuole la presenza di Gesù nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa ….”.

Dopo alcune riflessioni, Ratzinger aggiunge: “Io sono e rimango nella Chiesa per gli stessi motivi per cui sono cristiano perché non si può credere da soli. Si può credere e avere fede in comunione con gli altri. La fede è la forza mistica che unisce le creature. Il suo modello archetipo è l’evento della Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo che, sotto forma di fiammelle, andò a posarsi sulle teste sugli Apostoli”.

Tutti leggiamo nel testo lucano “Atti degli Apostoli” la storia di quest’evento straordinario. E stato questo portentoso miracolo che ha trasformato quello sparuto gruppetto di poveri pescatori di Galilea nei primi missionari e martiri della storia della Chiesa, che hanno inseminato la fede cristiana nel mondo. Essi, partendo dalla Palestina, irradiarono il messaggio evangelico in tutto il mondo antico: in  Grecia, in Asia Minore, in Oriente, in Occidente, a Roma. Essi furono i pionieri della prima faticosa opera di evangelizzazione delle genti, creando le prime comunità cristiane e fondando le prime chiese, delle quali apprendiamo la storia e la fede dalle lettere di San Paolo. Dopo la Pentecoste, i discorsi di Pietro e degli altri Apostoli fatti in lingua aramaica (che era la lingua parlata da Gesù nella sua missione pubblica) venivano intesi  e capiti nelle loro lingue di origine dai neocatecumeni radunati a Gerusalemme o nelle comunità dei nuovi adepti. E tutti i presenti, stupiti, dicevano:

“Tutti costoro che parlano, non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti di Mesopotamia, di Giudea e di Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e della Libia, Romani residenti in Palestina, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nella nostra lingua delle grandi opere di Dio?” (At 2, 1-11).

Il relatore ribadisce: “Non è possibile credere da soli. La fede, o è un fenomeno ecclesiale vissuto in condivisione con gli altri, o non ha senso”.

Al riguardo noi ci permettiamo di aggiungere alcune considerazioni da profani nel campo della teologia. A nostro avviso il discorso del Papa teologo trova un rinforzo in un passaggio del Vangelo di Matteo, quando Gesù afferma: “Dove si ritrovano due o tre riuniti nel mio nome, io sono là in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Ma in un altro punto dello stesso testo evangelico troviamo quest’altra esortazione di Gesù sulle modalità della preghiera, quando Egli dice: “Tu quando vuoi pregare, entra nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è là nel segreto. E il Padre tuo, che vede anche ciò che è nascosto, te ne darà la ricompensa” (Mt 6, 5).

A primo acchito le due esortazioni appaiono in contrasto tra di loro, per cui, il senso dell’una escluderebbe il significato dell’altra. Comunque pensiamo che si tratti di un’aporia facilmente superabile distinguendo i due piani del culto: il primo riguarda  il concetto generale della fede, di portata universale ed ecumenica, che dev’essere portato avanti in un cammino di fede condivisa con gli altri, come possono essere i momenti della liturgia e delle altre cerimonie del culto pubblico; il secondo riguarda la dimensione della riflessione, del raccoglimento e della preghiera personale. A nostro avviso, l’uno non esclude l’altro, anzi lo integra e lo completa come momento di comunione, di trasparenza e di riflesso della creatura nel suo Creatore.

Il nostro relatore continua il suo discorso serrato: “Ma si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto ad essa. E poniamoci in piena obiettività una domanda che può apparire patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli, che conosca gli uomini ed Egli stesso possa essere conosciuto da loro?  ….

Per quanto anche il cristianesimo abbia sbagliato più volte i suoi interventi nel corso della sua storia, i criteri di giustizia e di amore sono tuttavia arrivati fino a noi, persino contro la loro volontà, spesso contro la Chiesa stessa , dal messaggio depositato e nascostamente custodito in essa.

Rimango nella Chiesa perché considero la fede realizzabile solo in essa e mai contro di essa: E’ una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio, non c’è nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo. E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo ….

E ancora, esprimendo lo stesso concetto da un altro punto di vista, dice: “Rimango nella Chiesa perché soltanto la fede nella Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione tradizionale e dogmatica, ma nel nostro mondo di costrizioni e di frustrazioni, il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale”.

Anche gli sforzi degli psicoanalisti, come Freud e Jung, non sono altro che tentativi di redimere gli irredenti. Non solo, ma anche filosofi e sociologi, come Marcuse, Adorno, Habermas e Marx, a modo loro, sono alla ricerca di redenzione per l’umanità frustrata e sofferente. Essi aspirano alla ricerca di una felice condizione umana, senza sofferenze, senza malattie o povertà. Coltivano l’ideale a vivere in un mondo libero dalla tirannia, dalle sofferenze, dall’ingiustizia combattendo con strumenti delle idee: filosofici, sociologici, giuridici e sindacali. L’idea che si possa realizzare tutto e subito, che si possa creare un mondo senza dolore e senza patimenti attraverso le riforme sociali o l’abolizione delle istituzioni esistenti, è soltanto un’eresia, una chimera di alcune frange sociali più radicali schierate su posizioni unilaterali. Soltanto coloro che non conoscono a fondo la natura umana possono nutrire quest’illusione. Ma la lotta radicale contro tutti questi mali dell’uomo e della società parte da un impulso assolutamente cristiano.

Secondo il relatore l’uomo può meglio ritrovare se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità, soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide dell’egoismo.

Egli sostiene che una delle cause della crisi della nostra epoca dipende dalla pretesa di diventare persona senza avere conseguito il dominio di se stessi, la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento di ogni forma di egocentrismo, incominciando col sacrificio necessario per adempiere puntualmente agli impegni presi, con la commisurazione continua della tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è realmente.

Un uomo che venga privato della fatica di crescere, degli sforzi necessari per il suo adattamento alle esigenze della vita nella società, per la propria realizzazione come persona umana e che venga condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni, perde il senso della vita e se stesso, smarrisce la sua vera natura. In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che, insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. La speranza che dà la fede cristiana, in ultima istanza, dipende dal fatto essa dice la verità. La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere.

 

L’amore è la vera forza che redime

 

Scrive Ratzinger: “Un uomo vede sempre soltanto nella stessa misura in cui ama. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non s’inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi. Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nei lati oscuri della Chiesa, ma presto scopre che essa non è soltanto questi. Ciò perché accanto alla storia degli scandali, c’è anche quella forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per la difesa degli Indios, Vincenzo de’ Paoli, Giovanni XXIII.

Anche l’arte, che nata sotto l’impulso del suo messaggio, diventa testimonianza di verità. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità, tutto questo non è un’insignificante casualità …”.

E ancora continua: “Se si tengono gli occhi aperti, anche oggi è possibile incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana. E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci l’esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede.

Una domanda che sorge spontanea in chi crede: scusate, ma il cristianesimo non rende gli uomini più umani legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto oggettivo, di cui non dobbiamo mai vergognarci di fronte a nessuno?

Se poi guardiamo alla storia della Chiesa più recente, vediamo che nel corso del secolo appena passato ci sono stati dei cambiamenti importanti: un forte movimento di riforma che ha portato al rinnovamento della teologia e della liturgia, che, complessivamente sta dando risultati generali positivi. E se questi cambiamenti ci sono stati, è stato grazie al fatto che ci furono alla sua guida uomini capaci che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito critico e pronti a soffrire per essa.

Il relatore conclude la sua analisi sostenendo che: “Rimanere in una Chiesa fatta dall’uomo a sua misura non ha senso, sarebbe una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo; perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che dev’essere veramente: questo è il cammino che oggi viene indicato dalla responsabilità della fede!