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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

Archive for Luglio, 2020

Commento riassuntivo agli Atti degli Apostoli

Posted By Felice Moro on Luglio 13th, 2020

Gli Atti degli Apostoli raccolgono un insieme di racconti e di memorie storiche sulla diffusione del cristianesimo delle origini, attraverso l’attività dei primi missionari, tra i quali spiccano le figure di Pietro e Paolo. All’aspetto storico uniscono la riflessione teologica sulla funzione della Chiesa nel mondo, nutrita dalla parola di Gesù e sostenuta dallo Spirito Santo.

Questo saggio, pur attenendosi fedelmente al testo originale, presenta un’edizione semplificata nella forma concettuale e nel volume narrativo dei testi delle Sacre Scritture, rese più snelle di alcune parti ridondanti o prolisse. L’aspetto più importante del saggio è dato dalla semplicità della forma e dalla fluidità del linguaggio, che lo caratterizzano, condizioni necessarie queste, per incoraggiare il comune lettore alla lettura e alla conoscenza dell’opera teologica, considerata ormai da tutti come il Quinto Vangelo.

Il prologo

 Gli “Atti degli Apostoli” costituiscono la seconda opera teologica dell’evangelista Luca. Prima di questa, egli aveva scritto il Terzo Vangelo. In questo suo primo lavoro l’Autore aveva già narrato gli avvenimenti che riguardano la vita di Gesù, distinta in due blocchi, nel primo dei quali riepiloga, in maniera sintetica, gli eventi della nascita, l’infanzia e la vita di Gesù svoltasi all’interno della famiglia di Nazareth fino all’età di dodici anni. L’insieme di questi racconti costituiscono il cosiddetto Piccolo Vangelo o Vangelo dell’Infanzia. Il secondo blocco costituisce la parte teologica più importante, perché illustra l’aspetto divino-messianico della vita pubblica di Gesù. Essa, infatti, è quella che narra gli eventi degli ultimi tre anni di vita pubblica di Gesù: la predicazione, gli insegnamenti, i miracoli, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.

Il libro degli Atti è dedicato a un certo Teofilo, lo stesso personaggio cui Luca aveva dedicato anche il Terzo Vangelo. Il testo degli Atti è stato scritto in lingua greca molto accurata nella versione ellenistica, frutto del lavoro di una persona di notevole cultura teologica, linguistica, storiografica e di spiccate capacità narrative. Con una sapiente architettura espositiva, l’opera riunisce un insieme di testimonianze, di racconti e di memorie storiche sulla diffusione del cristianesimo nel mondo e, contemporaneamente, sulle origini della chiesa cristiana: l’organizzazione delle prime comunità dei credenti, lo spirito caritatevole di solidarietà reciproca che le contraddistingue, le attività di predicazione dei primi missionari, soprattutto Pietro e Paolo, l’amministrazione dei sacramenti del battesimo e dell’imposizione delle mani, l’impostazione delle cerimonie liturgiche, la recita delle preghiere e la frazione del pane.

Il racconto parte dalla narrazione delle ultime apparizioni di Gesù Risorto agli apostoli, per dar loro le ultime istruzioni sui comportamenti che essi avrebbero dovuto osservare, prima d’iniziare la loro attività missionaria di evangelizzazione del mondo. In particolare, Gesù raccomanda loro di non allontanarsi da Gerusalemme prima che ricevano lo Spirito Santo, che li avrebbe corroborati nelle loro risorse fisiche e spirituali, onde poter affrontare, in maniera decisa e sicura, le difficoltà che avrebbero incontrato nel loro cammino futuro.

Capitolo primo

L’ascensione di Gesù al cielo

Nell’ultimo incontro con il Signore Risorto, gli apostoli, delusi e scoraggiati per come erano andate le cose negli ultimi tempi, gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui tu ricostituirai il regno d’Israele?”. Gesù rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete la forza dallo Spirito Santo, che scenderà su di voi e mi sarete testimoni in Giudea, Samaria e fino agli estremi confini della terra”.

Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. Poi apparvero due uomini in bianche vesti e dissero loro: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che era con voi fino a poco fa, è stato assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 6-11).

Allora gli apostoli lasciarono il Monte degli Ulivi, che era il luogo dov’erano accaduti gli ultimi miracolosi avvenimenti, tornarono a Gerusalemme e, per paura dei Giudei, si barricarono nel cenacolo. Erano presenti gli undici apostoli che avevano seguito Gesù fin dalla prima ora, eccetto Giuda, il traditore. Con loro era presente anche Maria, la madre di Gesù e i suoi fratelli.

In uno dei giorni successivi ebbe luogo un’assemblea pubblica, di circa centoventi persone, che erano i primi credenti nella nuova fede in Dio. Pietro si alzò in piedi e così parlò loro:

Testo: “Fratelli, era necessario che si compisse ciò che è detto nelle Scritture riguardo al tradimento di Giuda che guidò i carnefici alla cattura di Gesù. Con il prezzo del riscatto comprò un pezzo di terra, dove egli, cadde in un dirupo e, precipitando giù, si sfracellò spargendo i suoi visceri sul terreno. Tutti gli abitanti di Gerusalemme vennero a saperlo e chiamarono quel terreno Akeldamà o Campo del Sangue o anche Campo del Vasaio. Ma adesso è bene chiudere questa questione e aprirne un’altra: noi qui, oggi, dobbiamo scegliere uno che sostituisca l’assente e sceglierlo tra i testimoni della prima ora”. I candidati idonei alla sostituzione erano due: Giuseppe Bersabba e Mattia. Per fare la scelta giusta invocarono l’intervento divino con questa preghiera: “Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato a prendere il posto in questo ministero apostolico che Giuda ha abbandonato …”. Gettarono le sorti e la sorte cadde su Mattia che fu associato agli undici apostoli (At 1, 15-26).   

Capitolo 2

La Pentecoste e il discorso di Pietro

Nel testo degli Atti è scritto: “Il giorno della Pentecoste (il cinquantesimo dopo la Risurrezione del Signore) gli apostoli erano radunati nel cenacolo insieme a Maria Santissima. All’improvviso si udì un rombo dal cielo e un vento gagliardo investì la casa dove essi si trovavano. Apparvero delle lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro. Improvvisamente essi furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

C’erano, allora, a Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione. Udito il rumore di quell’evento, una folla si radunò sbigottita perché ciascuno dei presenti li sentiva parlare la propria lingua. Stupefatti dicevano: Costoro non sono forse tutti Galilei? Com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto, della Libia, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le opere di Dio”. Tutti erano stupiti e perplessi e si chiedevano l’un l’altro: Che cosa significa questo? Altri li deridevano, dicendo: Si sono ubriacati di mosto. Allora Pietro si alzò in piedi, insieme agli altri undici e parlò a voce alta, dicendo:

“Uomini di Giudea e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme: affinché vi sia ben noto quel che dico, ponete attenzione alle mie parole. Come voi sospettate, questi uomini non sono ubriachi, essendo appena le nove del mattino. Si avvera, invece, la profezia del profeta Gioele, quando egli afferma la dichiarazione del Signore: effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e tutte le progenie future profeteranno … Farò prodigi in cielo e segni sulla terra, sangue, fuoco e nuvole di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue, prima che giunga il giorno del Signore … Allora chi invocherà il nome del Signor, sarà salvato.

Uomini d’Israele, ascoltate ancora queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò in mezzo a voi per opera sua e voi lo sapete bene – dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mani di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”. Riporta poi la profezia del Patriarca Davide, secondo la quale, in futuro un suo discendente avrebbe occupato il suo trono e, prevedendo la risurrezione di Cristo, dichiarò: questo non fu abbandonato negli inferi, né il suo corpo vide la corruzione” (At 2, 22-31).

Continuando il discorso, Pietro agginse: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato, pertanto, alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo, che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi potete vedere …

Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!”. All’udire queste parole si sentirono trafiggere il cuore per il rimorso e dissero: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. Al che Pietro rispose: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare, in nome di Gesù Cristo, per ottenere il perdono dei peccati e ricevere lo Spirito Santo…”. Molti di loro accolsero la parola e quello stesso giorno si fecero battezzare circa tremila persone” (At 2, 37-41). Questo è stato il primo grande avvenimento storico e profetico dell’istituzione e della diffusione della Chiesa nel mondo. Gli apostoli stessi furono trasformati, incoraggiati, istruiti e preparati allo svolgimento della loro nuova attività missionaria nel mondo, che dura da duemila anni e non è stata ancora compiuta per intero.

La vita della prima comunità cristiana

I battezzati e i fedeli, seguaci degli apostoli, formarono la prima comunità cristiana di Gerusalemme. Il testo recita: “Erano assidui nell’ascoltare gli insegnamenti, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Tutti erano pervasi da un senso di timore, prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i fedeli stavano insieme e avevano ogni cosa in comune. Vendevano i loro beni e ne distribuivano il il ricavato fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno insieme frequentavano il tempio e, spezzando il pane nelle loro case, prendevano il cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo”. (At 2, 42-47). Intanto, ogni giorno aumentava il numero dei convertiti.

Capitolo terzo

La guarigione dello storpio e la potenza del nome di Dio

Un pomeriggio Pietro e Giovanni si recavano al tempio per la preghiera. Sulla porta dell’edificio, detta porta Bella, sedeva un uomo storpio che chiedeva l’elemosina ai passanti. Chiese l’elemosina anche ai due apostoli che, per tutta risposta, lo invitarono a guardarli in faccia; e mentre egli si aspettava l’obolo, Pietro gli disse: “Non possiedo né argento, né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù, il Nazareno, cammina!”. E, presolo per mano, lo sollevò. Quello balzò in pedi e improvvisamente si mise a camminare. I presenti, meravigliati, accorsero per vedere l’accaduto. Pietro ne approfittò per far loro un discorso, dicendo: “Uomini d’Israele, perché vi meravigliate di questo? Non è merito nostro quello di aver donato la capacità di camminare a quest’uomo. Il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, ha glorificato il suo servo Gesù che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi avete rinnegato il Santo, il Giusto e avete chiesto che fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo stati testimoni. Proprio per la fede riposta in lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede ha dato a quest’uomo la guarigione alla presenza di tutti voi (At 3, 1-16). E continua: “Dio ha così adempiuto a tutto ciò che aveva annunziato per mezzo dei profeti, cioè che il Cristo avrebbe dovuto soffrire molto. Lo so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma ora pentitevi dei vostri peccati e cambiate vita, affinché vi siano cancellati i vostri peccati. Questo sarà possibile fare finché arrivino i tempi in cui il Signore mandi di nuovo Gesù, che adesso è accolto in cielo, come aveva detto Dio per mezzo dei profeti. Voi siete i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i vostri padri …. Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutti a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno di voi si converta dalle proprie iniquità (At 3, 17-26)”.

Capitolo quarto

Pietro e Giovanni davanti al Sinedrio

Mentre i due apostoli stavano ancora parlando, sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del tempio  e i sadducei, irritati perché in Gesù insegnavano la risurrezione dei morti. Li arrestarono e li imprigionarono fino al giorno dopo, dato che si era fatta ormai sera. Molti, di quelli che avevano ascoltato le parole degli apostoli, si convertirono, raggiungendo il numero di cinquemila persone. Il giorno dopo si radunarono i capi religiosi, gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Caifa e altri e interrogarono i due apostoli: “Con quale potere e in nome di chi avete fatto questo vostro intervento?”. Pietro, pieno di coraggio, rispose: “Capi del popolo e anziani, visto che voi chiedete conto del beneficio fatto a un uomo infermo e volete sapere in che modo egli abbia riacquistato la salute, sia ben noto a voi e a tutto il popolo d’Israele: in nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui che sta davanti a voi è sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza, se non in lui” (At 4, 5-12).

Vedendo la sicurezza con cui i due apostoli parlavano e tenuto conto del fatto che erano persone del popolo poco istruite, li lasciarono andare, avvertendoli, nello stesso tempo, di non parlare a nessuno dell’accaduto. Ma i due apostoli replicarono: “Se sia cosa giusta quella di obbedire a voi o a Dio, giudicatelo voi stessi! Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”. Allora i giudici del tribunale fariseo, impauriti per un’eventuale reazione del popolo, li lasciarono andare (At 4, 13-21).

 Quando i due apostoli tornarono nella comunità, tutti si riunirono e rivolsero una preghiera a Dio:

“Signore volgi il tuo sguardo alle minacce dei nemici tuoi e nostri e concedi ai tuoi servi di annunziare la tua parola con tutta franchezza. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. Cessata la preghiera, il luogo dove si trovavano tremò, i presenti furono investiti dallo Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con coraggio e decisione. Nella comunità regnava la pace, la concordia e l’armonia perché i credenti, nella condivisione della vita comune, avevano un cuor solo e un’anima sola.

Capitolo quinto

La frode di Anania e Saffira

Anania e Saffira erano due coniugi appartenenti alla comunità dei credenti. Possedevano un campo e lo vendettero. La metà del prezzo ricavato la deposero ai piedi degli apostoli per essere spesa ad acquistare beni da consumare nella comunità; l’altra metà la trattennero per sé. Pietro chiamò Anania e gli chiese conto della quota del ricavato della vendita non versata a favore della comunità, dicendogli: “Anania, perché hai fatto questo? Trattenendo una parte del prezzo della vendita per te, tu hai mentito, non agli uomini, ma a Dio!”. All’udire questo rimprovero di Pietro, Anania cadde a terra e morì all’istante.

Dopo l’Apostolo chiamò Saffira e le pose la stessa domanda, che in precedenza aveva rivolta al marito. Le disse: “Perché, marito e moglie, avete tentato lo Spirito Santo? Ecco che arrivano quelli che hanno portato via tuo marito e che porteranno via anche te”. In quell’istante la donna cadde a terra e spirò” (At 5, 1-11). La voce di questi fatti si diffuse in giro e tutti furono presi da grande timore.

Molti altri segni e prodigi avvenivano nel popolo per opera deli apostoli. Allora, tra la gente di Gerusalemme e dei paesi vicini, si diffuse l’abitudine di portare nelle piazze gli ammalati e quelli invasi da spiriti immondi, esponendoli sui loro lettucci e giacigli, affinché, quando Pietro passava in mezzo a loro, la sua ombra li toccasse almeno in parte; e tutti quelli che erano stati, anche lambiti, dalla sua ombra venivano guariti (At 5, 12-16).

L’arresto e la liberazione degli apostoli

Intanto gli apostoli continuavano a predicare la dottrina tra il popolo, ma il sommo sacerdote, i suoi colleghi del Sinedrio e i Sadducei persero la pazienza, li fecero arrestare e li misero in prigione, vigilati dalle guardie. Durante la notte apparve un angelo del Signore e li liberò. Sul fare del giorno erano di nuovo nel tempio a predicare.

Quando i membri del Sinedrio si riunirono per prendere una decisione nei loro confronti, mandarono le guardie per prelevare gli apostoli e farli comparire davanti a loro. Ma le guardie tornarono indietro a mani vuote, dicendo di aver trovato l’edificio sbarrato, le guardie ai loro posti, ma il carcere era vuoto. Poco dopo, un tale riferì che gli apostoli si trovavano liberi ad insegnare nel tempio. Il capitano con le sue guardie si recarono nel tempio, catturarono gli apostoli e li portarono in tribunale, davanti ai giudici che li interrogarono, dicendo: “Vi avevamo ordinato di non fare nessun insegnamento in nome di costui e voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina, facendo ricadere su di noi la colpa del sangue di quell’uomo!”.

Al che, Pietro d’accordo con l’altro apostolo, rispose: “Bisogna obbedire a Dio, non agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato nella sua destra, facendolo capo e salvatore per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui (At 5, 17-32).

Queste dure risposte degli apostoli irritarono i giudici che volevano condannarli a morte, se a bloccarli non fosse intervenuto il saggio Gamaliele. Costui era un uomo giusto e un autorevole membro del Sinedrio, ben visto anche dal popolo. Egli intervenne dicendo: “Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se la loro dottrina è di origine umana, si estinguerà da sola; ma se essa viene da Dio, voi non riuscirete a distruggerla; in tal caso non vi accada proprio di combattere contro Dio”. Ascoltarono il suo consiglio, richiamarono gli apostoli sul banco degli imputati, li diffidarono dal continuare ad insegnare la loro dottrina, li fustigarono e li lasciarono andare. Ma essi se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore di Cristo e continuarono a portare il lieto annuncio a tutte le genti, che Gesù è il Cristo Risorto (At 5, 33-42).

Capitolo sesto

Il servizio della parola e quello delle mense

Mentre il numero dei discepoli aumentava in maniera consistente, sorse il malcontento tra gli Ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza, le vedove dei primi, venivano trascurate. Siccome l’attività degli apostoli non poteva accudire a tutto, alla predicazione e all’assistenza, essi convocarono una riunione dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per l’assistenza alle mense. Cercate, tra di voi, sette uomini onesti, pieni di Spirito Santo e di sapienza, ai quali affidare il servizio dell’assistenza, mentre noi ci dedicheremo alla preghiera e alla predicazione della parola di Dio (At 6, 1-4)”. La proposta piacque a tutti ed elessero una commissione di sette uomini che si doveva occupare soprattutto dell’assistenza alle mense. Gli eletti erano Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola. Li presentarono agli apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani (At 6, 5-6)”. 

Intanto, il numero dei fedeli cresceva e si moltiplicava a Gerusalemme e nei dintorni. Tra i nuovi adepti si annoverava anche un gran numero di sacerdoti.

L’arresto di Stefano

Stefano era diventato un apostolo brillante, pieno di Spirito Santo, dottrina ed eloquenza. La sua parola suadente riusciva a convertire molte persone alla fede in Dio. Nei suoi confronti sorse allora la protesta artificiosa di quelli che erano gelosi perché, in fede e in dottrina, non potevano competere con lui. Tra questi vi erano alcuni membri della sinagoga, i Cirenei, gli Alessandrini e altri della Cilicia e dell’Asia, che lo accusarono di blasfemia contro Mosè e contro Dio. Lo trascinarono in giudizio davanti al Sinedrio e presentarono falsi testimoni che lo accusavano dicendo: Costui non cessa di proferire parola contro questo luogo sacro e la sua legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù Nazareno distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandate.

I giudici del tribunale, fissando lo sguardo in lui, videro il suo viso come quello di un angelo.

Capitolo settimo

Il discorso di Stefano davanti al Sinedrio

Allora il sommo sacerdote chiese a Stefano: Ma le cose stanno veramente così? Al che egli rispose:

“Fratelli e padri, ascoltate: il Dio della gloria apparve a nostro padre Abramo quand’era ancora in Mesopotamia e gli disse: Esci dalla tua terra e dalla tua gente e vai nella terra che io t’indicherò. Uscito dalla terra dei Caldei, egli si stabilì in Carran; di là, dopo la morte del padre, Dio lo fece emigrare in questo paese, dove voi ora abitate; non gli diede alcuna proprietà, ma gli promise di darla in possesso a lui e alla sua discendenza, nonostante non avesse ancora figli. Poi, Dio così parlò: La discendenza di Abramo sarà pellegrina in terra straniera, tenuta in schiavitù ed oppressione per quattrocento anni. Ma del popolo, di cui saranno schiavi, io farò giustizia; dopo potranno uscire e mi adoreranno in questo luogo (At 7, 6-7)”.

Come sigillo dell’alleanza gli diede il segno della circoncisione. Così Abramo generò Isacco e lo circoncise l’ottavo giorno; Isacco generò Giacobbe e Giacobbe generò i dodici patriarchi; questi, gelosi del loro fratello minore, Giuseppe, lo vendettero schiavo in Egitto. Ma Dio gli diede grazia e saggezza davanti al Faraone, re d’Egitto, il quale lo nominò amministratore dell’Egitto e di tutta la sua casa. Venne una grande carestia in Egitto e in terra di Canaan e i loro popoli furono ridotti a patire la miseria e la fame. Pose il problema al Faraone e questi si dimostrò magnanimo con lui, acconsentendo che venissero in Egitto anche i fratelli, la parentela e il vecchio padre Giacobbe. Questi, infatti, morì in terra straniera, come i nostri padri, ma poi le loro salme furono trasportate a Sichem e poste nel sepolcro di Abramo.

Poi in Egitto cambiò la situazione politica. Salì al trono un nuovo re che non conosceva Giuseppe. Il nuovo sovrano cominciò a perseguitare gli Ebrei, fino al punto di decidere di uccidere la loro progenie per eliminare la razza. In quel tempo nacque Mosè. Essendo stato esposto alla morte, come gli altri bambini ebrei, lo salvò la figlia del Faraone, che lo allevò nella casa del sovrano, come suo figlio. Così egli fu educato e istruito nella sapienza egiziana e divenne potente nelle parole e nelle opere. Vedendo che il suo popolo soffriva sotto la schiavitù egiziana, egli si schierò in sua difesa. Poi, il povero Stefano continuò la sua autodifesa, riassumendo la storia di Mosè e la sua funzione di capo popolo liberatore, che guidò gli Ebrei a fuggire dall’Egitto. Narrò l’avventura dell’attraversamento del Mar Rosso e le peregrinazioni nel deserto durate quarant’anni. Parlò delle punizioni divine che il popolo si era attirato perché si era rivoltato contro Dio, costruendosi un vitello d’oro; della punizione che esso subì con deportazione in Babilonia; parlò del re Davide che chiedeva una dimora per il Dio di Giacobbe; parlò di Salomone che gli edificò una casa. “Ma l’Altissimo non abita in costruzioni fatte dall’uomo perché il profeta dice: 

Il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete edificarmi, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio riposo? Non è forse la mia mano che ha creato tutte queste cose?  O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; voi come i vostri padri. Quale dei profeti, i vostri padri non hanno perseguitato? Essi hanno ucciso quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi siete diventati traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata!” (At 7, 48-53). All’udire queste accuse, i giudici del tribunale montarono su tutte le furie, digrignavano i denti per la rabbia. Ma Stefano rimase imperturbabile. Sostenuto dallo Spirito Santo, guardava il cielo, dove vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra. Allora disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio!”.

All’udir queste parole, i giudici del tribunale, turandosi le orecchie per non udire la bestemmia, si scagliarono contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. I testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. Stefano, mentre riceveva le sassate, pregava dicendo: Signore Gesù accogli il mio spirito. Piegò le ginocchia e gridò forte: Signore non imputare loro questo peccato. Detto questo morì (At 7, 54-60).

Capitolo ottavo

Persecuzione, missione e conversioni

Testo: “Saulo approvava l’uccisione di Stefano. In quel giorno si scatenò una grande persecuzione contro la chiesa che era in Gerusalemme. tutti si dispersero nelle campagne della Giudea e della Samaria, ad eccezione degli apostoli. Alcune pie persone seppellirono Stefano e fecero per lui un grande lutto. Saulo intanto devastava la Chiesa: entrava nelle case, trascinava fuori uomini e donne e li faceva mettere in prigione (At, 1-3).

La predicazione di Filippo e conversione di Simone Mago

Ma quelli che si erano dispersi se ne andarono in giro predicando la parola del Vangelo. Così Filippo, giunto nella citta della Samaria, annunciò ad essi il Cristo. Le folle seguivano attentamente ciò che diceva Filippo, ed erano unanimi nell’ascoltarlo, vedendo i miracoli che faceva. Infatti, molti di quelli che avevano spiriti immondi gridavano a gran voce, e gli spiriti se ne uscivano; molti paralitici e zoppi furono curati. Grande fu quindi in quella città. Ora già da tempo c’era nella città un uomo di nome Simone che praticava l’arte magica e faceva strabiliare il popolo di Samaria spacciandosi per un personaggio straordinario. Tutti, dai più piccoli ai più grandi, gli davano retta dicendo: Questa è la potenza di Dio, che è chiamata grande. Gli davano ascolto perché già da molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue arti magiche. Quando però credettero a Filippo che annunciava loro la buona novella riguardo al regno di Dio e al nome di Gesù Cristo, uomini e donne si facevano battezzare. Anche Simone credette e fu battezzato, e si teneva sempre vicino a Filippo e, vedendo i grandi miracoli e i prodigi che avvenivano, ne rimaneva incantato” (At, 8, 4-13).

Gli apostoli e Simone Mago

Testo: “Gli apostoli che erano rimasti a Gerusalemme, quando seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio, mandarono ad essi Pietro e Giovanni. Giunti colà, essi pregarono per loro, affinché ricevessero lo Spirito Santo. Infatti, non era ancora disceso su alcuno di essi, ma soltanto avevano ricevuto il battesimo nel nome del Signore Gesù. Allora imposero loro le mani e ricevevano lo Spirito Santo. Simone, vedendo che per l’imposizione delle mani degli apostoli veniva dato loro lo Spirito Santo, offrì del denaro dicendo: “Date anche a me questo potere, cosicché colui a chi imporrò le mani possa ricevere lo Spirito Santo”. Ma Pietro gli rispose: “Alla malora tu e il tuo denaro, poiché hai creduto che si potesse comprare col denaro il dono di Dio. non vi è parte alcuna per te in tutto ciò, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. pentiti dunque di questa tua malvagità e prega il Signore che ti voglia perdonare questa intenzione del tuo cuore. Infatti, vedo che tu ti trovi immerso in fiele amaro e avvolto in legami di iniquità. Allora Simone rispose: “Pregate voi per me il Signore, perché non mi capiti nulla di quello che avete detto”. essi poi, dopo aver reso testimonianza e aver predicato la parola del Signore, ritornarono a Gerusalemme, evangelizzando molti villaggi dei Samaritani” (At, 8, 14-25).

Filippo e l’etiope

Mentre Pietro e Giovanni ritornarono a Gerusalemme, a Filippo apparve un angelo del Signore che gli disse: Alzati, vai verso mezzogiorno, sulla strada che porta a Gaza; essa è deserta. Egli si alzò e si mise in cammino per quella strada, quand’ecco un eunuco etiope, funzionario della regina d’Etiopia, Candace, nonché amministratore di tutti i suoi tesori. Egli era venuto a Gerusalemme per il culto e, mentre ritornava a casa nel suo carro, leggeva un libro. Filippo si avvicinò al carro e, avendo compreso che l’uomo leggeva un testo del profeta Isaia, gli chiese se capisse il significato di quello che stava leggendo. Il passeggero rispose che non capiva il significato del testo nel punto in cui diceva: Come una pecora fu condotto al macello/e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa/ così egli non apre bocca/ Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato … Egli allora chiese al discepolo a chi si riferisse il profeta scrivendo queste parole. Filippo, partendo dai testi delle Sacre Scritture, gli spiegò il vangelo, dicendogli che il profeta, con quelle parole, si riferiva a Gesù. Proseguendo la strada, giunsero a una sorgente d’acqua. Fermarono il carro, entrambi scesero nell’acqua e l’eunuco chiese a Filippo di essere battezzato. Filippo lo battezzò. Quando risalirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l’eunuco non lo vide più. Ma egli proseguì il suo cammino, pieno di gioia e di felicità per il sacramento ricevuto.

Capitolo nono

La vocazione di Saulo

Saulo continuava, imperterrito, a perseguitare i cristiani a Gerusalemme e in tutta la Giudea. Si presentò al sommo sacerdote e gli chiese le credenziali per le sinagoghe di Damasco, in modo da essere autorizzato a condurre in catene i cristiani di quella città fino a Gerusalemme, per essere arrestati e gettati in prigione. Durante il viaggio, quand’era vicino a Damasco, gli apparve dal cielo una luce accecante ed egli, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Stordito, egli rispose. “Chi sei, o Signore?”. La voce gli rispose:

“Io sono Gesù che tu perseguiti! Alzati, entra in città e ti sarà detto cosa fare”. I suoi compagni di viaggio erano sorpresi e ammutoliti perché sentivano la voce, ma non vedevano nessuno. Saulo si alzò da terra, aprì gli occhi, ma non vedeva nulla perché aveva perso la vista. I compagni lo presero per mano e l’accompagnarono a Damasco, dove egli rimase tre giorni senza vedere e senza prendere cibo, né bevanda. A Damasco viveva e operava il discepolo Anania, al quale apparve in visione il Signore che gli disse: “Anania, vai nella strada Dritta e cerca nella casa di Giuda, dove trovi un certo Saulo di Tarso. Ecco, egli sta pregando e ha visto in visione un uomo, chiamato Anania, che gli impone le mani, affinché egli ricuperi la vista”. Al comando divino, Anania rispose:

“Signore, riguardo a quest’uomo ho sentito tutto il male che egli ha fatto ai fedeli di Gerusalemme. Inoltre, ha avuto l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. Ma il Signore gli disse: ”Vai perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”. Anania andò, entrò nella casa, trovò Saulo e gli impose le mani, dicendo: “Saulo, fratello mio, è il Signore che mi ha mandato a te, Gesù ti è apparso sulla strada per la quale venivi perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo”. Improvvisamente gli caddero come delle scaglie dagli occhi e ricuperò la vista. Fu battezzato, prese cibo e le forze gli ritornarono. Rimase alcuni giorni con i discepoli di Damasco, durante i quali si mise a predicare nelle sinagoghe, proclamando: “Gesù è il figlio di Dio!”. Tutti quelli che ascoltavano, si meravigliarono e dicevano: “Ma costui non è colui che a Gerusalemme infieriva contro i cristiani ed era venuto qui per arrestarli e condurli in catene dai sommi sacerdoti?”. Ma Saulo, incurante delle accuse e delle critiche, che gli venivano mosse, s’infervorava sempre di più nel predicare che Gesù è il figlio di Dio, confondendo i Giudei di Damasco. E questi, non convinti della sincerità della sua conversione, ordirono un complotto per ucciderlo. Saulo venne a saperlo e corse ai ripari. Mentre i suoi nemici presidiavano, giorno e notte, le porte della città per catturarlo e farlo fuori, i suoi discepoli, per salvarlo, lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta.

Tornato a Gerusalemme egli cercava di unirsi ai discepoli della città, ma tutti, conoscendo il suo passato, avevano paura di lui perché non credevano che egli si fosse veramente convertito. Toccò a Barnaba prenderlo in carica, presentarlo agli apostoli, ai quali raccontò la sua esperienza, drammatica e miracolosa insieme, avvenuta sulla via di Damasco. Così egli poté stare con loro e andare e venire a Gerusalemme liberamente, parlando con franchezza nel nome del Signore. Parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca, ma questi lo guardavano con sospetto e cercavano l’occasione favorevole per ucciderlo. Allora i fratelli, che erano venuti a conoscenza del complotto, per salvarlo, lo condussero a Cesarea, da dove lo fecero partire per Tarso, sua patria (At 9, 1-30).

Pietro opera miracoli a Lidda e a Giaffa

Intanto la Chiesa, sostenuta e confortata dallo Spirito Santo, cresceva e viveva in pace nelle tre regioni già evangelizzate: la Giudea, la Galilea e la Samaria.

Pietro si recò a visitare i fedeli che si trovavano a Lidda. Qui s’imbatté in un uomo di nome Enea, che si trovava disteso in un lettuccio, paralitico da otto anni. Pietro gli disse: “Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto”. Quello si alzò e fece come gli era stato comandato. Videro il miracolo tutti gli abitanti di Lidda e di Saron e si convertirono al Signore.

Poco dopo, l’apostolo operò un altro miracolo nella vicina Giaffa. Qui viveva una discepola che si chiamava Tabithà, donna devota e pia, che faceva abbondanti elemosine ai bisognosi. Proprio in quei giorni la donna si ammalò e morì. Visto che Pietro era lì vicino, i discepoli mandarono due uomini a chiamarlo. Pietro si alzò e andò con loro. Arrivato sul posto, lo condussero nella camera ardente, dove le vedove, con pianto e lamenti, facevano la veglia funebre e mostravano i mantelli e le tuniche che la defunta confezionava con le sue mani quand’ era in vita.

Pietro fece uscire tutti dalla stanza, s’inginocchiò e si raccolse in preghiera; poi, rivolto alla salma, disse: “Tabithà, alzati!”. Ella aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le porse la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti che attendevano fuori e presentò la donna viva.

La cosa si seppe a Giaffa e nei dintorni e molti credettero nel Signore (At 9, 32-42). Pietro si trattenne alcuni giorni a Giaffa, ospite di un cero Simone, conciatore di pelli.

Capitolo decimo

La visione di Pietro e la conversione del centurione Cornelio

A Cesarea c’era un centurione della cohorte Italica, uomo devoto e pio, che faceva l’elemosina ai poveri e pregava sempre Dio insieme alla sua famiglia. Un giorno, di pomeriggio, ebbe una visione. Gli apparve un angelo del Signore, che gli disse: “Le tue preghiere e le tue elemosine hanno trovato accoglienza presso Dio. Ora manda degli uomini a Giaffa e fai venire un certo Simone, detto Pietro. Egli è ospite a casa di un certo Simone, conciatore di pelli, in una casetta vicino al mare. Quando l’angelo scomparve, Cornelio chiamò due servitori e uno dei soldati più fedeli e li mandò a Giaffa a compiere la missione: chiamare Pietro a casa sua.

Mentre i messi di Cornelio si avvicinavano alla città, Pietro salì nella terrazza a pregare. Gli venne fame e aveva voglia di mangiare. Mentre gli preparavano il cibo, egli fu rapito in estasi. Vide che dal cielo, apertosi all’improvviso, scendeva come una grande tovaglia calata a terra per i quattro capi. “In essa c’era ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo e risuonò una voce dicendo: Alzati, Pietro, uccidi e mangia! Ma l’apostolo rispose: Non sia mai, Signore, io non ho mai mangiato nulla di profano o d’immondo! Al che la voce spiegò: Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano (At 10, 12-15).

Questo accadde per tre volte; poi quell’oggetto fu ritirato in cielo. Pietro era ancora intento a pensare al significato di quella visione, quando giunsero i messaggeri mandati da Cornelio. Chiesero di Simone, detto Pietro e fu loro risposto che l’uomo era lì, nella casa. Pietro era ancora intento a pensare alla sua visione, quando lo Spirito gli disse: “Ecco, tre uomini ti cercano! Alzati e vai con loro perché io li ho mandati!”.

Pietro andò incontro ai messaggeri e chiese per quale motivo lo cercassero. Quelli gli dissero: “Il centurione Cornelio, uomo devoto e timorato di Dio, è stato avvertito da un angelo d’invitarti a casa sua perché ha qualche cosa d’importante da comunicarti”. Per quel giorno i messaggeri furono trattenuti ospiti di Pietro in quella casa. Il giorno seguente, l’intera comitiva si mise in cammino e, dopo due giorni, arrivò a Cesarea. Per il giorno dell’arrivo, Cornelio aveva invitato parenti e amici a casa su, onde accogliere l’apostolo e il suo seguito in maniera festosa. Mentre Pietro si accingeva ad entrare in quella dimora, Cornelio andandogli incontro, gli si gettò ai piedi, ma Pietro lo rialzò, dicendogli: “Alzati: anch’io sono un uomo!”.

Poi entrarono nella casa, dove c’erano molte persone riunite e disse loro: “Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o avere contatti con persone di altre razze, ma Dio mi ha mostrato che non si deve ritenere profano o immondo nessun uomo. Per questo sono subito venuto quando mi avete mandato a chiamare. Fattemi sapere per quale ragione mi avete fatto venire”.

Cornelio gli rispose: “Nel pomeriggio di quattro giorni fa, mentre recitavo le preghiere nella mia casa, mi si presentò un uomo in splendide vesti e mi disse:- Cornelio, sono state esaudite le tue preghiere e ricordate le tue elemosine davanti a Dio. Manda qualcuno a Giaffa e fai venire Simone, detto Pietro, che si trova nella casa di un altro Simone, conciatore di pelli- . Io ho fatto quanto mi è stato detto. Ora, al cospetto di Dio, tutti noi siamo qui riuniti per ascoltare ciò che dal Signore ti è stato ordinato” (At 10, 30-33). Al che, Pietro rispose: “Mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui ben accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la novella di pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti … Voi sapete che Gesù di Nazaret passò beneficando e risanando tutti quelli che stavano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui. Noi siamo testimoni di tutte le cose che egli ha compiute in Gerusalemme e nella regione dei Giudei. Essi lo uccisero, appendendolo ad una croce, ma Dio l’ha resuscitato il terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui, dopo la sua resurrezione dai morti. Egli ci ha ordinato di annunziare al popolo e di testimoniare a tutti che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono testimonianza e chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome (At 10, 34-43)”.  

Pietro stava ancora parlando, quando lo Spirito Santo scese sopra quelli che ascoltavano la sua parola. I fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliarono che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo. Infatti, li sentivano parlare altre lingue e glorificare Dio. Davanti a questa nuova situazione, Pietro disse: “Chi può impedire di battezzare questi che, come noi, hanno già ricevuto lo Spirito Santo?”. Pertanto, ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Si misero a pregare e rimasero insieme alcuni giorni.

Capitolo undicesimo

I Giudei contestano a Pietro la conversione della famiglia del centurione Cornelio

Gli apostoli e i fedeli, che erano rimasti in Giudea, vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio. Quando Pietro tornò a Gerusalemme, i circoncisi lo rimproverarono, dicendo: “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato con loro!”. Allora Pietro, per ovvi motivi di trasparenza del suo comportamento di apostolo, riepilogò i fatti, dicendo com’erano andate le cose. Raccontò della visione che aveva avuto quand’era a Giaffa: l’episodio della tovaglia calata miracolosamente dal cielo, in cui apparivano tutti gli  animali della terra e del cielo; la voce che lo incitava a uccidere e mangiare di quelle bestie per placare la sua fame; il suo ritegno a mangiare cose che egli riteneva immonde; il ribattere di quella voce che diceva di non considerare profano ciò che Dio ha purificato; il ripetersi per tre volte di quest’avvenimento; la coincidenza di tutti questi eventi con l’arrivo, nella casa che l’ospitava, dei tre ambasciatori mandati da Cesarea; la spinta dello Spirito che lo incitava ad andare con loro; la visione dell’angelo apparso al centurione Cornelio, che gli diceva di d’invitare Pietro a casa sua perché gli avrebbe detto delle parole, per mezzo delle quali, si sarebbe salvato lui e la sua famiglia; raccontò anche che appena aveva iniziato a parlare, lo Spirito Santo era sceso su tutti i presenti, così come prima era sceso sugli stessi apostoli; disse anche che in quel momento gli sovvenne il detto del Signore: Giovanni battezzò con acqua, ma voi sarete battezzati in Spirito Santo.

Concluse il suo discorso dicendo: “Se Dio ha dato loro lo stesso dono che ha dato a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11, 17). All’udir questo discorso, si calmarono e riconobbero che Dio ha concesso, anche ai pagani che si convertano, di aver parte nella vita eterna.

La diffusione della fede tra i popoli vicini d’Israele

I credenti, che erano stati dispersi dalle persecuzioni scatenate contro il povero Stefano, si erano sparsi in altri territori della zona: in Fenicia, a Cipro e in Antiochia. Essi non predicavano ad altri popoli, ma soltanto ai Giudei. Ma poi erano venuti alcuni cittadini di Cipro e Cirene e ad Antiochia incominciarono ad annunciare la parola di Dio anche ai Greci. Godevano del favore divino e così un gran numero di persone si convertì al Signore. Quando la notizia giunse ai vertici del comando della Chiesa di Gerusalemme, essi mandarono Barnaba ad Antiochia per verificare quel che stava accadendo. Quando l’apostolo giunse nella città e vide l’abbondanza delle conversioni, si rallegrò in cuor suo e incoraggiò le persone impegnate nella fede a continuare nella loro attività di proselitismo. Infatti, una folla considerevole di persone fu condotta nelle vie del Signore. Poi Barnaba partì per Tarso alla ricerca di Saulo. Trovatolo, lo condusse ad Antiochia, dove per un anno intero vissero entrambi impegnati nell’attività missionaria. In quella stagione della storia, all’alba antelucana della vita della chiesa nascente, proprio lì ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani.

In quei giorni, alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiochia, tra i quali un certo Agabo, il quale preannunziava che ci sarebbe stata un grave carestia su tutta la terra. L’evento calamitoso avvenne durante il regno dell’imperatore Claudio. Allora i discepoli di Antiochia si accordarono e fecero una contribuzione volontaria, a secondo delle loro possibilità, per aiutare gli abitanti della Giudea, anziani e bisognosi. Il contributo assistenziale fu portato ai destinatari della Giudea da Barnaba e Saulo.

Capitolo dodicesimo

L’arresto di Pietro e la sua liberazione miracolosa

In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare i membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che la sua violenta politica persecutoria era gradita ai Giudei, per godere il favore del popolo, nei giorni degli Azzimi, fece arrestare anche Pietro. Lo fece catturare e rinchiudere nella prigione, affidandolo in custodia a quattro picchetti, di quattro soldati ciascuno, allo scopo di tenerlo al sicuro per poi farlo comparire in giudizio davanti al popolo dopo la Pasqua. Mentre Pietro era in carcere, dalla bocca dei fedeli si levava un coro di preghiere al cielo per la sua liberazione.

Nella notte della vigilia del giorno in cui il carcerato sarebbe dovuto comparire davanti al popolo, mentre era in carcere legato e piantonato da due soldati e ancora dormiva, a Pietro apparve un angelo raggiante di luce, che sfolgorò nella cella. L’angelo lo svegliò, dicendogli: “Alzati presto!”. Le catene gli caddero dalle mani e l’angelo lo sollecitò: “Mettiti la cintura e legati i sandali. Avvolgiti il mantello e seguimi!” (At 12, 7-8).

Egli seguì l’angelo, credendo di avere una visione, senza rendersi conto di quel che stava accadendo realmente. Essi oltrepassarono il primo e il secondo posto di guardia; giunsero davanti alla porta di ferro che porta in città e la porta si aprì da sola. Uscirono fuori e percorsero un tratto di strada insieme, poi l’angelo si dileguò. Allora Pietro, prendendo   coscienza di quel che era realmente accaduto, disse tra sé: “Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo a strapparmi dalle mani di Erode e dalle trame che, insieme a lui, aveva ordito il popolo dei Giudei contro di me” (At 12, 11).

Dopo aver riflettuto a lungo su quel che era accaduto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, dove trovò un gran numero di persone in preghiera. Bussò alla porta e una fanciulla, di nome Rode, si avvicinò all’uscio per sapere chi era che aveva bussato. Riconobbe la voce di Pietro ma, senza aprire, tornò ad annunziare agli altri la notizia che Pietro era lì, in attesa di aprirgli la porta.  Quelli che l’ascoltarono, pensarono che la fanciulla vaneggiasse. Siccome Pietro insisteva continuando a bussare, quando gli aprirono e lo riconobbero, rimasero stupefatti della sua presenza davanti a loro. L’postolo entrò nella casa, fece segno ai presenti di tacere e narrò la storia miracolosa di come il Signore lo aveva tirato fuori da carcere; e aggiunse: “Riferite questo a Giacomo e ai fratelli”. Poi uscì e s’incamminò altrove. Fattosi giorno, nacque un grande scompiglio tra i soldati di guardia; Pietro dov’era? Dov’era andato? Chi l’aveva liberato? E Come? Cos’era accaduto?

Erode mandò a cercarlo ovunque e, non avendolo trovato, fece processare e condannare a morte i soldati che se l’erano lasciato sfuggire di mano. Infine, il re lasciò la Giudea e si trasferì a Cesarea. Era infuriato contro gli abitanti di Tiro e di Sidone, che erano in conflitto con il suo popolo. Ma essi presero preventivi accordi segreti con il suo collaboratore, Blasto, per cui si presentarono disponibili a trattare la pace, nel loro stesso interesse perché, per l’acquisto dei viveri, dipendevano dai territori del re. Fissarono il giorno per festeggiare la pace raggiunta. Erode, seduto sul podio e paludato nel suo manto regale, tenne il discorso d’onore, mentre il popolo applaudiva dicendo: ”Questa è voce di un dio, non di un uomo!”. Improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a Dio. Sull’istante egli morì divorato dai vermi. La notizia si diffuse nei territori della zona e il numero dei credenti cresceva continuamente. Intanto, Barnaba e Saulo, compiuta la loro missione ad Antiochia, tornarono a Gerusalemme, prendendo con loro, Giovanni, detto Marco (At 12, 12-25).

Capitolo tredicesimo

La missione di Barnaba e di Saulo, detto Paolo.

Tra i tanti profeti che allora c’erano ad Antiochia, c’era una cerchia di distinti dottori: Barnaba, Simeone detto Niger, Lucio di Cirene, Saulo e Manaen, compagno d’infanzia del tetrarca Erode Agrippa, il nipote di Erode il Grande. Mentre essi, digiunando, celebravano il culto del Signore, lo Spirito Santo disse: “Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l’opera a cui li ho destinati”. Allor, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li lasciarono partire (At 13, 2-3). Mandati in missione dallo Spirito Santo scesero a Seleucia e da lì s’imbarcarono per Cipro. A Salamina incominciarono ad annunziare la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei. C’era con loro anche Giovanni, come aiutante. Attraversarono Cipro, da Salamina a Pafo. Qui trovarono un falso profeta, chiamato Bariesus o anche Elimas (interprete di sogni) perché faceva il mago al seguito del proconsole Sergio Paolo; questi era un uomo saggio che aveva fatto chiamare Barnaba e Saulo per ascoltare, da loro, la parola di Dio. Ma il mago cercava di distogliere il proconsole dalla fede. Allora Saulo, che tutti cominciavano a chiamare Paolo, pieno di Spirito Santo, fissandolo in volto disse: “Uomo ricolmo di ogni inganno e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, non la finirai di distorcere le vie rette del Signore? Ecco, ora la mano del Signore è sopra di te: resterai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole”. Di colpo calarono su di lui l’oscurità e le tenebre; brancolando, egli si trascinava alla ricerca di qualcuno che lo guidasse, prendendolo per mano. Vedendo l’accaduto, il proconsole credette nella dottrina del Signore (At 13, 10-12) .

Dopo quest’avvenimento, Giovanni abbandonò la compagnia per tornare a Gerusalemme, mentre Paolo e i suoi compagni decisero di lasciare Cipro. S’imbarcarono a Pafo e giunsero a Perge, in Panfilia. Stettero qualche giorno, poi si trasferirono verso l’interno dell’Asia, ad Antiochia di Psidia. Siccome era giorno di sabato, entrarono nella sinagoga e si sedettero. Dopo la lettura della Legge e delle profezie dei profeti, i capi della sinagoga invitarono Paolo e i compagni affinché intervenissero nella discussione, se avevano qualche cosa da dire o esortazione da fare.

Paolo, deciso, intervenne facendo un lungo discorso. Riepilogò la storia d’Israele, esaltando le virtù del popolo guidato da Dio: dalla schiavitù nell’Egitto, alle peregrinazioni nel deserto durate oltre quarant’anni; parlò delle distruzioni dei sette popoli nemici che si erano insediati a Canaan, per ridare quelle terre ai loro padri. Dopo queste vicende, Dio diede loro i Giudici fino a Samuele; quando i padri chiesero un re, Dio diede loro il re Saul, anche se poi lo rimosse per passare il trono a Davide. Dalla sua discendenza Dio trasse Gesù, il salvatore del mondo. Fece riferimento alla missione di Giovanni Battista, quale precursore del Signore, verso cui egli non si riteneva degno neppure di allacciare i suoi calzari. Quindi egli propugnò la sua esortazione diretta:

“Fratelli, figli della stirpe di Abramo e voi tutti timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non hanno riconosciuto il Messia e, condannandolo, hanno portato a compimento le parole dei profeti, che vengono lette ogni sabato; e, pur non trovando in lui alcun motivo di condanna, essi lo condannarono, consegnandolo a Pilato perché fosse ucciso. Dopo aver compiuto tutto quanto era stato scritto su di lui, lo deposero dalla croce e lo misero in un sepolcro. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti ed è apparso per molti giorni a quelli che erano con lui in Galilea e a Gerusalemme e questi ora sono i testimoni davanti al popolo.

Noi vi annunziamo la buona novella: la promessa fatta ai padri si è realizzata perché Dio l’ha portata a compimento per noi, loro figli, risuscitando Gesù dai morti. Infatti, Dio provvide affinché non accadesse, come è stato scritto in diversi punti delle Scritture: Non permetterai che il tuo santo subisca la corruzione….

Ora anche Davide morì unito ai suoi padri nella corruzione. Ma colui che Dio ha risuscitato, non ha subito la corruzione. Per opera sua, fratelli, vi viene annunziata la remissione dei peccati e che per mezzo di lui, chiunque crede, riceve la giustificazione di tutto quello di cui era impossibile essere giustificati mediante la legge di Mosè. State attenti che non avvenga ciò che è detto nei profeti: Guardate, beffardi, stupite e nascondetevi, poiché un’opera io compio ai vostri giorni, un’opera che non credereste, se vi fosse raccontata” (At 13, 26-41).

Mentre i presenti uscivano dal tempio, pregavano i missionari di ritornare alla riunione  anche il sabato successivo ad esporre le dottrine. Sciolta l’assemblea, molti giudei e proseliti credenti in Dio, seguirono Paolo e Barnaba e, intrattenendosi con loro, li esortavano a perseverare nella grazia di Dio.

La violenta reazione dei Giudei

Il sabato seguente tutti gli abitanti della città si riunirono per ascoltare la parola di Dio. Quando videro quella moltitudine di persone, i Giudei furono assaliti dalla gelosia e , bestemmiando, contraddicevano le dichiarazioni fatte da Paolo. Al che Paolo e Barnaba reagirono dichiarando: “Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, noi ci rivolgiamo ai pagani. Infatti, a questo riguardo, il Signore ha ordinato: Io ti ho posto a luce per le genti perché tu porti la salvezza fino agli estremi confini della terra. Nell’udire ciò i pagani che ascoltavano si rallegrarono e glorificavano la parola di Dio, e tutti quanti erano preordinati alla vita eterna abbracciarono la fede. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei istigarono le donne devote della nobiltà e gli uomini di primo piano della città, suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dai loro confini. Essi, allora, scuotendo la polvere dei loro piedi contro di loro, se ne vennero a Iconio. E i discepoli furono pieni di letizia e di Spirito Santo (At 13, 46-52).

Capitolo quattordicesimo

L’evangelizzazione delle città di Iconio, Listra e Derbe

Testo: ” Anche a Iconio Paolo e Barnaba entrarono nella sinagoga dei Giudei e parlarono con tanta efficacia che un gran numero di Giudei e di Greci abbracciarono la fede. Ma i Giudei increduli eccitarono i pagani ed esasperarono i loro animi contro i fratelli. Ciò nonostante si trattennero colà per molto tempo, parlando con coraggio nel Signore, che dava testimonianza alla predicazione della sua grazia e che concedeva che si compissero segni e prodigi per la loro mano. La popolazione della città si divise: alcuni stavano con i Giudei, altri con gli apostoli. Ma quando i pagani e i Giudei si mossero con i loro capi per maltrattarli e lapidarli, saputolo, si rifugiarono nelle città della Licaonia, a Listra, a Derbe, e nei dintorni. E colà predicavano il vangelo” (At 14, 1-7).

Il paralittico di Listra

Testo: “A Listra c’era un uomo storpio, paralizzato alle gambe fin dalla nascita. Egli ascoltava, incantato, il discorso di Paolo e questi, notando che dava l’impressione di avere fede, gli disse: Alzati dritto sui tuoi piedi!”. Ed egli balzò su e cominciò a camminare. La gente del posto, che aveva assistito al portentoso intervento che Paolo aveva operato, in linguaggio licaonico diceva: “Gli dei in forma umana sono scesi in terra!”; e Barnaba lo chiamavano Zeus e Paolo Hermete perché era il più eloquente. E il sacerdote del tempio di Zeus, che si trovava alle porte della città condusse dei tori inghirlandati presso le porte e voleva offrire un sacrificio insieme con la folla. Ma quando gli apostoli Barnaba e Paolo vennero a sapere ciò, stracciandosi le loro vesti, si precipitarono in mezzo alla folla gridando: “Uomini, perché fatte queste cose? anche noi siamo esseri umani come voi, con le nostre debolezze, e vi predichiamo di convertirvi da queste cose vane al Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che in essi si trova. Egli nelle generazioni passate ha tollerato che tutte le genti andassero per le loro strade. Ma non ha lasciato se stesso privo di testimonianza, operando benefici, dandovi dal cielo le piogge e le stagioni fruttifere, saziandovi di cibo e riempendo di letizia i vostri cuori” (At 14, 8-17). Così dicendo, a fatica riuscirono a far desistere la folla dall’effettuare il consueto olocausto previsto per queste occasioni.

Intanto giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali si guadagnarono le folle e lapidarono Paolo, lo trascinarono fuori della città pensando che fosse morto. Ma quando i discepoli gli fecero cerchio intorno, egli si alzò ed entrò in città. Il giorno dopo ne uscì e con Barnaba partì per Derbe (At 14, 18-20).

Conclusione del primo viaggio missionario

Dopo aver predicato il vangelo in questa città e aver fatto un numero considerevole di discepoli, gli apostoli tornarono a Listra, Iconio e Antiochia. Confortarono e fortificarono gli animi dei discepoli fedeli, esortandoli a restare saldi nella fede, anche di fronte alle avversità che avrebbero incontrato nel faticoso cammino dell’evangelizzazione. Fondarono, qua e là, dei nuclei di comunità di anziani, i quali sarebbero diventati importanti soggetti di riferimento dei fedeli per l’organizzazione e il mantenimento delle attività religiose nel territorio. Dopo aver pregato e digiunato insieme, li benedirono e li affidarono al Signore nel quale credevano ed essi ripartirono.

 Attraversarono la Psidia e la Panfilia, soggiornarono di nuovo a Perge. Poi raggiunsero Attalia e da qui s’imbarcarono per far ritorno ad Antiochia di Siria, da dov’erano partiti per compiere la prima missione verso tutte le genti: Giudei e pagani. Qui riunirono la comunità, alla quale riferirono i risultati ottenuti, soprattutto nell’apertura dei pagani alla fede .

Capitolo quindicesimo

La controversia sulla circoncisione

Tra i credenti della città di Antiochia, si era acceso il dibattito sulla necessità o meno che i pagani convertiti compissero un preventivo tirocinio d’iniziazione sulla legge di Mosè, facendosi circoncidere, prima di essere ammessi alla nuova fede.

Paolo e Barnaba, invece, anche alla luce dell’esperienza fatta con i pagani nel loro recente viaggio missionario in Asia, si opponevano fermamente all’imposizione di questa prassi . Ciò perché temevano che questa pretesa, probabilmente, avrebbe scoraggiato molti dall’abbracciare la fede, specialmente nella fase iniziale.

Poiché il dibattito aveva raggiunto livelli polemici rilevanti, fu stabilito che Paolo, Barnaba e alcuni altri membri delle comunità, si recassero a Gerusalemme per investire della questione gli apostoli e gli anziani, onde chiarire le idee sulle scelte da fare in futuro. Scortati dalla comunità, essi attraversarono la Fenicia e la Samaria raccontando, alle genti che incontravano, le esperienze da loro fatte nella prima evangelizzazione dei pagani. Infatti, ovunque essi si erano presentati, avevano ricevuto consensi dalle popolazioni. A Gerusalemme la delegazione fu ricevuta dagli apostoli e dagli anziani, ai quali i missionari riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro. Si alzarono alcuni della setta dei farisei convertiti, affermando: E’ necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la legge di Mosè

Il Concilio di Gerusalemme e la decisione degli apostoli

Gli apostoli e gli anziani si riunirono per esaminare il problema. Si era costituita così un’Assemblea generale delle figure apostoliche più importanti, che prese il nome di Primo Concilio della Chiesa. In quella sede emersero due posizioni contrastanti. Dopo una lunga discussione, Pietro si alzò in piedi e disse: “Fratelli, voi sapete che da tempo Dio ha fatto una scelta fra di voi perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi. Non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificando con la fede i loro cuori. Ora, dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che, né i nostri padri, né noi stessi, siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che, per grazia del Signore Gesù, siamo stati salvati e, nello stesso modo, siano stati salvati anche loro”.

Tutti tacquero e ascoltarono i discorsi che facevano Paolo e Barnaba su quest’argomento. Essi raccontarono i grandi prodigi e i segni che Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro. Quando ebbero finito, si alzò Giacomo per dire che condivideva in pieno il discorso di Pietro, interpretandolo alla luce di alcuni passaggi delle Sacre Scritture, che avvaloravano la tesi di apertura del vangelo a tutte le genti, compresi i pagani. Concludeva il suo discorso facendo la seguente proposta: “Io ritengo che non si debbano importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani. Se mai, si possono chiedere loro alcuni sacrifici, come astenersi dalle carni offerte agli idoli, dall’impudicizia, dal cibarsi di animali soffocati e dal sangue. Mosè, intanto, lo conoscono tutti perché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe” (At !5, 19-21).

Allora gli apostoli, gli anziani e i vertici della Chiesa decisero di eleggere alcuni uomini di loro fiducia e di mandarli, insieme a Paolo e Barnaba, ad Antiochia con il compito specifico di portare il messaggio della loro decisione. Furono eletti due uomini di grande prestigio, Giuda Bersabba e Sila, ai quali fu affidata una lettera da consegnare ai responsabili della Chiesa di Antiochia, che conteneva il seguente messaggio:

“Gli apostoli e gli anziani ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni, ai quali noi non avevamo dato alcun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro discorsi, sconvolgendo i vostri animi. Abbiamo deciso perciò di mandarvi, insieme a Barnaba e Paolo, che hanno già esposto la loro vita a rischi in nome di Gesù Cristo, due uomini di nostra fiducia, Giuda e Sila, che vi riferiranno, anche a voce, sulle decisioni prese. Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo, all’infuori di alcune cose strettamente necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dall’impudicizia. Perciò farete cosa buona a guardarvi da queste cose. State bene!” (At 15, 23-29).

Gli incaricati andarono ad Antiochia e consegnarono la lettera ai loro destinatari, adempiendo, con grande zelo, alla loro missione. Infatti, essendo Giuda e Sila anche dei profeti, essi si trattennero per un po’ a incoraggiare e a fortificare i neofiti nella fede in Dio. Poi ritornarono a Gerusalemme dagli apostoli che li avevano mandati, mentre Paolo e Barnaba si trattennero nella città per qualche tempo.

Il secondo viaggio missionario di Paolo e Barnaba

Dopo alcuni giorni, Paolo propose a Barnaba di ritornare a far visita ai fratelli delle comunità, alle quali avevano annunziato la parola del Signore, onde accertare come andavano le cose. Barnaba acconsentì e voleva prendere con sé anche Giovanni, detto Marco, mentre Paolo era di parere contrario. Egli, infatti, non riteneva opportuno prendere uno che, nel precedente viaggio, li aveva abbandonati quand’erano ancora all’inizio, era tornato indietro e non aveva voluto continuare l’opera missionaria intrapresa. Il dissenso aveva aperto un solco profondo nell’amicizia, per cui i due amici si separarono. Infatti, Barnaba prese con sé Marco e s’imbarcò per Cipro; Paolo, invece, prese Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore.

Essi avevano attraversato la Siria e la Cilicia, dando forza e nuovo vigore alle Chiese che andavano visitando.

Capitolo sedicesimo – L’evangelizzazione della Macedonia

L’incontro di Paolo con Timoteo

Paolo si recò in Psidia in visita alle Chiese di Derbe e di Listra, che aveva fondate qualche tempo prima. Lì ebbe un incontro importante per la sua missione futura: conobbe il discepolo Timoteo, figlio di una donna giudea e di un padre greco; era un discepolo molto stimato tra i fratelli di Listra e di Iconio. Paolo lo volle da subito al suo fianco, lo prese con sé, lo fece circoncidere per fugare ogni dubbio dei Giudei che vivevano nella zona e che sapevano che era figlio di un greco. I tre missionari, predicando il vangelo, riferivano ai fedeli le decisioni prese dal collegio degli apostoli, insieme al consiglio degli anziani, nel Concilio di Gerusalemme.

Le chiese intanto crescevano di numero e si fortificavano nella fede e nell’organizzazione dei riti liturgici.

Il gruppo attraversò la Frigia, la Galazia, la Misia e giunse a Troade. Durante la notte Paolo ebbe una visione: gli apparve in sogno un macedone che lo supplicava: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Interpretando quest’apparizione come un segno della volontà divina, la compagnia apostolica decise di andare in Macedonia. Salpati da Troade, Paolo e i compagni fecero vela verso l’isola di Samotracia, sbarcarono a Neapolis e da qui raggiunsero Filippi, prima città romana del distretto di Macedonia.

Le avventure di Paolo e i suoi compagni a Filippi

(A questo punto cambia il soggetto della narrazione: dalla 3^ persona singolare egli, passa alla 1^ persona plurale noi. Si pensa a un’influenza di Luca, compagno di viaggio di Paolo e ritenuto il narratore dell’opera).

Nei giorni successivi all’arrivo, quand’era l’ora delle riunioni per la preghiera, Paolo e i compagni uscirono a passeggio per esplorare la città e incontrare le persone, con alcune delle quali s’intrattennero a parlare. Tra le tante persone che conobbero, incontrarono una certa Lidia, commerciante di porpora, originaria di Tiatira, nella Lidia asiatica. Ascoltando le parole di Paolo, divenne subito fervida credente in Dio. Dopo essersi fatta battezzare insieme alla sua famiglia, accolse i discepoli nella sua abitazione.

Un giorno, in giro per la città, i discepoli incontrarono una giovane schiava che aveva ricevuto il dono della divinazione e, facendo l’indovina, procurava molti guadagni ai suoi padroni. Essa seguiva la compagnia di Paolo, gridando:

“Questi uomini sono servi di Dio altissimo e annunziano la via della salvezza”. Quando Paolo si stancò di sentirla ripetere queste parole per le strade, si rivolse allo spirito e gli intimò: “In nome di Gesù Cristo, ti ordino di uscire da lei!”. Lo spirito uscì all’istante, ma lei perse il dono della divinazione. I padroni, indignati per i mancati guadagni, trascinarono gli apostoli in piazza, davanti ai magistrati, accusandoli: “Questi uomini gettano disordine nella città; sono Giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito accogliere, né praticare”. Contro di loro aizzarono la folla che, prima li spogliò e li prese a bastonate, poi li fece arrestare e rinchiudere nel carcere, assicurandoli con i ceppi ai i piedi.

 Verso mezzanotte, Paolo e Sila pregavano e cantavano inni, mentre i loro carcerieri li ascoltavano incuriositi.

A un cero punto venne un terremoto che squarciò le strutture del carcere: le porte si aprirono, le catene che reggevano i ceppi si sciolsero. Il carceriere si svegliò e, vedendo spalancate le porte della prigione, disperato, prese la spada in mano per suicidarsi. Ma Paolo gli gridò: “Non farti alcun male, siamo tutti qui!”. Quegli allora si procurò un lume, si precipitò dentro il locale e si getto ai piedi di Paolo e Sila, chiedendo:

“Signori, che cosa devo fare per essere salvato?”. Gli risposero: “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”.

Egli allora li accolse in casa, lavò loro le piaghe, si fece battezzare insieme ai suoi; poi, in onore degli ospiti, organizzò un banchetto in famiglia. Era felice di aver creduto in Dio.

L’epilogo della situazione

Il giorno successivo i magistrati diedero l’ordine alle guardie di liberare i carcerati. Il carceriere riferì il messaggio a Paolo: “I magistrati hanno ordinato di lasciarvi andare. Dunque, uscite e andate in pace!”. Ma Paolo gli rispose: “Ci hanno percosso in pubblico e senza processo, sebbene siamo cittadini romani e ci hanno gettati in prigione; ora vogliono farci uscire di nascosto? Quest’affronto proprio no! Vengano loro di persona a condurci fuori”. Le guardie riferirono la risposta di Paolo ai magistrati. Nell’udire che erano cittadini romani, si spaventarono; vennero, si scusarono, li fecero uscire e li pregarono di andar via dalla città. Usciti dalla prigione, i discepoli si recarono a casa di Lidia, dove incontrarono i fratelli, li esortarono a perseverare saldi nella fede e poi partirono (At. 16, 35-40).

Capitolo Diciassettesimo – Paolo a Tessalonica e Atene

Difficoltà di rapporti di Paolo e compagni con i Giudei di Tessalonica

Partendo da Filippi, la compagnia di Paolo s’incamminò nella via Egnazia, che conduceva da Roma a Costantinopoli, finché giunsero a Tessalonica. In questa città Paolo, com’era sua abitudine, si recò nella sinagoga dei Giudei per tre sabati consecutivi. Nei suoi discorsi egli cercava di spiegare al suo uditorio il punto più importante della sua missione: la connessione di significato tra alcuni passi delle Sacre Scritture, che parlano dell’attesa del Messia, e l’avvento di Gesù Cristo, il salvatore del mondo.

“Il Cristo-Messia, egli diceva, è quel Gesù che io vi annunzio”.

Alcuni di loro, un certo numero di Greci e alcune donne della nobiltà furono convinti e aderirono alla fede proposta da Paolo e Sila. Ma molti Giudei, ingelositi della popolarità che riscuotevano gli apostoli, trascinarono dalla loro parte alcuni individui di piazza e altra marmaglia sbandata, che insieme, mettevano a soqquadro la città. Questa gentaglia, sguinzagliata dai Giudei alla ricerca di Paolo e Sila per condurli davanti al popolo, andò anche a casa di Giasone che aveva offerto loro ospitalità; e non avendoli trovati, trascinarono Giasone e suoi fratelli dai capi della città, gridando: “I sovvertitori dell’ordine pubblico della città, sono andati anche a casa di Giasone ed egli ha offerto loro ospitalità. Tutti costoro vanno contro i decreti dell’imperatore, affermando che c’è un altro re, Gesù”. Così misero in agitazione la città e i suoi amministratori che udivano queste voci di propaganda; e, dopo avergli fatto pagare una cauzione, rilasciarono Giasone e i suoi congiunti.   

Tuttavia, per evitare ulteriori complicazioni, durante la notte i fratelli fecero partire Paolo e Sila per Berea. Giunti in questa città, come facevano altrove, gli apostoli entrarono nella sinagoga dei Giudei. Qui trovarono una situazione più tranquilla di quella che li aveva accolti a Tessalonica.

Gli apostoli ebbero il modo e il tempo di spiegare le Sacre Scritture e il messaggio, di cui erano portatori; mentre gli ascoltatori accolsero la fede con umiltà e buona disponibilità di animo. Credettero molti uomini e anche un certo numero di donne greche della nobiltà.

Ma quando gli abitanti di Tessalonica vennero a sapere che anche a Berea era stata annunziata la parola di Dio, andarono anche lì per agitare e sobillare il popolo.

Paolo fa il memorabile discorso all’Areopago di Atene

Allora i fratelli fecero partire Paolo nella strada verso il mare, mentre Sila e Timoteo rimasero nella città di Berea. Quelli che scortavano Paolo lo accompagnarono fino ad Atene, poi ripartirono con l’ordine di Paolo per Sila e Timoteo di raggiungerlo al più presto.

Mentre attendeva l’arrivo dei suoi compagni, Paolo andava in giro nelle vie per esplorare e conoscere la città. Fremeva dentro di sé quando vedeva le vie e le piazze piene di idoli. Nella sinagoga discuteva con i Giudei e nei luoghi pubblici con i pagani, credenti in Dio. Anche i filosofi epicurei e stoici parlavano con lui e, alcuni di essi, si chiedevano: “Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?”. Altri sentenziavano: “Sembra un annunziatore di divinità straniere”, perché egli annunziava Gesù e la risurrezione. In quei tempi gli ateniesi e gli stranieri residenti in città e tutti quelli che avevano tempo libero, non avevano altro passatempo più gradito di quello di parlare o ascoltare i discorsi fatti in pubblico. Perciò presero Paolo, lo condussero all’Areopago= (pubblica piazza) e lo interrogarono:

“Possiamo sapere quale è questa nuova dottrina che tu predichi? Da te abbiamo sentito dire cose strane, vogliamo sapere di che cosa si tratta!”.

Allora Paolo, alzatosi in piedi in mezzo all’Areopago, pronunziò uno dei discorsi più memorabili della sua attività missionaria, anche se riscosse poco successo. Senza lasciarsi impressionare dall’atteggiamento critico e diffidente dell’uditorio che aveva davanti, esordì dichiarando: ”Cittadini ateniesi, andando in giro per la vostra città ho potuto vedere che siete molto timorati degli dei. Infatti, passando e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un altare dedicato Al dio ignoto. Ebbene, colui che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Questi è il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che esso contiene. Egli è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire, perché non ha bisogno di essere servito da nessuno, né gli manca alcuna cosa; anzi essendo lui l’autore di tutto, è lui che dà a tutti la vita, il respiro e ogni altra cosa necessaria alla vita stessa. Egli, da un solo ceppo, ha fatto discendere tutte le stirpi degli uomini e le ha fatte abitare su tutta la faccia della terra. Ha fissato a ciascuno i tempi stabiliti e i confini della propria dimora, perché cercassero Dio e, andando come a tentoni, cercassero di trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui, infatti, viviamo, ci muoviamo, esistiamo, come bene hanno detto alcuni dei vostri poeti: di lui anche noi siamo stirpe. Essendo anche noi della sua stirpe, non dobbiamo pensare la divinità simile all’oro, all’argento o alle pietre, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo essere passato sopra i tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di convertirsi. Questo perché egli ha stabilito un giorno in cui dovrà giudicare la terra con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura con il risuscitarlo dai morti” (At 17, 22-31).

Quando lo sentirono parlare della risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano; altri, su quest’argomento, si ripromettevano d’interrogarlo un’altra volta; altri ancora aderirono a lui e abbracciarono la fede. Tra questi c’erano uomini sapienti, come Dionigi, membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris e altri ancora.

Intanto Paolo abbandonò la folla, uscì dall’arena cittadina e andò via.

Capitolo diciottesimo – La Chiesa di Corinto

L’evangelizzazione della città.

Dopo l’esperienza dell’Areopago, Paolo lascia Atene e si dirige a Corinto, capitale dell’Acaia. Una delle prime persone che incontra è Aquila, un giudeo oriundo del Ponto e appena arrivato dall’Italia, insieme alla moglie Priscilla. Erano stati espulsi a seguito delle disposizioni dell’imperatore Claudio, che allontanava i Giudei da Roma per i disordini che avevano creato nella società a causa delle discordie religiose sorte al loro interno (forse tra credenti e non credenti).

Paolo si stabilì a casa loro e lavoravano insieme perché erano tutti fabbricanti di tende di pelli. In più, ogni sabato egli predicava nella sinagoga, cercando di persuadere alla fede, sia i Giudei che i Greci. L’impresa missionaria e l’impegno lavorativo erano due attività non sempre facili da conciliare.

Quando, però, dalla Macedonia lo raggiunsero gli amici, Sila e Timoteo, egli lasciò che loro attendessero all’attività lavorativa, mentre egli si dedicò interamente alla predicazione, testimoniando davanti ai Giudei e ai Greci che Gesù è il Cristo. Ma siccome i Giudei, bestemmiando, gli opponevano continue resistenze, egli, scuotendosi le vesti, li apostrofò: “Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; d’ora in poi me ne andrò dai pagani”. Andatosene dalla sinagoga, entrò in una delle case vicine, dove abitava un tale che si chiamava Tizio Giusto, credente, che onorava Dio. Intanto anche il capo della sinagoga, Crispo, credette insieme alla sua famiglia. Ascoltando i discorsi dell’apostolo, anche molti Corinzi credevano e si facevano battezzare (At 18, 5-8).

L’ambiente umano generale della città era fecondo per la semina della fede e Paolo, in quel fertile humus antropologico urbano, continuava nella sua intensa attività evangelizzatrice. Una notte ebbe in sogno la visione del Signore che lo incoraggiava, dicendogli: “Non avere paura, continua a parlare e non tacere, nessuno ti farà del male perché in questa città, il mio popolo è numeroso”.

Entusiasta di quest’incoraggiamento, Paolo si trattenne in città per un anno e mezzo insegnando a tutti la parola di Dio.

L’incidente giudiziario con il proconsole romano, Lucio Anneo Gallione

Quando Gallione era proconsole d’Acaia (anno 51-52 d.C.), i Giudei insorsero in massa contro Paolo, lo accusarono di essere un sovversivo, lo trascinarono in tribunale affermando “Costui persuade la gente a rendere culto a Dio in modo contrario alla legge”. Quando Paolo era già pronto a parlare per rispondere alle accuse, Gallione lo bloccò e, stroncando la questione in poche parole, disse: “Se si trattasse di un delitto o di aver commesso un’azione malvagia, io, o Giudei, ascolterei le vostre lagnanze, come sarebbe giusto fare. Ma se si tratta di parole, nomi o fatti della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice delle faccende vostre”; e li fece cacciare via dal tribunale.

Allora i Giudei se la presero con il capo della sinagoga, Sostene, colpevole, a loro avviso, di aver presentato male l’accusa con una motivazione giudiziaria troppo debole. L’afferrarono e lo picchiarono malamente davanti al tribunale, ma Gallione non intervenne.

La frenetica attività di Paolo non conosce sosta

Dopo quest’ennesima batosta con Giudei, avversari della fede in Gesù, Paolo si trattenne a Corinto ancora per pochi giorni, poi s’imbarcò per la Siria, insieme ad Aquila e Priscilla. Ma prima della partenza, a Cencre (il porto orientale di Corinto) si fece tagliare i capelli per adempiere a un voto che aveva fatto. Sbarcati a Efeso, Paolo entrò subito nella sinagoga e si mise a discutere con i Giudei. Essi gli chiedevano di prolungare il suo soggiorno per continuare la missione in città, ma egli declinò l’invito, ripromettendosi di ritornare non appena fosse possibile.

Lasciò a Efeso Aquila e Priscilla e gli altri membri della comunità e s’imbarcò per Cesarea. Giunto di nuovo in Palestina, il testo dice che l’apostolo “salì per salutare la chiesa”. Questa frase, implicita e sibillina, viene interpretata dagli esegeti del testo evangelico nel senso che egli salì a Gerusalemme per conferire con gli apostoli e gli alti vertici della Chiesa. Poi discese di nuovo ad Antiochia, centro coordinatore delle attività di evangelizzazione. Rimase in città un certo tempo, poi ripartì per compiere il terzo viaggio missionario. Attraversò la Galazia e la Frigia, visitando le comunità già fondate in precedenza: Derbe, Listra, Iconio, Antiochia di Psidia, Efeso, incoraggiando e   confermando i discepoli nella fede.

TERZO VIAGGIO MISSIONARIO

Il predicatore Apollo

Intanto era giunto ad Efeso un Giudeo di nome Apollo, proveniente da Alessandria d’Egitto, dove era nato e si era formato nel fulcro della cultura ellenistica. Era un uomo colto e conosceva bene le Sacre Scritture. Era stato bene ammaestrato nella dottrina del Signore, era un fervido credente, parlava e insegnava tutto ciò che si riferiva a Gesù, nonostante conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. Poiché era un eloquente oratore nella sinagoga, Aquila e Priscilla lo presero con loro e gli insegnarono con maggiore esattezza la dottrina predicata da Gesù Redentore. Siccome poi desiderava andare in Acaia, i fratelli di Efeso lo incoraggiarono e lo raccomandarono ai fratelli delle comunità elleniche del continente. Queste lo accolsero bene, era un oratore di talento e fu di grande aiuto per conquistare altri credenti alla fede. Infatti, confutava facilmente le opposizioni dei Giudei e, attraverso i riferimenti chiari alle Sacre Scritture, insegnava che Gesù è il Cristo.

Capitolo dicannovesimo – La predicazione di Paolo a Efeso

Consensi e difficoltà’

Mentre Apollo si trovava a Corinto, Paolo, dopo aver attraversato le regioni dell’altopiano (Frigia e Galazia) giunse ad Efeso dove, ai discepoli della comunità che lo accolse, chiese: “Quando avete scelto la fede, avete ricevuto lo Spirito Santo?”. Essi dissero di no e aggiunsero che non sapevano neppure che cosa fosse lo Spirito Santo, perché non ne avevano mai sentito parlare.

Allora chiese: “Di che battesimo siete stati battezzati?”; e quelli risposero: “Del battesimo di Giovanni”. Allora Paolo soggiunse: “Giovanni battezzò con un battesimo di penitenza, dicendo al popolo che occorre credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù”. Dopo aver udito queste parole, si fecero battezzare nel nome di Gesù Cristo e, non appena Paolo impose loro le mani, discese lo Spirito Santo e subito essi si misero a parlare molte lingue e a profetare. Erano circa dodici persone. Dopo questa cerimonia, Paolo entrò nella sinagoga, dove iniziò a parlare e a persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio. Era il suo impegno quotidiano, che egli tenne e andò avanti per tre mesi. Ma gli increduli gli opponevano ogni tipo di resistenza, rifiutavano la dottrina della salvezza, parlavano male della fede proposta dall’apostolo anche davanti alle moltitudini di persone.

A un certo punto Paolo perse la pazienza, si staccò da loro, separò i discepoli e con essi continuò l’attività missionaria in un altro locale: nella scuola di un certo Tiranno.

Questa situazione durò per due anni, con il risultato finale che tutti gli abitanti dell’Asia, sia i Giudei che i Greci, poterono ascoltare l parola del Signore.

I miracoli di Paolo e gli esorcismi dei Giudei

Dio operava prodigi straordinari per le mani di Paolo. Ai malati si applicavano fazzoletti e grembiuli che erano stati a contatto con l’apostolo e i malati guarivano e dagli indemoniati uscivano gli spiriti maligni. Visti questi prodigi, anche alcuni esorcisti Giudei itineranti provarono a cimentarsi nell’arte divinatoria. Sopra gli indemoniati alzavano le mani e dicevano: “Vi scongiuro in nome di Gesù che Paolo va predicando”. Cercavano di fare quest’arte i sette figli del sommo sacerdote giudeo Sceva. Ma una volta lo spirito malvagio si ribellò, dicendo loro: “Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?”. La cosa non finì lì, ma l’uomo indemoniato balzò loro addosso, li afferrò e li strattonò con una violenza tale, che dovettero fuggire nudi e pieni di ferite dalla casa, dove tentavano di fare il sortilegio. Il fatto fu risaputo dagli abitanti di Efeso, Giudei e Greci; tutti furono presi da grande timore e magnificavano il nome del Signore Gesù.

A seguito di quest’avvenimento, molti di quelli che avevano abbracciato la fede confessavano in pubblico di aver fatto ricorso a pratiche magiche; non pochi di questi apprendisti stregoni portavano i libri di arti magiche e li bruciavano nelle pubbliche piazze. Ne fu calcolato il valore complessivo nella cifra di cinquantamila dramme d’argento. Così la parola del Signore si diffondeva e si rafforzava sempre di più. Quand’era ancora impegnato a Efeso, Paolo progettò altri viaggi. Pensò di fare un nuovo viaggio a Gerusalemme, passando attraverso la Macedonia e l’Acaia, nelle cui regioni, mandò in anticipo due suoi fidati collaboratori: Timoteo ed Erasto, mentre egli si trattenne per qualche tempo nella provincia dell’Asia.

Il tumulto provocato dall’argentiere Demetrio a Efeso 

In quel tempo, a Efeso, la dottrina che Paolo andava predicando entrò in conflitto con la produzione artigianale del posto, provocando un grande tumulto nel popolo. C’era un argentiere, di nome Demetrio, che fabbricava tempietti di Artemide in argento e con questa attività procurava notevoli guadagni agli artigiani. A un certo punto egli radunò i suoi colleghi e collaboratori e arringò la folla con questo discorso: “Cittadini, voi sapete che da quest’industria dipende il nostro benessere sociale, ma adesso è sorto un grave problema. Ora potete vedere e sentire come questo Paolo ha convinto e sviato molta gente, non solo in Efeso, ma in tutta l’Asia, affermando che non sono dei quelli costruiti dalla mano dell’uomo. Il nostro lavoro futuro viene messo a rischio. Anzi, non soltanto c’è il rischio che la nostra categoria cada in discredito, ma c’è anche il pericolo che il santuario della grande dea Artemide (una delle sette meraviglie del mondo) venga svalutato e venga distrutta tutta la grandezza di colei (Artemide) che l’Asia e il mondo intero adorano. Questo discorso infiammò d’ira della folla e tutti si misero a gridare in coro “Grande è l’Artemide degli Efesini!”. L’intera città fu messa in subbuglio, tutti si precipitarono in massa verso il teatro, trascinando con sé i compagni macedoni dell’apostolo, Gaio e Aristarco.

Paolo voleva presentarsi anche lui nel teatro davanti alla folla ma, per prudenza, i compagni gliel’impedirono. Anche alcuni capi politici della provincia, amici dell’apostolo, gli mandarono a dire di non presentarsi nel teatro, dove una folla inferocita gridava la sua rabbia. Tanto era il disordine e la confusione, che molti gridavano in mezzo alla folla, ma non sapevano neppure perché erano lì. Un certo Alessandro, del seguito di Paolo, voleva prendere la parola in difesa dell’apostolo. Ma non appena si accorsero che era Giudeo, tutti si misero a gridare in coro il loro slogan di protesta per quasi due ore “Grande è l’Artemide degli Efesini!”.

Alla fine, intervenne il cancelliere che, con un suo eloquente discorso, riuscì a calmare la folla. “Cittadini di Efeso, egli esordì, chi fra gli uomini non sa che la città è custode del tempio della grande Artemide e della sua statua caduta dal cielo? Poiché questi fatti sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. Voi avete condotto qui questi uomini, che non hanno profanato il tempio, né hanno bestemmiato la nostra dea. Perciò, se Demetrio e i suoi colleghi hanno ragioni da far valere contro qualcuno, per questo ci sono i tribunali e i proconsoli: si citino in giudizio l’un l’altro. Se poi desiderate qualche altro cosa, si deciderà nell’assemblea ordinaria. C’è il rischio di essere accusati di sedizione per quello che è accaduto oggi, non essendoci alcun motivo che giustifichi quest’assembramento”. Con queste parole, sciolse l’assemblea.

Capitolo ventesimo – La partenza di Paolo da Efeso per la Macedonia e l’Acaia

Il periglioso viaggio di ritorno di Paolo a Gerusalemme.

Quando a Efeso era cessato il tumulto, Paolo radunò i suoi, diede ai capi le ultime raccomandazioni sulle direttive organizzative e del culto per tenere viva la fede, li salutò e partì con il suo seguito verso la Macedonia. Dopo aver incontrato lungo la strada altre comunità di fedeli, che egli esortò a restare costanti nella dottrina, arrivò in Grecia. Quando già si accingeva a salpare per la Siria, si scoprì che i Giudei avevano organizzato un complotto contro di lui, per cui rimase lì bloccato per tre mesi. A questo punto decise di tornare indietro verso la Macedonia. Lo accompagnarono sette uomini, tra i quali: Sopatro, Aristarco, Secondo di Tessalonica, Gaio, Timoteo e altri, tra i suoi più fidati collaboratori.

(In Cap. 20, 5-15; come era stato in Cap. 16, 10-17; e come sarà in Cap.21, 1-18; e ancora  in Cap. 27, 1-28) il narratore Luca riprende il discorso alla prima persona plurale).

Questi accompagnatori partirono prima del gruppo ristretto dell’apostolo, con l’intesa che si sarebbero ritrovati insieme, alcuni giorni dopo, a Traode.

Il narratore continua: “Noi salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi e raggiungemmo i compagni dopo cinque giorni a Traode, dove ci trattenemmo una settimana. Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti per la frazione del pane. Paolo si trattenne a conversare con i compagni per molta ora perché voleva accudire a dire tutte le cose che intendeva comunicare, dato che il giorno dopo doveva partire. La discussione si protrasse fino a mezzanotte. Il locale della riunione era posto al terzo piano di un edificio ben illuminato da molte lampade. Un ragazzo, di nome Eutico, era seduto alla finestra; stanco di attendere, si addormentò e cadde giù a terra, per cui i soccorritori lo raccolsero già morto. Paolo scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: Non turbatevi; è ancora in vita! Poi risalì, svolse la cerimonia, spezzò il pane e ne mangiò. Dopo riprese la conversazione che durò fino all’alba e partì. Intanto tutti si sentivano consolati perché il ragazzo era stato riportato in vita.

Noi (il gruppo di Luca narratore) eravamo già partiti in nave per Asso, dove avremmo dovuto prendere a bordo anche Paolo; egli, invece, aveva voluto fare quel tratto di cammino a piedi. Così facemmo. Salpati da Asso, attraversammo il mare e arrivammo a Mitilene. Salpati da qui, il giorno dopo ci trovammo di fronte a Chio, mentre l’indomani toccammo Samo e l’indomani ancora arrivammo a Mileto. Paolo ormai aveva deciso di passare al largo di Efeso per non attardarsi in Asia. Egli era preoccupato di arrivare a Gerusalemme in tempo per il giorno della Pentecoste” (At 20, 1-16).

Mileto. Il discorso di addio di Paolo ai presbiteri e vescovi delle Chiese Orientali

Da Mileto Polo mandò a chiamare gli anziani della Chiesa di Efeso. Quando essi giunsero da lui, egli disse loro: Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui sono arrivato in Asia. Ho servito il Signore con molta umiltà tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e d’istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore Gesù Cristo. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo, tuttavia, la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al vangelo della grazia di Dio.

Ecco ora so una cosa: che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdono, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi la volontà di Dio. Vegliate su di voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi per pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza verranno lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia, che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati.

Io non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che, lavorando così, si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!” (At 20, 18-35).

Detto questo, s’inginocchiò con tutti loro e pregò.

Tutti scoppiarono in un gran pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. Chiusero l’incontro accompagnandolo fino alla nave.  

Capitolo ventunesimo – L’arrivo a Gerusalemme

Le varie tappe del viaggio di ritorno in Palestina

Dopo aver salutato i presbiteri e gli anziani del clero di Efeso, venuti a Mileto per incontrare l’apostolo, gli stessi accompagnarono Palo e il suo seguito alla partenza. Dopo i convenevoli dei saluti, la nave prende il largo e giunge prima nell’isola di Cos, poi a Rodi e infine a Patara, nella costa meridionale della Licia. Il narratore e compagno di viaggio di Paolo, continua il racconto in 1^ persona plurale: “Trovata la coincidenza di una nave commerciale che partiva per la Fenicia, salimmo a bordo e la nave prese il largo. Nella rotta che seguiva l’imbarcazione, lasciammo Cipro a sinistra e continuammo dritti verso la costa occidentale della Siria, finché giungemmo a Tiro, dove la nave scaricò la merce. Essendo venuti i discepoli a salutarci, ci trattenemmo lì una settimana. Nelle discussioni, che hanno avuto luogo tra di noi, i discepoli sconsigliavano Paolo dall’andare a Gerusalemme. Ma Paolo era di diverso avviso, per cui, quando venne l’ora, partimmo accompagnati dai fedeli, insieme alle loro famiglie, mogli e figli fino alla periferia della città. Inginocchiati sulla spiaggia, pregammo, poi ci salutammo calorosamente: noi salimmo sulla nave ed essi se ne tornarono alle loro case. Il viaggio via mare ci portò da Tiro a Tolemaide, dove andammo a salutare i fratelli della città, con i quali ci trattenemmo un giorno. Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarea. Qui andammo a trovare l’evangelista Filippo, uno dei sette e ci trattenemmo da lui. Egli aveva quattro figlie nubili e tutte avevano il dono della profezia. Li raggiunse un profeta dalla Giudea, chiamato Agabo. Questi prese la cintura di Paolo, con essa si legò mani e piedi e disse: “Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo cui appartiene questa cintura, sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà consegnato nelle mani dei pagani”.

Sentendo queste cose, noi e quelli del luogo pregammo Paolo perché non andasse a Gerusalemme. Ma Paolo, coraggioso e deciso, rispose:

“Perché fate così, vedendovi piangere, mi spezzate il cuore! Io sono pronto, non solo ad essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il Signore Gesù!”. Poiché non si lasciava persuadere, smettemmo d’insistere dicendo: “Sia fatta la volontà del Signore!”. Dopo alcuni giorni, fatti i preparativi, salimmo a Gerusalemme. Vennero con noi anche alcuni discepoli di Cesarea, che ci condussero da un certo Mnasone di Cipro, discepolo della prima ora, dal quale ricevemmo ospitalità.

Le complicazioni e i malintesi che sorgono nella Città Santa

Arrivati a Gerusalemme i presbiteri accolsero festosamente il ritorno di Paolo e del gruppo missionario.

“L’indomani, continua il narratore, con Paolo andammo a far visita a Giacomo (il minore); con noi c’erano tutti i fratelli e gli anziani. Dopo i saluti, Paolo incominciò a esporre la serie dei miracoli che il Signore aveva fatto tra i pagani per mezzo suo. Tutti ascoltarono, diedero gloria a Dio e dissero a Paolo: “Fratello, tu vedi quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla legge. Ora hanno sentito dire che tu vai insegnando ai Giudei, sparsi tra i pagani, che abbandonino Mosè, dicendo di non far circoncidere i propri figli e di non seguire più le nostre consuetudini. Come facciamo? Di sicuro sapranno che sei arrivato. Ascolta il nostro consiglio: vi son quattro uomini che hanno fatto un voto di purificazione, che devono sciogliere. Prendili con te, compi la purificazione e paga tu le spese per radersi il capo anche loro (rito del nazireato). Così i tuoi nemici possono capire che le cose che hanno sentito dire, sono dicerie e che tu osservi puntualmente la legge. Quanto ai pagani che sono venuti alla fede, noi (i presbiteri) abbiamo già stabilito le norme nel Concilio di Gerusalemme: essi dovranno astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, da animali soffocati e dall’impudicizia” (At 21, 20-25).

Paolo obbedì al consiglio dei fratelli, fece le purificazioni, entrò nel tempio per comunicare il rispetto dei tempi, del cerimoniale delle purificazioni e la data per il versamento dell’offerta; stava ormai per concludere il suo discorso, quando accadde la sorpresa: i Giudei, che erano venuti dalla provincia dell’Asia, irruppero nel tempio, aizzarono la folla e misero le mani addosso a Paolo, gridando a gran voce: “Uomini d’Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando dovunque a tutti contro il popolo, contro la legge, contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato questo luogo santo” (At 21, 28).

Infatti, poco prima avevano visto Paolo in compagnia di un certo Trofimo di Efeso e avevano pensato che l’avesse fatto entrare anche nel tempio. Tutta la città fu messa in subbuglio e accorse la gente da ogni parte. La folla s’impadronì di Paolo, lo trascinò fuori dal tempio e chiuse le porte. Mentre cercavano di ucciderlo, la notizia giunse al tribuno della cohorte romana di vigilanza. Il tribuno prese soldati e centurioni e si precipitò in piazza, dove c’era l’adunata della folla sediziosa. Quando videro arrivare il tribuno con i soldati, i più scalmanati cessarono di percuotere Paolo. Il tribuno si avvicinò, lo arrestò e ordinò che fosse legato con due catene. Intanto andava informandosi chi fosse costui e che cosa avesse commesso. Tra la folla sediziosa, alcuni gridavano una cosa, altri ne gridavano un’altra e, data l’impossibilità di capire bene come stavano le cose, ordinò che fosse portato alla fortezza. Quando, soldati e vittima, dovevano risalire la gradinata, i primi dovettero portare l’accusato a spalle, per sottrarlo al linciaggio della folla che, ciecamente, gridava: A morte! A morte!

A un certo punto egli chiese al tribuno di permettergli di dirgli una parola e il gendarme gli rispose: “Conosci il greco? Allora non sei quell’Egiziano che in questi giorni ha sobillato e condotto nel deserto più di quattromila ribelli?”. Paolo gli rispose:

“Io sono Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza. Ma ti prego di consentire che io rivolga la parola a questa gente”. Avendo egli acconsentito, Paolo stando in piedi nella scala, fece cenno con la mano e ottenne il silenzio, di modo che egli potesse pronunziare il suo discorso in lingua ebraica.

Capitolo ventiduesimo – Paolo si difende davanti ai Giudei di Gerusalemme

Il discorso di autodifesa di Paolo ai cittadini di Gerusalemme

Paolo, come fattore importante della sua autodifesa, cercò di rievocare la storia dei suoi rapporti con la fede in Gesù. Esordì dicendo: “Fratelli e padri, ascoltate la mia storia”.

Quando sentirono che parlava in lingua ebraica, il silenzio si fece ancora più grande. L’apostolo continuò: “Io sono giudeo, nativo di Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato ai piedi di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi lo siete voi. Io perseguitai a morte i fedeli che seguivano la Via, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, come possono testimoniare per me il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani.

Da loro ricevetti la lettera per i fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là, come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti. Mentre ero in viaggio per la via di Damasco, una grande luce dal cielo si abbatté su di me. Caddi a terra e sentii una voce che diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Le risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi desse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. Quelli che erano insieme a me, videro la luce, ma non udirono le parole. Io allora dissi: “Che cosa devo fare?” e il Signore mi rispose: “Prosegui la via fino a Damasco, poi ti sarà detto cosa dovrai fare”. Poiché non vedevo in quanto quella la luce accecante mi aveva fatto perdere la vista, fui preso per mano dai compagni di viaggio.

Nella casa dove alloggiavo in città venne a trovarmi un certo Anania che, sedutosi al mio fianco, mi disse: Saulo, fratello mio, torna a vedere! In quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. Allora quegli mi disse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare la parola dalla sua stessa bocca perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. Ora alzati, ricevi il battesimo, purificati dai tuoi peccati, invocando il suo nome.

Tornato a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi e vidi lui che mi diceva: Affrettati, esci da Gerusalemme perché qui non accetteranno la tua testimonianza su di me. Io gli dissi: “Signore, essi sanno che io facevo imprigionare e percuotere nelle sinagoghe tutti quelli che credevano in te; e quando veniva versato il sangue di Stefano, anch’io ero presente, approvavo l’azione e custodivo le vesti della vittima”. Allora egli mi disse: “Vai, perché io ti manderò lontano, tra i pagani”.

La reazione dei Giudei e l’intervento del tribuno romano

Fin lì, tutti i presenti erano rimasti attenti ad ascoltare, ma, arrivati a quel punto, essi si misero a gridare in coro: “Toglilo di mezzo perché non deve più vivere!”. Poiché continuavano a gridare, ad agitare mantelli e a gettare polvere in aria, il tribuno lo condusse nella fortezza, ordinando d’interrogarlo a colpi di flagello per fargli confessare il motivo per cui la folla ce l’aveva contro di lui. Ma quando l’ebbero legato con la cinghia, Paolo disse al centurione: “Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?”. Udito ciò il centurione andò a riferire al tribuno: “Che cosa state per fare? Quell’uomo è un romano!”. Allora il tribuno si recò da Paolo e gli domandò: “Sei cittadino romano?”. Quello rispose: “Sì”. Il tribuno replicò: “Io questa cittadinanza l’ho acquistata a caro prezzo”. Paolo gli rispose: “Io, invece, lo sono di nascita”. All’udire questa risposta, quelli che dovevano interrogarlo si allontanarono senza profferir parola. Anche il tribuno, avendo saputo che egli aveva messo in catene un cittadino romano, ebbe paura.

Il giorno seguente, avendo voluto conoscere la realtà dei fatti per cui i Giudei lo accusavano, gli fece togliere le catene e ordinò che si riunissero i sommi sacerdoti e l’intero sinedrio, poi presentò Paolo davanti a loro.

Capitolo ventitreesimo – Paolo davanti al sinedrio di Gerusalemme

Paolo affronta il sinedrio e la disputa tra farisei e sadducei

Con lo sguardo fisso davanti al sinedrio, Paolo dichiarò: “Fratelli, io ho agito fino ad oggi davanti a Dio in perfetta rettitudine di coscienza”. Ma il sommo sacerdote Anania ordinò ai suoi assistenti di percuoterlo nella bocca. Al che Paolo reagì, dicendo: “Dio percuoterà te, muro imbiancato! Tu siedi a giudicarmi secondo la legge e contro la legge comandi di percuotermi?”. I presenti obiettarono: “Osi insultare il sommo sacerdote di Dio?”. Al che Paolo rispose di non sapere che era il sommo sacerdote.

Ma egli sapeva bene che il sinedrio era composto da due fazioni diverse: una parte di farisei e l’altra di sadducei. Pertanto, continuò la sua deposizione dicendo: “Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; sono stato chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti “. Appena ebbe detto questo, scoppiò la disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei, infatti, affermano che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei, invece, professano tutte queste cose. Si levò un grande clamore di voci contrastanti, per cui, alcuni scribi farisei protestavano dicendo: “Non troviamo nulla di male in quest’uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse veramente parlato?”. La disputa andò surriscaldandosi fino a diventare conflitto aperto, che stava per degenerare nella rissa e magari nell’omicidio. Pertanto, il tribuno fece intervenire la truppa dei soldati, che riportò Paolo nella fortezza, onde sottrarlo al rischio di linciaggi. La notte seguente a Paolo apparve in visione il Signore che lo rincuorò dicendogli: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che mi renda testimonianza anche a Roma”.

La congiura dei Giudei con giuramento esecratorio per l’uccidere Paolo

Il giorno successivo, un gruppo di una quarantina di Giudei ordirono una congiura e fecero voto, con giuramento esecratorio, di non toccare né cibo, né bevanda, se prima non avessero ucciso Paolo. I congiurati si presentarono ai sommi sacerdoti e agli anziani e li istigarono a mettere in atto uno stratagemma che avrebbe loro offerto l’occasione favorevole per tendere a Paolo l’imboscata proditoria. I capi religiosi, conniventi con i sicari, avrebbero dovuto chiedere al tribuno di riportare il prigioniero nel sinedrio, con la scusa che era necessario riesaminare il caso per correggere un errore che ci sarebbe stato nella trascrizione della procedura processuale. I congiurati sarebbero entrati in azione con un’imboscata improvvisa durante il viaggio di andata, prima che il prigioniero arrivasse in tribunale.

Ma il nipote di Paolo (il figlio della sorella) venne a sapere del complotto, per cui si recò nella fortezza e informò lo zio della congiura in atto. Paolo chiamò uno dei centurioni, cui chiese di accompagnare il ragazzo dal tribuno perché aveva qualcosa da riferirgli. Il centurione accompagnò il ragazzo dal tribuno. Questi prese il ragazzo in disparte e gli domandò che cosa egli avesse da riferirgli. Il ragazzo gli disse: “I Giudei si sono messi d’accordo per chiederti di condurre domani Paolo nel sinedrio con il preteso di rivedere alcune cose riguardanti la procedura dell’udienza passata. Tu, però, non lasciarti convincere da loro perché la verità è un’altra. Infatti, più di quaranta uomini hanno ordito un complotto, facendo voto con giuramento esecratorio di non prendere più cibo, né bevanda, se prima non abbiano ucciso Paolo; ora sono pronti all’azione, in attesa che tu dia il tuo consenso”. Il tribuno congedò il giovanotto, raccomandandolo di non dire niente a nessuno sull’informazione data.

Fece chiamare due centurioni e disse: “Preparate duecento soldati per andare a Cesarea insieme con settanta cavalieri e duecento lancieri, tre ore dopo il tramonto. Siano pronte anche delle cavalcature e fatevi montare Paolo, perché sia condotto sano e salvo dal governatore Felice”.

Il tribuno Cludio Lisia invia Paolo con una lettera al governatore Felice a Cesarea.

La lettera del tribuno “Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice. Salute.

Quest’uomo è stato aggredito dai Giudei e stava per essere ucciso. A salvarlo sono intervenuti i soldati; io l’ho liberato perché ho saputo che è cittadino romano. Desideroso di conoscere i motivi dell’accusa, l’ho condotto al sinedrio. Lì ho capito che lo si accusava per motivi relativi alla loro legge religiosa, ma che non ci sono motivi sufficienti per i quali è prevista la condanna a morte o alla detenzione in prigione. Tuttavia, sono stato informato che contro di lui c’è un complotto in atto, per cui l’ho mandato da te; ma, nello stesso tempo, ho provveduto ad avvertire gli accusatori di deporre, dinanzi a te, le accuse che intendono muovergli. Sta’ bene” (At 23, 25-30).

Secondo gli ordini ricevuti, i soldati di notte condussero Palo ad Antipatride. Il mattino seguente l’affidarono ai cavalieri che l’avrebbero condotto a Cesarea, mentre essi se ne sarebbero ritornati alla fortezza.

I cavalieri, giunti a Cesarea, consegnarono la lettera al governatore e gli presentarono Paolo. Dopo aver letto lo scritto, il governatore domandò a Paolo di quale provincia fosse e saputo che era della Cilicia, disse: “Ti ascolterò quando saranno qui anche i tuoi accusatori”. Intanto lo fece custodire nel pretorio di Erode.

Capitolo ventiquattresimo – Il processo davanti al governatore Felice

L’accusa dei Giudei a Paolo, perorata dall’avvocato Tertullo

Cinque giorni dopo, l’interrogatorio che Felice aveva fatto a Paolo, arrivò il sommo sacerdote Anania insieme con alcuni anziani e l’avvocato Tertullo e si presentarono al governatore per il confronto dibattimentale con l’imputato. Quando tutto era pronto, Tertullo pronunziò l’accusa dicendo: “Accogliamo con gratitudine la pace e le riforme che tu hai dato a questo popolo, eccellentissimo governatore Felice. Ma, senza perdere tempo in troppi preamboli, ti prego di ascoltarci brevemente nella tua benevolenza. Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra i Giudei ed è capo della setta dei nazorei. Ha perfino cercato di profanare il tempio e noi l’abbiamo arrestato. Interrogandolo, ti renderai conto personalmente di tutte queste cose, di cui lo consideriamo colpevole. Tutti i Giudei presenti si associarono all’accusa di Tertullo.  

L’autodifesa di Paolo alle accuse dei Giudei

Quando il governatore autorizzò l’imputato a parlare, Paolo esordì: “So che da molti anni sei giudice di questo popolo e parlo in mia difesa avendo fiducia in te. Tu stesso puoi accertare che sono meno di dodici giorni che mi sono recato a Gerusalemme per il culto. Essi non mi hanno mai trovato nel tempio a discutere con qualcuno o a incitare il popolo alla sommossa, né nelle sinagoghe, né per la città e non possono provare nessuna delle colpe di cui mi accusano. Confesso invece che adoro Dio dei miei padri, secondo la Via che essi chiamano setta, credendo in tutto ciò che è conforme alla legge e sta scritto nei profeti, nutrendo in Dio la speranza, condivisa pure da costoro, che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti. Per questo mi sforzo di conservare ogni momento una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini. Ora, dopo molti anni, sono venuto a portare elemosine al mio popolo e per offrire sacrifici. In questa circostanza essi mi hanno trovato nel tempio, dopo aver compiuto le purificazioni. Non c’era né folla, né tumulto. Furono dei Giudei della provincia di Asia a trovarmi; essi dovrebbero comparire qui davanti a te ad accusarmi, se hanno qualche cosa da dire contro di me. Oppure dicano i presenti stessi quale colpa hanno trovato in me, quando sono comparso davanti al sinedrio, se non quella di aver pronunziato questa frase: “A motivo della risurrezione dei morti io oggi vengo giudicato davanti a voi!” (At 24, 10-21).

La lunga indecisione del governatore Felice

Allora Felice, che era bene informato sulla dottrina di Paolo, rimandò indietro Giudei, dicendo: “Quando verrà il tribuno Lisia, esaminerò il vostro caso”. Ordinò al centurione di tenere Paolo sotto custodia, concedendogli anche una certa libertà, senza impedire ai suoi amici di venire a fargli visita o a dargli assistenza.

Alcuni giorni dopo, Felice arrivò in compagnia della moglie, la giudea Drusilla. Fatto chiamare Paolo lo interrogò sul tema della fede in Gesù Cristo. Ma quando l’apostolo si mise a parlare di giustizia, di continenza e del giudizio futuro, Felice si spaventò e disse: “Per il momento puoi andare; quando avrò tempo, ti farò chiamare di nuovo”. Forse nella speranza che Paolo gli desse denaro, lo faceva chiamare spesso a conversare con lui. Ma nelle sue more inconcludenti, lasciava passare il tempo, tenendo Paolo in prigione per non scontentare i Giudei. Due anni dopo Felice fu trasferito altrove, mentre al suo posto, arrivò il nuovo governatore nella persona di Porcio Festo.

Capitolo venticinquesimo – Paolo si appella a Cesare

Festo è arbitro di schermaglie, tra le accuse dei Giudei e la difesa di Paolo

Una settimana dopo aver preso servizio come governatore a Cesarea, Festo salì a Gerusalemme. I sommi sacerdoti e i capi dei Giudei gli si presentarono numerosi per accusare Paolo e cercavano di persuaderlo a portare l’imputato a Gerusalemme con qualche pretesto, con l’intenzione malevola di tendergli l’imboscata e di ucciderlo durante il viaggio. Festo rispose che Paolo era tenuto in custodia sicura nel carcere di Cesarea e che, a breve, sarebbe partito. Pertanto, le autorità di Gerusalemme, se volessero sostenere ancora delle accuse contro di lui, sarebbero dovute scendere a Cesarea e dichiarare pubblicamente le colpe, di cui lo ritenevano responsabile.

Dopo qualche settimana, il governatore era tornato nella sua sede e il giorno seguente presiedette una seduta in tribunale, ordinando che in aula si conducesse Paolo. Appena l’imputato giunse nella sede, i Giudei scesi da Gerusalemme, lo attorniarono, imputandogli numerose gravi colpe, ma senza provarne alcuna.

Per tutta risposta, in sua difesa Paolo disse: “Non ho commesso alcuna colpa, né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né contro Cesare”.

Ma Festo, volendo ingraziarsi i Giudei, non si capisce se in buona o mala fede, disse a Paolo: “Vuoi andare Gerusalemme per essere giudicato là davanti a me di queste cose?”. Paolo, che indubbiamente aveva compreso il tranello dell’insidia sottesa in quell’eventuale opzione, gli rispose: “Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. Ai Giudei non ho fatto alcun torto, come anche tu sai perfettamente. Se dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non mi rifiuto di morire, ma se nelle accuse di costoro non c’è nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare!”

Festo, dopo aver riunito la camera di consiglio, gli rispose: “Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai!” (At. 25, 1-12).

La visita del re Agrippa e della moglie Berenice al governatore Festo

Un bel giorno il re Agrippa con la moglie Berenice, erano venuti a Cesarea a far visita di cortesia al governatore Festo. Essendosi trattenuti per alcuni giorni ospiti del governatore, Festo ebbe l’occasione opportuna di parlare con loro del caso di Paolo.

Disse che aveva ereditato la causa dal precedente governatore Felice. Parlò loro delle accuse che i sommi sacerdoti e gli anziani dei Giudei gli rivolgevano, per le quali reclamavano la condanna a morte; del suo comportamento, come giudice arbitrale che, nel diritto romano, gli imponeva di non condannare alcuno, senza dargli la possibilità di difendersi, attraverso il confronto tra l’accusa e la difesa; dell’udienza che aveva concesso per un confronto tra le parti, da cui non emersero colpe gravi a carico dell’imputato, se non divergenze di opinioni per questioni religiose, riguardanti un certo Gesù che, per alcuni, era morto, mentre Paolo sosteneva essere ancora in vita; perplesso davanti a queste controversie di ordine minore, chiese all’imputato se era disponibile a un’altra udienza giudiziaria da tenere a Gerusalemme, sotto il suo arbitrato, per discutere di queste cose, ma egli si era appellato a Cesare; e attualmente era tenuto prigioniero in carcere, in attesa di essere mandato a Roma.

Al che Agrippa rispose che anche lui avrebbe voluto ascoltare quell’uomo. L’appuntamento fu fissato per il giorno dopo. Puntuale, all’ora stabilita Agrippa con la moglie, abbigliati in pompa magna, si presentarono nella sala delle udienze, mentre Festo fece entrare Paolo e tenne il discorso introduttivo, dicendo: “Re Agrippa e cittadini tutti qui presenti con noi, voi avete davanti agli occhi colui, sul conto del quale, il popolo dei Giudei si  appellato a me, in Gerusalemme e qui, per chiedere a gran voce che non resti più in vita. Io però sono convinto che egli non ha commesso alcuna colpa meritevole della morte, ed essendosi appellato ad Augusto, ho deciso di mandarlo a lui. Ma sul suo conto, non ho nulla di preciso da scrivere come motivazione del suo deferimento a Cesare. Per questo l’ho condotto davanti a voi e, soprattutto davanti a te, re Agrippa, per avere suggerimenti sulle cose da scrivere. Mi sembra, infatti, un provvedimento assurdo quello di mandare un prigioniero dal supremo giudice romano, senza una motivazione seria sulle accuse che gli vengono mosse.” (At 25, 24-27).             

Capitolo ventiseiesimo – Il discorso di autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa

Agrippa disse a Paolo: “Ti è concesso parlare in tua difesa”. Allora Paolo rispose: “Mi considero fortunato, o re Agrippa, di potermi discolpare di tutte le accuse che mi muovono i Giudei, oggi qui davanti a te, che conosci a perfezione tutte le usanze e le questioni riguardanti i Giudei.

Perciò ti prego di ascoltarmi con pazienza. Fin dalla giovinezza, la mia vita vissuta tra il mio popolo e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei; essi sanno pure da tempo, se vogliono renderne testimonianza, che, come fariseo, sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione. Ora mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio, notte e giorno, con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono incolpato dai Giudei! Perché è considerato inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti?

Anch’io un tempo credevo mio dovere impegnarmi a combattere contro il nome di Gesù Nazareno; ed è ciò che ho fatto a Gerusalemme: con l’autorizzazione dei sommi sacerdoti, molti fedeli li ho rinchiusi in prigione; quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. Nelle sinagoghe cercavo di costringerli, con torture, a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia anche nelle città straniere” (At 26, 1-11).

Paolo continua il suo discorso, ripetendo l’episodio della sua folgorazione sulla via di Damasco e il prosieguo del suo racconto che aveva già fatto in altre occasioni, in modo particolare nei seguenti punti del testo: Atti (22, 1-21) e (24, 10-21). ….

Poi continua il suo discorso, dicendo: “Pertanto, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea; infine, ai pagani predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione.

Per queste cose i Giudei mi assalirono nel tempio e cercarono di uccidermi. Ma l’aiuto di Dio mi ha assistito fino a questo giorno e posso ancora rendere testimonianza agli umili e ai grandi.

Null’altro io affermo, se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere: cioè che il Cristo sarebbe morto e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani”.

Mentre egli parlava ancora, Festo esclamò a gran voce: “Paolo, sei pazzo! La troppa scienza ti ha dato al cervello!”. E Paolo di rimando: “Eccellentissimo Festo, io non sono pazzo, ma sto dicendo parole vere e sagge. Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui parlo con franchezza. Penso che niente di tutto questo gli sia sconosciuto, poiché non sono fatti accaduti in segreto. Credi, o re Agrippa, nei profeti? So che ci credi”. E Agrippa a Paolo: “Per poco non mi convinci a farmi cristiano!”. E Paolo aggiunse: “Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino così come sono io, eccetto queste catene!”.

Allora il re si alzò e con lui anche il governatore, Berenice e quanti avevano preso parte alla seduta. Allontanandosi, conversavano insieme e dicevano: “Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene!”. In conclusione, Agrippa disse a Festo: “Costui poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare”.

Capitolo ventisettesimo – Il viaggio di Paolo verso Roma

Le prime tappe del viaggio verso Roma

Quando fu decisa la partenza, Paolo fu consegnato, insieme ad altri prigionieri, alla guida del centurione Giulio della cohorte Augusta. Il narratore scrive al riguardo:

“Salimmo su una nave di Adramitto, che era in partenza per l’Asia e partimmo con Aristarco, un Macedone di Tessalonica. Il giorno dopo facemmo scalo a Sidone. Qui il tribuno Giulio si mostrò cortese con Paolo perché gli permise di recarsi dagli amici e di ricevere le loro cure. Partiti da lì, navigammo sotto costa dell’Asia e al riparo dai venti di Settentrione dall’isola di Cipro. Così attraversammo il mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. Qui trovammo la coincidenza di una nave di Alessandria, in partenza per l’Italia, che ci fece salire a bordo. Navigammo lentamente per giorni e giungemmo all’altezza di Cnido. Siccome la furia del vento non ci permetteva di approdare, continuammo a navigare al riparo dell’isola di Creta, nella zona di Salmone e, costeggiando a fatica, giungemmo alla località chiamata Buoni Porti, vicino alla città di Lasea. Avendo perso molto tempo nella navigazione compiuta lungo la costa asiatica ed essendo ormai già arrivato in tardo autunno perché era passata già anche la festa del Digiuno (il Kippur), la navigazione nella stagione invernale cominciava ad essere pericolosa per l’incolumità delle persone. Di questo pericolo Paolo avvertì i compagni di viaggio, ma il centurione, che accompagnava i prigionieri, ascoltava più la voce dei marinai e del comandante della nave, che la voce di Paolo. Poiché il porto, dove si trovavano in quel momento (malgrado il suo nome), non era adatto a trascorrervi l’inverno, decisero di salpare, con l’intento di raggiungere il porto di Fenice, nella costa meridionale dell’isola di Creta. Si era levato un leggero vento di scirocco, che incoraggiò i marinai a levare le ancore e, costeggiando Creta, cercavamo di raggiungere la meta stabilita.

La tempesta e il naufragio

Ma, non molto tempo dopo, si scatenò nell’isola un vento d’uragano detto Euroaquilone. La nave fu travolta dal turbine e, non potendo più resistere alla furia del vento, abbandonati in sua balia delle onde, andavamo alla deriva. Mentre passavamo sotto l’isolotto di Cauda, facemmo grande fatica per restare padroni della scialuppa. La tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per fasciare di gomene la nave. Per evitare il pericolo di restare incagliati nelle Sirti (banchi di sabbie mobili), calarono il galleggiante e così si andava alla deriva. Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare al mare il carico; il terzo giorno con le proprie mani buttarono l’attrezzatura della nave. Da vari giorni ormai non comparivano più il sole, né le stelle e la violenta tempesta continuava ad infuriare, per cui ogni speranza di salvezza sembrava ormai perduta.

Da molto tempo ormai non si mangiava più. A un certo punto Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse: “Sarebbe stato meglio, o uomini, se aveste dato retta a me e non fossimo salpati da Creta, onde evitare questo pericolo e questo danno. Tuttavia, vi esorto di non perdere il coraggio perché non vi sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi, ma solo della nave. Infatti, questa notte mi è apparso un angelo di Dio, al quale appartengo e che io servo, dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione; perciò, non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato. Ormai non mancheremo di approdare in qualche isola” (At 27, 14-26).

Nella quattordicesima notte che passavamo alla deriva nel Mare Adriatico, verso mezzanotte, i marinai ebbero l’impressione che fossimo vicini a qualche terra. Calarono lo scandaglio e trovarono che la profondità del mare misurava venti braccia; dopo un breve tratto, scandagliarono di nuovo e trovarono quindici braccia. Nel timore di andare a finire contro gli scogli, i marinai gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. Poiché i marinai, con il pretesto di gettare le ancore anche a prua, cercavano di fuggire dalla nave e già stavano calando la scialuppa per la fuga in mare, Paolo disse al centurione e ai soldati: “Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo”. Allora i soldati recisero le gomene della scialuppa e la lasciarono scivolare in mare.

Le ultime peripezie per la salvezza

Prima dello spuntar del giorno, Paolo, con un suo discorso, esortava i viaggiatori a prendere cibo, dicendo: “Oggi è il quattordicesimo giorno passato al digiuno, senza prendere cibo, nell’attesa di un approdo per la salvezza. Per questo vi esorto a prendere cibo, necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto”. Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti presero il cibo e si sentivano rianimati. Complessivamente nella nave eravamo duecento settantasei persone. Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave gettando il frumento in mare.

Fattosi giorno, non riuscivano a riconoscere quella terra, ma notarono un’insenatura con una spiaggia e decisero, se riuscissero, a spingere la nave verso quel punto. Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare; allo stesso tempo allentarono i legami dei timoni e, spiegata al vento la vela maestra, mossero verso la spiaggia. Ma incapparono in una secca e la nave s’incagliò; mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde. I soldati allora pensarono di uccidere i prigionieri perché nessuno fuggisse gettandosi a nuoto; ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo progetto. Diede ordine che si gettassero in mare per primi quelli che sapevano nuotare e questi raggiunsero la terra; poi gli altri, chi su tavole, chi su altri relitti della nave. Così tutti poterono mettersi in salvo a terra.

Capitolo ventottesimo – Malta e le ultime tappe del viaggio

Malta è la tappa della salvezza

Una volta messi in salvo, venimmo a sapere che la terra che ci aveva salvati e ci accoglieva era l’isola di Malta. Gli abitanti ci accolsero con grande calore umano attorno a un fuoco, perché era giunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva una bracciata di legna per metterla al fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, gli si attaccò alla mano. Quando videro la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti, inorriditi, dicevano tra di loro: “Costui è un assassino perché, pur essendo scampato dal mare, la Giustizia lo perseguita e non lo lascia vivere”. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente, prima si aspettava di vederlo gonfiare e cadere a terra morto sul colpo ma, poiché dopo molta ora non era successo niente, cambiò parere e diceva che quell’uomo era un dio.

Nei pressi del luogo dov’eravamo sbarcati, si estendeva un ampio appezzamento di terreno di proprietà del primo cittadino dell’isola, chiamato Pubblio. Egli ci accolse e ci ospitò   benevolmente per tre giorni. Ad un certo punto il su padre si era dovuto mettere a letto perché era stato colto da febbri e dissenteria. Paolo andò a visitarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì. Quando la gente seppe di questo miracolo, tutti gli isolani che avevano malattie accorrevano da Paolo ed egli li guariva. Ci colmarono di onori e al momento della partenza ci rifornirono di tutto il necessario per continuare il viaggio.

La ripartenza e l’arrivo a Roma

Dopo aver svernato per tre mesi a Malta, riprendemmo il viaggio. Salpammo su una nave di

Alessandria intestata ai Dioscuri (i gemelli Castore e Polluce), che aveva svernato anch’essa nell’isola. La tappa successiva fu Siracusa, dove ci fermammo per tre giorni; poi, sempre navigando sotto costa. Giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco favorendo la navigazione e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli che ci invitarono a sostare con loro e vi restammo per una settimana. La tappa successiva fu l’ultima: Roma. I fratelli, che abitavano nella capitale, essendo stati informati del nostro arrivo, ci vennero incontro al Foro di Appio (a sessantacinque chilometri da Roma) e alle Tre Taverne (a cinquanta chilometri dalla capitale). Nell’incontro con loro, Paolo rese grazie a Dio e riprese coraggio. Entrati a Roma, a Paolo fu concesso di abitare per conto suo, ma sorvegliato da un soldato di guardia.

L’incontro di Paolo con i Giudei di Roma

Dopo tre giorni dall’arrivo, Paolo convocò i rappresentanti più autorevoli della comunità giudaica della città. Quando erano tutti riuniti, Paolo fece loro un discorso di chiarimento della sua posizione circa la fede e riepilogò le ultime vicende di Gerusalemme, che l’avevano riguardato.

Aprì il suo discorso dicendo: “Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dai padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. Dopo avermi interrogato e non avendo trovato in me alcuna colpa meritevole della condanna a morte, le autorità romane volevano rilasciarmi. Ma, poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo, muovere accuse contro il mio popolo. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena”.

Essi gli risposero: “Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto, né dalla Giudea, né da te. Ci sembra bene, tuttavia, ascoltare da te quello che pensi; di questa setta, infatti, sappiamo che trova dovunque opposizione”.

Fu stabilito un giorno in cui Paolo avrebbe spiegato bene la sua dottrina e convennero in molti nel suo alloggio per ascoltarlo. Egli, dal mattino alla sera, spiegava accuratamente i fondamenti della fede, rendendo testimonianza al regno di Dio. Cercava di convincere il suo uditorio riguardo a Gesù, in base alla legge di Mosè e ai profeti. Alcuni si lasciavano convincere dalle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra di loro, mentre Paolo, verso costoro, diceva una sola frase: “Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia ai vostri padri:

Vai da questo popolo e dì loro: Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete; guardate con i vostri occhi, ma non vedrete. Poiché il cuore di questo popolo si è indurito: hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchie hanno chiuso i loro occhi, per non vedere con gli occhi  e non ascoltare con gli orecchi, non comprendere col cuore e non convertirsi, e io non li guarisca!  (rif. Vangeli: Mt 13, 14-15; Mc 4, 11-12; Lc 8, 10; Gv 12, 40) Sia noto a voi il fatto che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!”.

Paolo aveva trascorso due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento alcuno (At 28, 17-30).

Questa libertà di comunicazione fu concessa a Paolo dalle autorità imperiali romane, nonostante la sua condizione di imputato agli arresti domiciliari.