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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

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GLI EMIGRATI DI SILIGO IN TERRA  D’AMERICA DI GIUSEPPE SERRA 

Posted By Felice Moro on Luglio 18th, 2015

La monografia di Giuseppe (Iose) Serra sul tema “Gli emigrati di Siligo in terra d’America” è un lavoro di carattere storico con una valenza importante sul piano socio-antropologico. E’ uno studio fatto con impegno per recuperare le storie individuali e familiari di tanti emigrati alla memoria collettiva della comunità. Sono pagine della microstoria locale che, in versioni identiche, si ripetono nelle varie comunità dei diversi paesi dell’Isola. Pur nella narrazione della modesta realtà quotidiana, sono pagine importanti perché ricordano ai sardi di oggi le dure condizioni della vita, fatta di miseria, di patimenti, di condizionamenti economici e sociali, da parte delle generazioni più prossime che ci hanno preceduti: i padri, i nonni e i bisnonni. Costoro, pur di sfuggire alla dura realtà della disoccupazione perenne nei loro paesi d’origine, hanno affrontato difficoltà e pericoli di ogni genere, compiendo lunghi viaggi avventurosi e sfidando anche le insidie degli Oceani.

Nella Premessa è stata analizzata la situazione economica della Sardegna nel periodo che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. Sono stati anni molto difficili per i lavoratori sardi a causa di una crisi economica generale determinata da una pluralità di fattori negativi quali:

1)      l’agricoltura era stata messa in crisi da una serie di cattive annate consecutive che, ripetutamente, compromettevano la produzione del grano e degli altri prodotti della terra;

2)       la fillossera, avanzando dalla Turchia, aveva distrutto i vigneti, causando gravi danni ai viticoltori isolani col venir meno della produzione vinicola;

3)      La produzione zootecnica e latteo – casearia era stata messa in crisi dal blocco dei rapporti commerciali con la Francia. Quest’evento punitivo era stato la risposta francese alla dura protesta diplomatica dell’Italia per l’occupazione unilaterale della Tunisia, sulla quale, già da tempo anche il nostro paese aveva predisposto un piano strategico di espansione coloniale.

Quell’incidente aveva incrinato i tradizionali rapporti amichevoli tra le due paesi, per cui, il flusso migratorio dall’Italia e dalla Sardegna verso la Francia, se non fu interrotto del tutto, subì una brusca e duratura frenata. Naturalmente al controllo dell’emigrazione regolare, sfuggiva il tradizionale flusso dell’emigrazione clandestina dei sardi verso la Corsica.

La chiusura della frontiera francese spinse i sardi scoprire altre mete e a sperimentare le vie delle migrazioni transoceaniche verso il Nuovo Continente. Nel Sud America la meta preferita era l’Argentina, mentre nel Nord America erano  gli Stati Uniti. Alcuni pionieri erano partiti già dalla fine dell’Ottocento e nella prima decade del Novecento. Ma il flusso più massiccio intensificò le sue partenze nella seconda decade del Novecento, registrando le punte più alte negli anni 1913 e 1914.

Poi ci fu l’interruzione della Guerra. Nel Dopoguerra la tendenza migratoria diminuì notevolmente, anche perché il Governo fascista, se non la vietò completamente, la scoraggiò decisamente in tutte le maniere. Mussolini aveva bisogno di uomini, giovani e forti, per lavorare la terra. Bisognava fare la riforma agraria prendendo diverse iniziative legislative coordinate e concomitanti per disciplinare i latifondi e bonificare le paludi, come quelle del Polesine, dell’Agro Romano, della Piana di Terralba(Mussolinia= Arborea) e Fertilia, nelle paludi della Nurra di Alghero. Erano tutte plaghe di acquitrini malsani che costituivano le famigerate piaghe endemiche della malaria. Perciò occorreva bonificare l’ambiente paludoso per eliminare la zanzara anofele, responsabile dell’epidemia della malaria; nello stesso tempo il Duce intendeva recuperare terreni fertili per incrementare la produzione dei cereali, l’unica fonte che poteva garantire l’autonomia alimentare all’Italia in tempi di autarchia politica della Nazione. Per attuare questo vasto ed ambizioso programma occorrevano gli uomini, soprattutto i giovani, che lavorassero la terra e,all’occorrenza, indossassero le armi per fare la guerra. Perciò l’emigrazione, se fu in parte tollerata, non fu sicuramente favorita o  ben vista dal Governo fascista.

Già in Premessa l’Autore dichiara che lo scopo principale del libro è quello di tracciare la memoria storica dei Silighesi che sono emigrati in America negli anni compresi tra il 1904 e il 1932.

Per ciascuno emigrato sono state compilate delle schede individuali che contengono una serie di notizie interessanti, tra cui: Cognome, Nome e dati anagrafici, stato civile, data e luogo di partenza e nome del piroscafo su cui ciascuno si era imbarcato per arrivare in America, data e luogo di arrivo che, per lo più, era il porto di Ellis Island. Si tratta di un isolotto situato nella foce del fiume Hudson nella baia di New York. Era sede di un antico arsenale militare che poi fu trasformato in punto d’ingresso (la porta d’America) e luogo di filtro per gli immigrati europei che sbarcavano negli Stati Uniti.

Inoltre le schede contengono una serie di altre informazioni, come le caratteristiche fisio-somatiche di ciascun emigrato, se sapeva leggere e scrivere, se aveva pagato le spese di viaggio e quanti soldi gli restavano in tasca dopo l’arrivo, luogo di destinazione indicato per raggiungere un parente o un amico già immigrato in precedenza o per rispondere a una chiamata di lavoro, disponibilità o meno del biglietto di viaggio per il treno.

Le condizioni economiche, i disagi fisici e psicologici dei migranti.

Nei loro paesi d’origine, a Siligo come a Tiana o a Villanovaforru o in qualunque altro paese della Sardegna, i migranti erano lavoratori disoccupati o svolgevano lavori saltuari come contadini, pastori, braccianti agricoli; ma comunque erano tutte persone che appartenevano alle classi popolari, che vivevano in disagiate condizioni economiche. Per scrollarsi di dosso la miseria endemica che li assillava, volevano cambiar vita. Sentivano spesso parlare del mito dell’America, dove chiunque fosse arrivato avrebbe avuto la possibilità di arricchirsi in breve tempo perché in quella terra fantastica “ si poteva raccogliere l’oro a palate”. E nella speranza di essere anche loro baciati dalla fortuna, come d’altronde era capitato a tanti altri loro amici, parenti o conoscenti, volevano anch’essi tentare l’avventura dell’emigrazione in America. Naturalmente speravano che, dopo aver realizzato consistenti risparmi, soprattutto in modo facile e in tempi brevi, sarebbero tornati in seno alle loro famiglie in paese in diverse condizioni economiche. Pertanto, ignari delle difficoltà cui sarebbero andati incontro imbarcandosi in un’avventura del genere, molti vendettero i loro pochi averi: terreni, casa, bestiame e quant’altro, spesso anche a basso costo, pur di ricavare il capitale necessario per pagarsi le spese di viaggio e di prima sistemazione.

Per compiere il viaggio della traversata oceanica impiegavano circa una ventina giorni, andando incontro a difficoltà di ogni genere: mare in tempesta, stenti alimentari, vestiti con abiti e scarpe vecchi perché tanto in viaggio gli indumenti si sarebbero sporcati contaminati dai fumi delle macchine a vapore (mentre gli abiti buoni venivano gelosamente conservati in valigia per essere indossati all’arrivo), poche possibilità di lavarsi e di cambiarsi, servizi igienici insufficienti e carenti di manutenzione, diffusione di malattie epidemiche con facilità di contagio dovuto alla carenza d’igiene e al sovraffollamento.

Se, vivendo in quelle condizioni precarie, il partente disgraziatamente si ammalava, poche e inadeguate erano le cure che gli potevano essere prestate a bordo dal servizio medico della Compagnia di navigazione. Il servizio farmaceutico delle unità navali non disponeva di farmaci a lunga scadenza, tutto al più poteva improvvisare caso per caso qualche farmaco a base di preparati galenici. Perciò l’ammalato, per quanto possibile, doveva cercare di guarire con le proprie risorse organiche naturali, altrimenti per lui sarebbe stata la fine. E quando purtroppo accadeva quest’evenienza, le salme dei poveri malcapitati, avvolte in fasce, venivano calate in mare e deposte nei cimiteri dei fondali marini.

Superata la traversata e giunti alla meta, l’avventura non era mica finita perché li aspettava la quarantena!

Venivano fatti sbarcare e trattenuti nei freddi e disadorni padiglioni dell’ex caserma militare di Ellis Island!

Lì venivano visitati e sottoposti a prove di vario genere per accertare la loro idoneità fisica al lavoro. Inoltre venivano controllati sulla loro disponibilità monetaria residua per continuare il viaggio, via terra, al luogo di destinazione, di cui dovevano avere l’indirizzo preciso di un soggetto di riferimento, come il nome di un parente, di un conoscente o di un ente che gli avrebbe garantito l’accoglienza.

Se l’esito di queste visite era negativo o mancavano le altre condizioni richieste per l’ammissione negli States, i poveri migranti, stanchi e demoralizzati, venivano respinti e fatti rimpatriare.

Ma questa sorte spesso capitava ad interi carichi di migranti. Nel 1913 era successo anche ad un gruppo di migranti paesani, compreso il nonno materno di chi scrive queste righe. Non erano stati sottoposti, né a visite, né ad altre forme di controllo e neppure fatti scendere dalla nave che da Genova li aveva portati al porto di New York. Dopo aver trattenuto la nave alla fonda per alcuni giorni, erano stati fatti rimpatriare con lo stesso mezzo, senza concedere loro neppure di poggiare piedi in terra d’America.

La giustificazione ufficiale della loro ripulsa data dalle autorità competenti ha dell’incredibile!

Eppure la motivazione era stata quella, secondo cui, il contingente degli emigrati da ammettere negli States per quell’anno era stata superata abbondantemente per cui non si ammettevano deroghe al divieto di rilasciare altri permessi d’ingresso imposto dal Governo Federale. Inutilmente per un secolo ci si è posti tante domande sul perché di quel viaggio così costoso e così sofferto fatto invano, che ha gettato sul lastrico della miseria tante povere famiglie. Chi ha sbagliato? Chi ha richiesto la presenza di quei lavoratori? Le autorità consolari? La Compagnia di navigazione era ignara di tutto o complice nella faccenda poco pulita? I dubbi sono tanti, ma non ci sono risposte plausibili!

Inoltre l’Autore mette in evidenza il fatto che l’emigrazione creava sempre un trauma a doppio taglio. Da un lato nell’emigrante per il distacco dal suo ambiente naturale ed umano e dal circuito degli affetti familiari e sociali per andare incontro ai disagi concreti del presente con la speranza di un migliore, ancorché ignoto, destino futuro; dall’altro lato nei familiari che lasciava a casa: la moglie, i figli, i genitori.

I bambini e i ragazzi erano affidati alle cure delle madri che dovevano provvedere da sole al nutrimento e alla guida educativa dei figli, nonché all’assistenza degli anziani genitori e/o suoceri. Questi, quando erano ancora in condizioni di poter lavorare, offrivano, a loro volta, un valido aiuto in famiglia per la coltivazione della campagna e per la custodia degli animali domestici. Così le donne, magari con l’aiuto degli anziani e dei ragazzi che crescevano, conservavano il bestiame e la proprietà, che costituivano la base della produzione economica della famiglia.

Quando le cose andavano bene, il reddito delle famiglie veniva integrato e potenziato dai risparmi monetari che gli emigrati mandavano alle loro famiglie. Non sfugge all’analisi dell’Autore il fatto che le “rimesse” degli emigrati costituivano un’importante fonte di reddito, non solo per le famiglie destinatarie, ma anche per l’intera Nazione perché costituivano importanti capitali monetari che contribuivano a mantenere in attivo il bilancio dello Stato.

Un altro aspetto che il Serra mette bene in evidenza è il fatto che i Silighesi emigrati in America formavano cerchie di amicizie chiuse tra di loro, familiari, parenti, compaesani o comunque tra sardi, ma sempre  tendenti ad escludere i rapporti con gli altri. Qui bisogna ammettere onestamente che questa tendenza all’isolamento non era soltanto dei Silighesi, ma era ed è ancora una caratteristica socio-relazionale comune a tutti i sardi. E non solo.

Per questo, quando essi hanno avuto la necessità di emigrare in altri paesi del mondo, ovunque si trovassero a vivere e a convivere per ragioni di lavoro, hanno fondato e mantenuto in vita i circoli dei sardi all’estero. Particolarmente attivi sono sempre stati quelli dei vicini paesi europei: Belgio, Francia, Olanda, Germania e Svizzera.

Il sardo, per prudenza naturale o per inclinazione sociale, è timido, riservato e diffidente nei confronti dell’altro, dello sconosciuto, di chi potrebbe rivelare delle sorprese, di chi potrebbe essere  ostile a lui, alle sue abitudini, alla sua gente. Ma è anche vero che questo è un atteggiamento di prudenza iniziale, se poi le circostanze del rapporto con gli altri andranno evolvendosi in modo positivo, le cose cambiano ed egli è capace di spendersi in rapporti di vera, sincera e solidale amicizia con gli altri che si dimostreranno di essere meritevoli di un tale dono che esalta la componente sociale migliore dell’essere umano.

E probabilmente questo atteggiamento di prudenza iniziale non è soltanto dei sardi, ma anche degli altri uomini del mondo e, in modo più allargato, di tutti gli esseri viventi. E’ particolarmente marcato negli animali selvatici che, a certe condizioni, possono essere addomesticati. Allora diventano capaci di esibire manifestazioni di affetto e particolari attenzioni nei confronti della persona che è stata protagonista del loro addomesticamento o comunque che si è guadagnato la loro fiducia.

Al riguardo mi sovviene un passaggio molto significativo del libro “Le Petit Prince” (Il Piccolo Principe) di Antoine de Saint’Exipéry. Si tratta del dialogo tra il Piccolo Principe e la Volpe (le renard) sulla dinamica del fare amicizia e sul valore della medesima.

“Se tu mi vuoi amica, devi addomesticarmi ( il faut m’apprivoiser)!” dice la volpe al Principe.

“Che cosa significa addomesticare?” Rispose il Principe.

E la volpe a lui “Addomesticare significa creare dei legami!”.

E il Principe di rimando: “Ma come si fa a creare dei legami?”.

La volpe gli spiega: Bisogna essere molto pazienti e dedicare molto tempo! Tu ti siederai in un angolo del campo un po’ nascosto in mezzo all’erba lontano da me. Io  ti guarderò con la coda dell’occhio e tu resterai in silenzio. Non  bisogna parlare perché il linguaggio crea malintesi. Ogni giorno tornerai alla stessa ora e ti avvicinerai un po’ di più a me. Se, per esempio, tu vieni alle quattro del pomeriggio, già dalle tre io incomincerò ad avere il cuore in festa per l’attesa. Man mano che l’ora dell’incontro si avvicinerà, io sarò sempre più felice. Alle quattro incomincerò ad entrare in ansia e a scoprire il prezzo della felicità. Ma se tu venissi in ore diverse, io non saprei mai quando e come preparare il mio cuore alla gioia dell’incontro. Questo non è altro che un rito.

“Che cos’è un rito?” chiese il Principe.

E la volpe rispose: E’ qualcosa di necessario! E’ ciò che fa un giorno diverso da tutti gli altri giorni, un’ora diversa da tutte le altre ore del giorno!”.

E così il Principe addomesticò la volpe. Ma quand’era giunta l’ora della partenza, la volpe esclamò:

”Ah! Io piangerò!”

Colpa tua! rispose il Principe e continuò: io non volevo farti del male, ma tu hai voluto che io ti addomesticassi!

Certamente! rispose la volpe.

“Ma tu adesso ti metti a piangere!” rispose il Principe.

Certamente! aggiunse la volpe.

“Allora tu non ci hai guadagnato niente!” soggiunse il Principe.

Sì, io ci ho guadagnato per il colore dorato del grano maturo che mi ricorderà per sempre il colore dei tuoi capelli d’oro, rispose la volpe. E aggiunse: Mi susciterà piacevoli ricordi, non solo il colore delle messi mature, ma anche il rumore del vento che agita i campi di grano dorato!

Dopo di che la volpe tacque e con lo sguardo scrutò a lungo in silenzio il Piccolo Principe …

Sì! L’amicizia è una cosa misteriosa, fatta di rapporti di condivisione, di legami sottili, di comportamenti fini, di lievi emozioni e  di sentimenti particolari, ma anche di silenzi che, talvolta sono più eloquenti delle parole, di qualsiasi linguaggio!

E gli emigrati, non soltanto quelli in terra d’America, ma tutti quanti, ovunque siano andati a lavorare per vivere, hanno  sperimentato sulla propria pelle il prezzo dell’amicizia.

Pertanto è comprensibile e non c’è da stupirsi che, almeno inizialmente, essi si siano chiusi in cerchie di amicizie ristrette tra di loro stessi. Più tardi avranno avuto anche loro il coraggio e l’opportunità di aprirsi al mondo esterno, almeno a quello che li circondava nell’ambiente più vicino a loro.

LE RADICI CRISTIANE DELL’EUROPA

Posted By Felice Moro on Luglio 18th, 2013

Alla fine di aprile del 1979, l’Accademia Cattolica di Baviera aveva organizzato un convegno a Strasburgo sul tema “Le radici cristiane dell’Europa e le sue prospettive future”.

La relazione canonica sul tema ufficiale era stata affidata all’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga, cardinale Joseph Ratzinger.

La Relazione sulle origini cristiane dell’Europa.

Preliminarmente il Relatore tenta di definire i caratteri dell’eredità spirituale europea, giungendo a delineare una tesi che indichi la strada verso una pacifica convivenza dei popoli che la abitano e che renda merito alle grandi aspirazioni della sua tradizione.

Egli dichiara che, nella movimentata storia del Continente, appare sintomatico il fatto che la preoccupazione della gente per le sorti dell’Europa si sia puntualmente presentata o acuita  quando su di essa “incombeva un pericolo per i popoli che vanno identificati sotto questo nome collettivo”.

Non si tratta soltanto di un’urgenza della nostra epoca. La grande pacificazione europea e la messa in comune delle risorse delle diverse nazioni per la determinazione di un avvenire  migliore per tutti, hanno rappresentato le esigenze che si sono imposte dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Costituivano l’unica alternativa possibile alla sopravvivenza civile degli stati e dei popoli di fronte alle spaventose distruzioni provocate dalle due disastrose Guerre del secolo.

Certamente le conseguenze drammatiche di entrambi i conflitti hanno fatto diventare di pressante attualità, non soltanto la questione della ricostruzione materiale e dell’economia, ma insieme a queste, anche l’esigenza della ricostruzione morale, culturale e spirituale dell’Europa, ormai decisa a voltare pagina con il passato e a compiere lo slancio verso un nuovo avvenire. Questa era una delle principali preoccupazioni dei padri fondatori dell’Europa unita, tra i quali, si ricordano l’italiano Alcide De Gasperi, il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad H. Adenauer.

Nel corso della storia, il primo campanello d’allarme tra i popoli europei era scattato quando, all’inizio dell’Era Moderna, si era presentato il pericolo dei Turchi. Per fermare la loro avanzata e arginare la loro minaccia di occupazione del Continente, i popoli europei unirono le loro forze e costruirono una grande alleanza militare. Le forze armate europee, configurate come santa alleanza cristiana contro l’infedele, riportarono la grande vittoria di Lepanto del 1571, che scongiurò il pericolo dell’occupazione turca e dell’invasione islamica del Continente.

Da allora, sistematicamente, “l’Europa scopre se stessa nel modo più chiaro quando viene messa con la forza di fronte a ciò che rappresenta l’opposto della sua essenza”.

Metodologicamente ciò che aiuta a capire meglio la natura di una cosa è la constatazione, una volta per tutte, di ciò che essa non è.

Il problema che alimenta il dibattito politico attuale consiste nel fatto che rimane poco chiaro cosa s’intenda o si affermi  con il concetto di “Europa”.

“E’ qualcosa di più di un sogno romantico alquanto nebuloso?

E’ qualcosa di più di più di una vasta comunione d’interessi politico-economici degli attuali 28 paesi aderenti all’Unione?

In realtà ciò che si intende oggettivamente col termine “Europa” deve trovarsi nella mediazione tra l’idealismo nebuloso e la comunione d’interessi meramente pragmatici. Probabilmente essa si avvicina al vero se contiene un po’ di più, sia dell’una che dell’altra. Lo scopo è reale e ideale insieme. Ciò che è soltanto reale, senza un’idea morale, un’aspirazione ideale che gli dia forma, non resiste alle difficoltà dell’impatto e della durata; ma anche il mero ideale, che non abbia un contenuto politico concreto, rimane inefficace e vuoto. Giunti a questo punto della discussione, il primo corollario che ne desume il Relatore è il seguente:

Solo se il concetto d’Europa rappresenta una sintesi di realtà politica e idealità morale, può diventare una forza determinante del futuro.

Per perseguire la finalità voluta, come metodo d’indagine si è appena indicato quello in negativo, la via di chiedere ai modelli opposti quello che l’Europa non è, non può essere, né deve essere.

 

I modelli opposti all’Europa       

Tra i modelli opposti  a quello che, in base alla storia e all’etica, normalmente vengono indicati come la negazione dell’Europa, se ne indicano tre.

1)      La forte tendenza psicologica e politica attuale, diffusa in tutto il mondo, che vorrebbe tornare indietro nella storia. E’ la tendenza di stati e gruppi politici ed etnici, che vorrebbero riportare indietro le lancette dell’orologio dello sviluppo delle civiltà dei popoli agli standard esistenti nei tempi antecedenti all’elaborazione dei modelli storici europei;

2)      C’è una seconda tendenza orientata alla fuga in avanti, a rompere i legami con tutto ciò che esiste di derivazione europea;

3)      C’è una terza tendenza che unisce entrambi questi orientamenti e ottiene la più salda fusione in negativo di realismo e forze motrici ideali, divenendo così il più potente modello opposto all’Europa.

Il ritorno a prima dell’Europa

Fin dalla prima parte dell’Età Moderna, l’Islam si propose come il vero antagonista dell’Europa. La contrapposizione fra l’Europa e l’Asia, fra l’Erebo (Occidente) e l’Oriente (e non soltanto come dimensione geografica) è una storia antica già presente in Ecateo di Mileto del VI secolo a. C.-

La sostanza del discorso è che l’Islam, terza religione monoteista, non ha mai accettato e non accetta la svolta cristiana verso un Dio diventato uomo. Inoltre esso si chiude davanti alla razionalità greca e alla sua cultura, valori che, insieme all’idea dell’incarnazione di Dio, erano diventati elementi importanti del monoteismo cristiano. E nonostante lungo i secoli nell’Islam non siano mancati i tentativi di avvicinamento al mondo spirituale e culturale della Grecia, tuttavia tali tentativi non durarono a lungo e non diedero frutti importanti. Con ciò s’intende affermare una cosa essenziale: che la separazione tra fede e legge, tra religione e diritto tribale, nell’Islam non viene mai compiuta e che non è effettuabile senza che si ritocchi la sua essenza.

Di conseguenza la fede si presenta sotto la forma di un sistema, più o meno arcaico, di modi di vivere legati al diritto civile o penale. Essa non è definita in base alla nazione, ma in un sistema giuridico globale fissato etnicamente  e culturalmente e nel contempo pone limiti alla razionalità. Su questo punto invece, la sintesi cristiana distingue tra fede e diritto e vede determinato lo spazio della razionalità.

A livello internazionale, già dall’Ottocento l’Islam aveva perso peso politico e influenza morale e perciò, a datare dal XIX secolo, era finito sempre di più sotto l’influenza dei sistemi giuridici europei. E questi, inorgogliti del loro temporaneo successo (più apparente che reale) in contesti territoriali e socio-antropologici extraeuropei, la finirono per essere considerati universalizzabili e, come tali, esportabili ovunque perché ormai staccati dalla loro matrice di origine, dal loro fondamento cristiano e per questo venivano presentati come diritto naturale. Ma dove l’Islam si è rivitalizzato come fede, ha cancellato quest’illusione perché generalmente i sistemi giuridici di matrice europea sono percepiti dagli islamici come empi e contrari alla loro religione.

Inoltre, negli ultimi tempi, da una parte c’è stato un rafforzamento politico ed economico del mondo arabo (pensiamo ai favolosi introiti della produzione e dell’esportazione del petrolio e degli altri prodotti energetici), mentre dall’altra parte, c’è stata la crisi economica e l’indebolimento dei sistemi giuridici europei che hanno rinunciato ai fondamenti religiosi delle origini. Dal momento in cui l’Europa elimina le radici della propria identità spirituale, la risposta di una cultura non europea non può che essere un radicale ritorno all’indietro, a prima dell’incontro con i valori cristiani.

A un altro livello e in un altro contesto socio-politico e tuttavia imparentata con questa dimensione, “sta la forma più terribile e spaventosa del regresso a prima del cristianesimo. E’ l’esperienza terrificante che la Germania ha vissuto nella prima metà del secolo XX e ne ha dimostrato i suoi risultati al resto dell’umanità”.

Questo perché il sistema  totalitario del Nazionalsocialismo, “nella sua tendenza fondamentale rifiutava il cristianesimo che, secondo la sua aberrante concezione, sarebbe stato responsabile dell’allontanamento dalla “bella” germanica “natura selvaggia” del dio Odino  e, nel contempo,  coltivava il feticistico desiderio di ritornare a quella chimerica situazione primordiale di purezza della razza ariana, senza commistione di sangue con altre razze considerate “bastarde”. L’assurda realtà è stata che, in pieno secolo XX, esso voleva riportare la popolazione tedesca alla condizione  di vita della “natura selvaggia” che,  prima dell’ allontanamento causato dalla religione giudaico-cristiana,  i popoli Alemanni celebravano come la vera cultura.

Fuga in avanti

 

Una seconda antitesi, al concetto di Europa come la intendiamo noi, si è sviluppata dalla natura dello stesso spirito critico europeo che, peraltro, oggi rappresenta la forza del pensiero politico dominante nel mondo occidentale. La cultura europea è caratterizzata dalla separazione, fondata anch’essa sul cristianesimo, di fede e legge, che include anche la razionalità del diritto e la sua relativa autonomia rispetto all’ambito religioso. Questa separazione costituisce la chiave di volta per comprendere il dualismo istituzionale e funzionale tra Stato e Chiesa. La politica deve rispettare l’etica, che ha anch’essa un fondamento religioso, ma non è plasmata secondo un criterio teocratico.

Nell’epoca moderna questa relativa indipendenza della ragione ha portato alla sua totale emancipazione  e alla sua illimitata autonomia, non riconoscendo più limiti e separandosi totalmente dalle sue radici. Il modello di razionalità prevalente prende la forma del ragionamento positivistico della sociologia di Auguste Comte, che ha come unico criterio valido ciò che è documentabile a livello sperimentale.

Ma allora l’intero ambito dei valori, di ciò che sta “al di sopra di noi” e che non può essere sottoposto all’analisi della razionalità sperimentale, cade dallo spazio della ragione e l’unico criterio vincolante, della ragione e dell’uomo, sia politicamente che individualmente, diventa quello che cade “sotto di noi”, ossia le forze meccaniche della natura, che sono sempre disponibili per l’analisi sperimentale. Nella dimensione della ragione scientifica, Dio non viene rifiutato, ma semplicemente confinato nell’ambito delle cose meramente private, del soggettivo. Lo studioso Friedrich W. Bracht in un suo saggio, problematico e suggestivo allo stesso tempo, pone al mondo una questione importante: cerca di descrivere i cambiamenti conseguenti alla vera svolta del 1789 (Rivoluzione Francese), per cui Dio cessa di essere il sommo bene pubblico e al suo posto subentrano altre istituzioni laiche: prima lo Stato e, dopo il 1848, il proletariato e la rivoluzione mondiale.

Tutto questo ha portato ad una conseguenza impressionante: per la moderna società dei consumi il sommo bene è diventato il suo Dio pancia.

In una società in cui Dio non è più il sommo bene pubblico e collettivo e viene relegato nella semplice dimensione privata, il rango di Dio cambia anche nella dimensione individuale. Una società che opera una manomissione ideologica di questa portata dovrebbe essere definita post-europea. In essa viene tradito lo spirito iniziale di fondazione dell’Europa. Le attuali società occidentali  sono, in gran parte, società post-europee che vivono ancora dell’effetto prolungato della  loro eredità spirituale iniziale.

La pluralità dei valori, che è anch’essa una legittima eredità della cultura europea, crescerà verso un pluralismo abnorme, dal quale viene sempre di più escluso ogni ancoraggio morale del diritto e ogni ancoraggio pubblico del sacro e del timore di Dio, che possa avere riferimento a un valore collettivo. Si tratta di una pretestuosa arroganza che a molti sembra un’offesa alla tradizionale tolleranza di una società fondata sulla ragione. Ma una società tale, che si regge su surrogati pretestuosi di un’esasperata razionalità, non può rimanere alla lunga una società del diritto. Essa, quando sarà abbastanza spossata dall’anarchia che essa stessa si è procurata,  corre il rischio di aprirsi alla tirannia.

Rudolf Bultmann, in una sua perspicace analisi sul problema del diritto, ha scritto: “Uno stato non cristiano è fondamentalmente possibile, ma non uno stato ateo”.

Le società occidentali oggi stanno per vivere queste esperienze. E la reazione islamica contro l’Europa è in stretta relazione con la situazione che l’Europa stessa sta vivendo attualmente.

Il marxismo

Il marxismo è la terza e più imponente forma di allontanamento dell’Europa dalla sua figura storica millenaria. Esso rappresenta un ritorno a una fede materialistica precristiana, antecedente alla diffusione del messaggio di salvezza portato da Gesù Cristo. Nei contenuti esso non si ricollega alla grande eredità religiosa del Regno d’Israele, di cui, tuttavia, riprende il metodo dell’azione profetica e come proprio strumento introduce la ragione dell’epoca moderna, totalmente staccata da vincoli metafisici di qualunque natura.

Esso individua, come sommo bene, la lotta di classe e la rivoluzione mondiale, cioè il totale rifiuto del mondo così com’è esistito fino ad oggi. Di conseguenza propugna la creazione di un nuovo mondo che, per essere positivo, dev’essere la negazione  di quello attuale. A questo punto il Relatore dichiara:

“Congiungendo entrambi i precedenti movimenti contrapposti all’Europa, il marxismo si qualifica come l’antitesi più radicale, non solo al cristianesimo in quanto tale, bensì alla figura storica dell’Europa plasmata dal cristianesimo. Secondo la sua ideologia, ciò che è esistito finora deve’essere distrutto perché è diventato il non valore per antonomasia, mentre la rivoluzione diventa il valore assoluto …

In questo modo il marxismo, pur essendo un prodotto della cultura europea, rappresenta, al tempo stesso, il più decisivo rifiuto dell’Europa, di quell’identità interiore plasmatrice delle coscienze dei popoli, che essa stessa aveva costruito nella sua storia come una sua creatura prediletta”.

LE COMPONENTI POSITIVE DEL CONCETTO DI EUROPA

Per tratteggiare un’immagine positiva dell’Europa, anzitutto il Relatore cerca di spiegare le varie fasi di elaborazione del termine “Europa” nel suo significato linguistico e concettuale; poi compie un’analisi della stratificazione interna della realtà che sta sotto questo nome.

 

L’eredità greca

L’Europa, sia come parola, sia come idea geografica e socio-antropologica, è stata una creazione dei Greci. L’etimo deriva  dalla parola semitica ereb che significa sera e indica quella parte dell’universo in cui tramonta il sole,  cioè l’Occidente per il mondo greco.

Inizialmente questo termine indicava le regioni occidentali della stessa Grecia, come la Tessaglia, l’Attica e la Macedonia. Già in Erodoto (V° secolo a.C.) l’Europa figura come una delle tre grandi aree geografiche (Europa, Asia e Libia) che si affacciano sul Mare Mediterraneo.

Pertanto non si può dimenticare che il primo sostrato culturale dell’Europa è di matrice greca. E di questa cultura, la radice più potente è quella che, uno studioso come  Helmut Kuhn, chiama la differenza socratica. Essa fa la differenza tra il bene e i beni, il diritto di coscienza e la relazione reciproca di ratio et religio (ragione e religione).

L’eredità più concreta che la Grecia ha donato, prima all’Europa e poi al mondo intero, è la democrazia come forma di governo popolare. Ma essa, come aveva bene indicato Platone, è legata all’eunomia, cioè alla validità del buon diritto. Soltanto in tale rapporto può rimanere autentica democrazia, senza degenerare in altre forme di governo, che rappresenterebbero comunque la sua negazione.

E la democrazia non è mero dominio di maggioranze, ma per essere legittima, deve sottostare ai valori del nomos, di ciò che è giusto per sua intima essenza, cioè a quel complesso di valori che, già di per se stessi, sono auto-vincolanti per ogni maggioranza che si accinge a governare un paese.

L’eredità cristiana

Il secondo sostrato culturale del concetto di “Europa” è di natura cristiana. A questo riguardo c’è un passaggio molto significativo che l’evangelista Luca riporta nel libro Atti degli Apostoli (At, 6-10). In questo racconto si dice che Paolo con la sua comunità, dopo aver evangelizzato la Frigia, la Galazia e la Misia, si proponevano di andare in Bitinia, ma lo spirito di Gesù non gli permise di continuare l’evangelizzazione dell’Asia, per cui essi scesero nella Troade. Una notte l’Apostolo ebbe una visione: gli apparve nel sogno un uomo della Macedonia, che lo supplicava dicendo: “Passa in Macedonia e soccorrici!”.

Questo sogno fu interpretato come un segno della volontà del Signore di dirottare la missione di Paolo verso l’Europa.

Nello stesso testo c’è un altro punto interessante (At 2,11) sul racconto della Pentecoste. Nell’enumerazione dei rappresentanti dei popoli della terra presenti a Gerusalemme che assistettero al primo discorso pubblico degli Apostoli (Parti, Medi, Elamiti ecc. e stranieri di Roma) qualcuno ha sottolineato il fatto che “gli stranieri di Roma”, i pagani, sono indicati all’ultimo posto, ma comunque appaiono coeredi del Regno.

Anche queste notizie, se ce ne fosse bisogno, ci ricordano che il punto di partenza del Vangelo si trova in Oriente. Gli evangelisti tutti, in modo particolare Luca e Giovanni, sottolineano il fatto che la radice del Vangelo proviene da Israele, la salvezza viene dalla tradizione messianica dei Giudei. Luca in particolare indica una nuova strada: quella che, attraverso gli Atti degli Apostoli, porta da Gerusalemme a Roma. E’ la strada verso i pagani che distruggeranno Gerusalemme, ma che la riprenderanno in sé in un nuovo modo.

Il cristianesimo è la sintesi operata da Gesù Cristo, tra la fede di Israele e lo spirito culturale elaborato dall’antica Grecia.

“E su questa sintesi, sostiene il Relatore, si fonda l’Europa. Il tentativo del Rinascimento di distillare in modo puro l’elemento greco, eliminando quello cristiano, è altrettanto assurdo e paradossale, quanto il recente tentativo di elaborazione di un cristianesimo deellenizzato. L’Europa in senso stretto, nasce dalla sintesi di queste due culture e si basa su di essa”.

L’eredità latina  

Un terzo sostrato del concetto culturale di Europa è di derivazione latina. Nel VI secolo col termine “Europa” s’indicava soltanto la Gallia; successivamente esso fu esteso ai territori dell’Impero Carolingio e poi quelli del Sacro Romano Impero dell’Alto Medioevo, che, in gran parte comprendeva gli stessi territori. Questa istituzione, in qualche modo, veniva considerata l’erede naturale dell’antico Impero Romano fondato da Augusto.

Così il concetto di “Europa” andava lentamente allargandosi fino ad abbracciare tutto l’Occidente. L’ambito della cultura latina veniva ampliato al  più vasto territorio di diffusione della Chiesa Cattolica, che comprendeva, non soltanto i popoli neolatini, ma anche quelli germanici, anglosassoni e una parte di quelli slavi, come la Polonia.

Così tutto l’Occidente veniva definito la res publica christiana, che non era un’entità politica, ma una totalità reale nell’unità della cultura, in vari campi del sapere e della formazione dell’uomo: nei sistemi giuridici dei vari soggetti politici esistenti, nei concili ecumenici della Chiesa, nella creazione delle prime università (quella di Bologna fondata nel 1088; la Sorbona di Parigi nel 1090; quella di Oxford nel 1096); nella fondazione e diffusione degli ordini monastici e nella circolazione della vita spirituale e religiosa che aveva il suo centro propulsore e regolatore in Roma.

Attualmente la res pubblica christiana del Medioevo non si può ripristinare perché la storia non torna mai indietro. Un’Europa del futuro dovrà portare avanti anche la quarta dimensione, quella dell’epoca moderna: superare la cornice troppo stretta dell’Occidente e del mondo latino, per aprirsi maggiormente al mondo greco e alla Chiesa ortodossa del cristianesimo orientale.

L’eredità dell’epoca moderna

Tra gli elementi di novità, che maggiormente caratterizzano in positivo l’epoca moderna, la cosa più importante di tutte è rappresentata dalla separazione tra fede e legge, tra religione e diritto, cosa che non accadeva in un lontano passato. Per esempio,  nella res publica christiana del Medioevo, il problema si poneva e si riproponeva sempre, ma i termini non erano stati ancora ben chiariti, per cui, restavano spesso ambigui o sfumati. Oggi questa separazione è ben definita, accettata da tutti e generalmente attuata in modo coerente. Ci si auspica che la piena libertà della fede venga ben definita nei presupposti etici degli ordinamenti giuridici, sui quali si fonda il diritto. I valori umani fondamentali della visione cristiana del mondo sono aperti al fecondo dualismo tra Stato e Chiesa, garantiscono la libera società umana nella quale è assicurato il diritto alla libertà di coscienza e con  esso vengono stabiliti i diritti fondamentali dell’uomo. Nelle moderne società occidentali possono coesistere, come di fatto coesistono, diverse forme di fede cristiana e possono trovare spazio diverse posizioni politiche degli stati laici e dei vari gruppi umani; e questo accade se tutti dialogano e accettano un centrale canone di valori, la cui forza vincolante sia protesa a garantire a tutti la più ampia libertà di pensiero e di azione dell’uomo.

L’ambivalenza della vita moderna deriva dal fatto che essa non riconosce chiaramente le radici e il fondamento dell’idea di libertà e spinge ad oltranza la forza di emancipazione della ragione.  Questa spinta centrifuga unilaterale contrasta con la natura della stessa ragione umana. In un certo qual modo, l’epoca moderna esalta il trionfo della ragione autoregolantesi che ormai, come oggetto e come metodo, conosce soltanto se stessa. Ma con questa sua esaltazione distrugge il suo fondamento, diventando cieca, inumana e ostile al creato.

Questo tipo di autonomia della ragione è certamente un prodotto dello spirito europeo, ma è da considerarsi un frutto della cultura post-europea, anzi  anti-europea, perché rappresenta la distruzione di ogni valore ideale e morale, che è lo spirito costitutivo, non soltanto dell’Europa, ma di ogni forma di civile convivenza. All’epoca moderna si devono quei valori positivi precedentemente elencati: la separazione tra Stato e Chiesa, la garanzia della libertà di coscienza, la fruizione  dei diritti umani e la responsabilità individuale nell’uso della ragione. Ma di fronte alla radicalizzazione di questi valori, deve, allo stesso tempo, essere fissato il radicamento della ragione nel timore di Dio e nei valori etici fondamentali che derivano dalla fede cristiana.

TESI PER UN’EUROPA DEL FUTURO  

 

Intanto c’è da fare un chiarimento preliminare: per quanto possa essere positivo l’attuale sforzo degli stati europei per l’unificazione politica ed economica del Continente, questo progetto in quanto tale può non essere sufficiente per garantire un futuro all’Europa. E a questo riguardo il Relatore scrive:

“Una mera centralizzazione delle competenze economiche e legislative potrebbe portare, paradossalmente, ad un rapido declino dell’Europa; questo potrebbe accadere se il gruppo dirigente diventasse una mera tecnocrazia, il cui unico criterio di scelta fosse la difesa del capitale monetario in circolazione e la semplice crescita  dei consumi.  Al contrario, superato il culto della nazione,  l’obiettivo principale da porsi dovrebbe essere quello di creare una nuova convivenza pacifica dei popoli, con la partecipazione collettiva alla fruizione dei beni di questo mondo. La legge fondamentale non può certo essere l’egoismo di gruppo dei popoli ricchi che difendono i loro privilegi. La nuova Europa, anche nei suoi meccanismi economici più dibattuti, non può che essere un sistema aperto. Al posto dell’idea di dominio e di annessione coloniale delle restanti parti del mondo, deve subentrare l’idea di una società aperta e di una responsabilità reciproca dei popoli e dei loro governanti.

 

TESI N° 1

Fin dalla sua nascita nell’antica Grecia, il concetto di democrazia è correlato a quello eunomia, nel senso che è un diritto che non si lascia manipolare. Superando le supremazie dei partiti e l’arbitrio delle dittature, l’Europa ha scelto il dominio della ragione e della libertà. Il sistema poggia sul diritto e può durare finché il diritto prevale sulle spinte centrifughe irrazionali o egoistiche. Gli elementi costitutivi fondamentali della comunità europea sono la limitazione, il controllo e la trasparenza. Tutti questi cardini fondanti poggiano sul principio dell’impossibilità di manipolare il diritto, dell’inviolabilità del suo spazio. Il diritto, a sua volta, attinge la sua legittimazione dal concetto della greca eunomia, cioè dall’insieme dei valori morali e spirituali. Il diritto ha quindi la piena legittimità di controllo del potere, di qualsiasi potere governativo o amministrativo, in quanto trae i presupposti della sua normazione dall’etica e dalla morale.

Chi combatte per la causa dell’Europa, combatte per la democrazia; e questa va bene intesa nel suo vincolo indissolubile con l’eunomia (etica e morale).

 

TESI N° 2

Se l’eunomia è il presupposto fondamentale della democrazia come opposizione alla tirannide, dall’altra parte l’eunomia è il presupposto del rispetto dei valori morali, del timore di Dio, che è un principio collettivo vincolante per il diritto pubblico.

Dio non può essere spostato del tutto nel privato, ma dev’essere riconosciuto anche pubblicamente come il valore supremo. Questo principio non esclude naturalmente la tolleranza e lo spazio di autonomia per l’uomo ateo e non ha nulla a che fare con la costrizione in materia di fede. Ma la situazione dovrebbe essere l’opposto di quelle che sono le attuali tendenze: l’ateismo comincia ad essere un dogma pubblico fondamentale, mentre la fede viene emarginata e tollerata come opinione privata, ma non rispettata nella sua essenza”.

Secondo l’opinione dell’Autore vi sono poche possibilità di sopravvivenza per uno stato di diritto che si regga sotto un dogma ateo che si radicalizzi. Per altro egli sostiene che la democrazia è in grado di funzionare, non soltanto a colpi di maggioranza, ma soprattutto se funziona la coscienza. Dichiara inoltre che, se essa non è orientata verso i valori fondamentali proclamati dal cristianesimo, resta priva di contenuti. E chiarisce che democrazie possono essere realizzate anche senza la presenza della confessione cristiana o nel contesto di una religione non cristiana, purché siano rispettati i suoi valori di fondo.

 

TESI N° 3

Un’Europa che racchiuda in sé i fermenti positivi per garantire un avvenire migliore ai suoi figli deve avere il coraggio, anche dietro le esperienze drammatiche del suo recente passato, di assumersi la responsabilità di fare alcune scelte di fondo, quali:

1)      Deve rifiutare il dogma dell’ateismo come presupposto teorico-filosofico del diritto pubblico;

2)      Di conseguenza deve rinunciare alla pretesa dell’istituzione di uno stato, o confederazione di stati, dichiaratamente atei;

3)      Deve riconoscere, anche pubblicamente, come il fondamento dell’etica e del diritto significa rifiutare, sia la nazione come stato chiuso, sia la rivoluzione mondiale come sommo bene dei popoli.

Si deve riconoscere obiettivamente che il nazionalismo esasperato del XX secolo, non solo ha portato l’Europa sull’orlo della sua distruzione o dell’autodistruzione, ma ha anche contraddetto quello che l’Europa è per sua natura, sia politicamente, sia spiritualmente.

Oggi ha un grande significato positivo la costruzione dell’Unione Europea, ma sia chiaro che essa non deve diventare una super-nazione. Al contrario, deve restituire alle singole regioni le loro specifiche fisionomie identitarie.

I rapporti tra le varie istituzioni regionali, nazionali e sovranazionali dovrebbero essere regolati in maniera armonica, in modo da escludere in egual misura, sia il centralismo burocratico, sia il particolarismo anarcoide o piagnone. L’economia dovrebbe essere improntata ai principi di libero scambio e di solidarietà reciproca; mentre valori ideali dovrebbero essere supportati da istituzioni e forze culturali e religiose non statuali.

Per fare qualche esempio concreto l’Autore si rifà alle esperienze culturali del Medioevo ricordando che: “Anselmo di Canterbury proveniva da Aosta, fu abate in Bretagna e arcivescovo in Inghilterra; Alberto Magno veniva dalla Germania, insegnò altrettanto bene a Parigi come a Colonia e fu poi vescovo di Ratisbona; Tomaso d’Aquino ha insegnato a Napoli, ma anche a Parigi e a Colonia; Duns Scoto, a sua volta, insegnò tanto in Inghilterra, quanto a Parigi e a Colonia. A un simile sistema di scambi d’insegnamento/apprendimento pluralistico, multinazionale e plurilinguistico, si dovrebbe ridare vigore. Se queste coesioni culturali non vengono rafforzate da iniziative progettuali anche private, i soli strumenti economici pubblici non riusciranno a risolvere il problema dell’unione culturale e valoriale dell’Europa.

L’ecumene cristiana ha una grande importanza nella dimensione del mantenimento dei valori e della coesione europea.

TESI N° 4

L’Europa, se non vuole rinnegare se stessa ma esaltare la sua identità morale, spirituale e culturale, non può rinunciare alla matrice cristiana di origine della sua formazione, che ha una tradizione millenaria. Essa deve tutelare la libertà di coscienza, i diritti umani, la libertà della scienza, dentro il quadro di riferimento di una società umana liberale.

Concludendo il suo discorso, scrive Ratzinger: “Tutte le conquiste dell’epoca moderna vanno tutelate e sviluppate, senza cadere nell’inconsistenza di una ragione senza trascendenza, che depotenzia e neutralizza dall’interno la propria libertà. La politica europea dei cristiani deve misurarsi su questi temi e criteri, in base ai quali espleterà il proprio compito politico e culturale per garantire un avvenire migliore ai popoli del Continente”.