
L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)
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La monografia di Giuseppe (Iose) Serra sul tema “Gli emigrati di Siligo in terra d’America” è un lavoro di carattere storico con una valenza importante sul piano socio-antropologico. E’ uno studio fatto con impegno per recuperare le storie individuali e familiari di tanti emigrati alla memoria collettiva della comunità. Sono pagine della microstoria locale che, in versioni identiche, si ripetono nelle varie comunità dei diversi paesi dell’Isola. Pur nella narrazione della modesta realtà quotidiana, sono pagine importanti perché ricordano ai sardi di oggi le dure condizioni della vita, fatta di miseria, di patimenti, di condizionamenti economici e sociali, da parte delle generazioni più prossime che ci hanno preceduti: i padri, i nonni e i bisnonni. Costoro, pur di sfuggire alla dura realtà della disoccupazione perenne nei loro paesi d’origine, hanno affrontato difficoltà e pericoli di ogni genere, compiendo lunghi viaggi avventurosi e sfidando anche le insidie degli Oceani.
Nella Premessa è stata analizzata la situazione economica della Sardegna nel periodo che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. Sono stati anni molto difficili per i lavoratori sardi a causa di una crisi economica generale determinata da una pluralità di fattori negativi quali:
1) l’agricoltura era stata messa in crisi da una serie di cattive annate consecutive che, ripetutamente, compromettevano la produzione del grano e degli altri prodotti della terra;
2) la fillossera, avanzando dalla Turchia, aveva distrutto i vigneti, causando gravi danni ai viticoltori isolani col venir meno della produzione vinicola;
3) La produzione zootecnica e latteo – casearia era stata messa in crisi dal blocco dei rapporti commerciali con la Francia. Quest’evento punitivo era stato la risposta francese alla dura protesta diplomatica dell’Italia per l’occupazione unilaterale della Tunisia, sulla quale, già da tempo anche il nostro paese aveva predisposto un piano strategico di espansione coloniale.
Quell’incidente aveva incrinato i tradizionali rapporti amichevoli tra le due paesi, per cui, il flusso migratorio dall’Italia e dalla Sardegna verso la Francia, se non fu interrotto del tutto, subì una brusca e duratura frenata. Naturalmente al controllo dell’emigrazione regolare, sfuggiva il tradizionale flusso dell’emigrazione clandestina dei sardi verso la Corsica.
La chiusura della frontiera francese spinse i sardi scoprire altre mete e a sperimentare le vie delle migrazioni transoceaniche verso il Nuovo Continente. Nel Sud America la meta preferita era l’Argentina, mentre nel Nord America erano gli Stati Uniti. Alcuni pionieri erano partiti già dalla fine dell’Ottocento e nella prima decade del Novecento. Ma il flusso più massiccio intensificò le sue partenze nella seconda decade del Novecento, registrando le punte più alte negli anni 1913 e 1914.
Poi ci fu l’interruzione della Guerra. Nel Dopoguerra la tendenza migratoria diminuì notevolmente, anche perché il Governo fascista, se non la vietò completamente, la scoraggiò decisamente in tutte le maniere. Mussolini aveva bisogno di uomini, giovani e forti, per lavorare la terra. Bisognava fare la riforma agraria prendendo diverse iniziative legislative coordinate e concomitanti per disciplinare i latifondi e bonificare le paludi, come quelle del Polesine, dell’Agro Romano, della Piana di Terralba(Mussolinia= Arborea) e Fertilia, nelle paludi della Nurra di Alghero. Erano tutte plaghe di acquitrini malsani che costituivano le famigerate piaghe endemiche della malaria. Perciò occorreva bonificare l’ambiente paludoso per eliminare la zanzara anofele, responsabile dell’epidemia della malaria; nello stesso tempo il Duce intendeva recuperare terreni fertili per incrementare la produzione dei cereali, l’unica fonte che poteva garantire l’autonomia alimentare all’Italia in tempi di autarchia politica della Nazione. Per attuare questo vasto ed ambizioso programma occorrevano gli uomini, soprattutto i giovani, che lavorassero la terra e,all’occorrenza, indossassero le armi per fare la guerra. Perciò l’emigrazione, se fu in parte tollerata, non fu sicuramente favorita o ben vista dal Governo fascista.
Già in Premessa l’Autore dichiara che lo scopo principale del libro è quello di tracciare la memoria storica dei Silighesi che sono emigrati in America negli anni compresi tra il 1904 e il 1932.
Per ciascuno emigrato sono state compilate delle schede individuali che contengono una serie di notizie interessanti, tra cui: Cognome, Nome e dati anagrafici, stato civile, data e luogo di partenza e nome del piroscafo su cui ciascuno si era imbarcato per arrivare in America, data e luogo di arrivo che, per lo più, era il porto di Ellis Island. Si tratta di un isolotto situato nella foce del fiume Hudson nella baia di New York. Era sede di un antico arsenale militare che poi fu trasformato in punto d’ingresso (la porta d’America) e luogo di filtro per gli immigrati europei che sbarcavano negli Stati Uniti.
Inoltre le schede contengono una serie di altre informazioni, come le caratteristiche fisio-somatiche di ciascun emigrato, se sapeva leggere e scrivere, se aveva pagato le spese di viaggio e quanti soldi gli restavano in tasca dopo l’arrivo, luogo di destinazione indicato per raggiungere un parente o un amico già immigrato in precedenza o per rispondere a una chiamata di lavoro, disponibilità o meno del biglietto di viaggio per il treno.
Le condizioni economiche, i disagi fisici e psicologici dei migranti.
Nei loro paesi d’origine, a Siligo come a Tiana o a Villanovaforru o in qualunque altro paese della Sardegna, i migranti erano lavoratori disoccupati o svolgevano lavori saltuari come contadini, pastori, braccianti agricoli; ma comunque erano tutte persone che appartenevano alle classi popolari, che vivevano in disagiate condizioni economiche. Per scrollarsi di dosso la miseria endemica che li assillava, volevano cambiar vita. Sentivano spesso parlare del mito dell’America, dove chiunque fosse arrivato avrebbe avuto la possibilità di arricchirsi in breve tempo perché in quella terra fantastica “ si poteva raccogliere l’oro a palate”. E nella speranza di essere anche loro baciati dalla fortuna, come d’altronde era capitato a tanti altri loro amici, parenti o conoscenti, volevano anch’essi tentare l’avventura dell’emigrazione in America. Naturalmente speravano che, dopo aver realizzato consistenti risparmi, soprattutto in modo facile e in tempi brevi, sarebbero tornati in seno alle loro famiglie in paese in diverse condizioni economiche. Pertanto, ignari delle difficoltà cui sarebbero andati incontro imbarcandosi in un’avventura del genere, molti vendettero i loro pochi averi: terreni, casa, bestiame e quant’altro, spesso anche a basso costo, pur di ricavare il capitale necessario per pagarsi le spese di viaggio e di prima sistemazione.
Per compiere il viaggio della traversata oceanica impiegavano circa una ventina giorni, andando incontro a difficoltà di ogni genere: mare in tempesta, stenti alimentari, vestiti con abiti e scarpe vecchi perché tanto in viaggio gli indumenti si sarebbero sporcati contaminati dai fumi delle macchine a vapore (mentre gli abiti buoni venivano gelosamente conservati in valigia per essere indossati all’arrivo), poche possibilità di lavarsi e di cambiarsi, servizi igienici insufficienti e carenti di manutenzione, diffusione di malattie epidemiche con facilità di contagio dovuto alla carenza d’igiene e al sovraffollamento.
Se, vivendo in quelle condizioni precarie, il partente disgraziatamente si ammalava, poche e inadeguate erano le cure che gli potevano essere prestate a bordo dal servizio medico della Compagnia di navigazione. Il servizio farmaceutico delle unità navali non disponeva di farmaci a lunga scadenza, tutto al più poteva improvvisare caso per caso qualche farmaco a base di preparati galenici. Perciò l’ammalato, per quanto possibile, doveva cercare di guarire con le proprie risorse organiche naturali, altrimenti per lui sarebbe stata la fine. E quando purtroppo accadeva quest’evenienza, le salme dei poveri malcapitati, avvolte in fasce, venivano calate in mare e deposte nei cimiteri dei fondali marini.
Superata la traversata e giunti alla meta, l’avventura non era mica finita perché li aspettava la quarantena!
Venivano fatti sbarcare e trattenuti nei freddi e disadorni padiglioni dell’ex caserma militare di Ellis Island!
Lì venivano visitati e sottoposti a prove di vario genere per accertare la loro idoneità fisica al lavoro. Inoltre venivano controllati sulla loro disponibilità monetaria residua per continuare il viaggio, via terra, al luogo di destinazione, di cui dovevano avere l’indirizzo preciso di un soggetto di riferimento, come il nome di un parente, di un conoscente o di un ente che gli avrebbe garantito l’accoglienza.
Se l’esito di queste visite era negativo o mancavano le altre condizioni richieste per l’ammissione negli States, i poveri migranti, stanchi e demoralizzati, venivano respinti e fatti rimpatriare.
Ma questa sorte spesso capitava ad interi carichi di migranti. Nel 1913 era successo anche ad un gruppo di migranti paesani, compreso il nonno materno di chi scrive queste righe. Non erano stati sottoposti, né a visite, né ad altre forme di controllo e neppure fatti scendere dalla nave che da Genova li aveva portati al porto di New York. Dopo aver trattenuto la nave alla fonda per alcuni giorni, erano stati fatti rimpatriare con lo stesso mezzo, senza concedere loro neppure di poggiare piedi in terra d’America.
La giustificazione ufficiale della loro ripulsa data dalle autorità competenti ha dell’incredibile!
Eppure la motivazione era stata quella, secondo cui, il contingente degli emigrati da ammettere negli States per quell’anno era stata superata abbondantemente per cui non si ammettevano deroghe al divieto di rilasciare altri permessi d’ingresso imposto dal Governo Federale. Inutilmente per un secolo ci si è posti tante domande sul perché di quel viaggio così costoso e così sofferto fatto invano, che ha gettato sul lastrico della miseria tante povere famiglie. Chi ha sbagliato? Chi ha richiesto la presenza di quei lavoratori? Le autorità consolari? La Compagnia di navigazione era ignara di tutto o complice nella faccenda poco pulita? I dubbi sono tanti, ma non ci sono risposte plausibili!
Inoltre l’Autore mette in evidenza il fatto che l’emigrazione creava sempre un trauma a doppio taglio. Da un lato nell’emigrante per il distacco dal suo ambiente naturale ed umano e dal circuito degli affetti familiari e sociali per andare incontro ai disagi concreti del presente con la speranza di un migliore, ancorché ignoto, destino futuro; dall’altro lato nei familiari che lasciava a casa: la moglie, i figli, i genitori.
I bambini e i ragazzi erano affidati alle cure delle madri che dovevano provvedere da sole al nutrimento e alla guida educativa dei figli, nonché all’assistenza degli anziani genitori e/o suoceri. Questi, quando erano ancora in condizioni di poter lavorare, offrivano, a loro volta, un valido aiuto in famiglia per la coltivazione della campagna e per la custodia degli animali domestici. Così le donne, magari con l’aiuto degli anziani e dei ragazzi che crescevano, conservavano il bestiame e la proprietà, che costituivano la base della produzione economica della famiglia.
Quando le cose andavano bene, il reddito delle famiglie veniva integrato e potenziato dai risparmi monetari che gli emigrati mandavano alle loro famiglie. Non sfugge all’analisi dell’Autore il fatto che le “rimesse” degli emigrati costituivano un’importante fonte di reddito, non solo per le famiglie destinatarie, ma anche per l’intera Nazione perché costituivano importanti capitali monetari che contribuivano a mantenere in attivo il bilancio dello Stato.
Un altro aspetto che il Serra mette bene in evidenza è il fatto che i Silighesi emigrati in America formavano cerchie di amicizie chiuse tra di loro, familiari, parenti, compaesani o comunque tra sardi, ma sempre tendenti ad escludere i rapporti con gli altri. Qui bisogna ammettere onestamente che questa tendenza all’isolamento non era soltanto dei Silighesi, ma era ed è ancora una caratteristica socio-relazionale comune a tutti i sardi. E non solo.
Per questo, quando essi hanno avuto la necessità di emigrare in altri paesi del mondo, ovunque si trovassero a vivere e a convivere per ragioni di lavoro, hanno fondato e mantenuto in vita i circoli dei sardi all’estero. Particolarmente attivi sono sempre stati quelli dei vicini paesi europei: Belgio, Francia, Olanda, Germania e Svizzera.
Il sardo, per prudenza naturale o per inclinazione sociale, è timido, riservato e diffidente nei confronti dell’altro, dello sconosciuto, di chi potrebbe rivelare delle sorprese, di chi potrebbe essere ostile a lui, alle sue abitudini, alla sua gente. Ma è anche vero che questo è un atteggiamento di prudenza iniziale, se poi le circostanze del rapporto con gli altri andranno evolvendosi in modo positivo, le cose cambiano ed egli è capace di spendersi in rapporti di vera, sincera e solidale amicizia con gli altri che si dimostreranno di essere meritevoli di un tale dono che esalta la componente sociale migliore dell’essere umano.
E probabilmente questo atteggiamento di prudenza iniziale non è soltanto dei sardi, ma anche degli altri uomini del mondo e, in modo più allargato, di tutti gli esseri viventi. E’ particolarmente marcato negli animali selvatici che, a certe condizioni, possono essere addomesticati. Allora diventano capaci di esibire manifestazioni di affetto e particolari attenzioni nei confronti della persona che è stata protagonista del loro addomesticamento o comunque che si è guadagnato la loro fiducia.
Al riguardo mi sovviene un passaggio molto significativo del libro “Le Petit Prince” (Il Piccolo Principe) di Antoine de Saint’Exipéry. Si tratta del dialogo tra il Piccolo Principe e la Volpe (le renard) sulla dinamica del fare amicizia e sul valore della medesima.
“Se tu mi vuoi amica, devi addomesticarmi ( il faut m’apprivoiser)!” dice la volpe al Principe.
“Che cosa significa addomesticare?” Rispose il Principe.
E la volpe a lui “Addomesticare significa creare dei legami!”.
E il Principe di rimando: “Ma come si fa a creare dei legami?”.
La volpe gli spiega: Bisogna essere molto pazienti e dedicare molto tempo! Tu ti siederai in un angolo del campo un po’ nascosto in mezzo all’erba lontano da me. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu resterai in silenzio. Non bisogna parlare perché il linguaggio crea malintesi. Ogni giorno tornerai alla stessa ora e ti avvicinerai un po’ di più a me. Se, per esempio, tu vieni alle quattro del pomeriggio, già dalle tre io incomincerò ad avere il cuore in festa per l’attesa. Man mano che l’ora dell’incontro si avvicinerà, io sarò sempre più felice. Alle quattro incomincerò ad entrare in ansia e a scoprire il prezzo della felicità. Ma se tu venissi in ore diverse, io non saprei mai quando e come preparare il mio cuore alla gioia dell’incontro. Questo non è altro che un rito.
“Che cos’è un rito?” chiese il Principe.
E la volpe rispose: E’ qualcosa di necessario! E’ ciò che fa un giorno diverso da tutti gli altri giorni, un’ora diversa da tutte le altre ore del giorno!”.
E così il Principe addomesticò la volpe. Ma quand’era giunta l’ora della partenza, la volpe esclamò:
”Ah! Io piangerò!”
Colpa tua! rispose il Principe e continuò: io non volevo farti del male, ma tu hai voluto che io ti addomesticassi!
Certamente! rispose la volpe.
“Ma tu adesso ti metti a piangere!” rispose il Principe.
Certamente! aggiunse la volpe.
“Allora tu non ci hai guadagnato niente!” soggiunse il Principe.
Sì, io ci ho guadagnato per il colore dorato del grano maturo che mi ricorderà per sempre il colore dei tuoi capelli d’oro, rispose la volpe. E aggiunse: Mi susciterà piacevoli ricordi, non solo il colore delle messi mature, ma anche il rumore del vento che agita i campi di grano dorato!
Dopo di che la volpe tacque e con lo sguardo scrutò a lungo in silenzio il Piccolo Principe …
Sì! L’amicizia è una cosa misteriosa, fatta di rapporti di condivisione, di legami sottili, di comportamenti fini, di lievi emozioni e di sentimenti particolari, ma anche di silenzi che, talvolta sono più eloquenti delle parole, di qualsiasi linguaggio!
E gli emigrati, non soltanto quelli in terra d’America, ma tutti quanti, ovunque siano andati a lavorare per vivere, hanno sperimentato sulla propria pelle il prezzo dell’amicizia.
Pertanto è comprensibile e non c’è da stupirsi che, almeno inizialmente, essi si siano chiusi in cerchie di amicizie ristrette tra di loro stessi. Più tardi avranno avuto anche loro il coraggio e l’opportunità di aprirsi al mondo esterno, almeno a quello che li circondava nell’ambiente più vicino a loro.