
L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)
L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)
Il linguaggio esteriore è un processo di trasformazione del pensiero nella parola, un vero e proprio materializzarsi e obiettivizzarsi del pensiero. Invece il linguaggio interiore è il processo inverso di interiorizzazione, di volatilizzazione del linguaggio nel pensiero.
Anche nella sua forma interiore, comunque, il linguaggio non scompare ma va a depositarsi nei misteriosi sostrati della coscienza che non si volatilizza, non si dissolve nel mare magnum del puro pensiero che, tuttavia, non viene mai assunto come una realtà ontologica di natura filosofica.
Il linguaggio interiore è pur sempre linguaggio, cioè un tipo di pensiero connesso con la parola, anche quando, attraverso i cassetti della memoria, riemerge dagli scaffali di stoccaggio dell’Inconscio o del Subconscio.
Quest’affermazione trova un puntuale riscontro con la definizione che ne aveva dato il linguista, F. De Saussure, quando aveva affermato: Se si prescinde dalle parole, il nostro pensiero è una massa amorfa e indistinta. Senza il soccorso dei segni noi saremmo incapaci di distinguere due idee in modo chiaro e distinto. Preso in se stesso il pensiero è una grande nebulosa in cui nulla è delimitato.
Pur condividendo l’opinione del linguista dal punto di vista glottologico, resta sempre il fatto che dal punto di vista psicolinguistico nel linguaggio esteriore il pensiero s’incarna nella parola, mentre nel linguaggio interiore la parola muore nel momento in cui essa partorisce il pensiero.
Secondo il nostro studioso, il pensiero interiore è un processo dinamico instabile; un continuo fluttuare e guizzare tra i due poli estremi dell’universo psicologico: il pensiero e la parola.
E su questo punto concorda con Piaget quando questi afferma che “lo sviluppo mentale del bambino è sempre sotto la tensione di un equilibrio mobile, che è tanto più stabile, quanto più è mobile”.
Il Pensiero verbale
Ogni pensiero tende a stabilire connessioni e rapporti tra due o più termini. E’ un fenomeno in continua tensione ed è volto ad assolvere una determinata funzione, ad eseguire un compito ben preciso.
Ma la tensione dinamica del pensiero non segue di pari passo quella del linguaggio perché le due strutture, pensiero e linguaggio, costituiscono un’unità differenziata e ambivalente, fondata su complessi rapporti e su imprevedibili mutuazioni esistenti tra i due processi che, a volte collaborano e si fondono fino ad identificarsi nel pensiero verbale, ma non sempre coincidono tra di loro.
Anzi, certe volte ci sono delle non coincidenze e delle discrepanze tali che consentono all’individuo di dire una cosa, mentre ne pensa un’altra. In altre parole consentono comportamenti come quelli della finzione, della menzogna e dell’inganno.
Pertanto, siccome le due strutture a volte coincidono e a volte no, allora accade che uno stesso pensiero possa essere espresso con parole o frasi diverse; viceversa, una stessa frase può servire come veicolo per esprimere pensieri diversi.
Il pensiero non coincide con l’espressione verbale perché esso non consiste di singole parole collocate in successione come il linguaggio nella stringa della proposizione linguistica.
Il pensiero rappresenta una totalità psichica, simbolica e semantica molto maggiore per estensione e per comprensione di una singola parola o di un’intera proposizione.
Il pensiero è contenuto nella mente come una realtà globale e unitaria e non si costituisce di volta in volta per singole unità, come invece si costituisce il linguaggio. Quello che nel Pensiero è un contenuto simultaneo, sul piano del linguaggio si costituisce in successione, lungo la catena della parola o della frase parlata o scritta.
Il passaggio dal Pensiero al Linguaggio
Il passaggio dal Pensiero al Linguaggio è un processo molto complesso che, da un lato presuppone il frazionamento del pensiero in più unità, dall’altro lato la reintegrazione nella sua globalità unitaria e la sua espressione in più parole.
Quindi vi è una divergenza di pensiero sia rispetto alle parole, sia rispetto ai significati delle parole stesse; quindi il percorso che va dal pensiero alla parola e viceversa passa per il significato secondo il seguente schema:
Pensiero > Significato > Parola
Data la stabilità strutturale della funzione, non è possibile il passaggio diretto dal Pensiero alla Parola perché tale passaggio implica una complessa e mediata trasposizione di termini cogitativi, linguistici e semantici.
L’impossibilità di questo passaggio determina l’inadeguatezza delle parole ad esprimere il pensiero e l’incomunicabilità diretta del pensiero stesso.
Il poeta russo Tjutchev ha scritto: “Come può il cuore esprimere se stesso? E come all’altro è dato di comprenderti?”.
Per superare questa difficoltà si sono cercate altre vie di mediazione. L’esperienza insegna che il pensiero, non soltanto si esprime nella parola, ma nel suo farsi viene alla luce attraverso di essa.
La mediazione del pensiero avviene dapprima interiormente attraverso i significati, poi attraverso le parole, più o meno adeguate, ad esprimere le sfumature logiche ed emozionali del pensiero stesso. E’ per questo motivo che il Pensiero non è mai l’immediato equivalente del significato della Parola. Il significato è l’elemento che media il Pensiero nel suo cammino verso la Parola e l’espressione verbale.
Il Pensiero
Ma arrivati a questo punto è il momento di porsi una domanda cruciale: il Pensiero, questo illustre sconosciuto, che cosa è realmente?
Le risposte a questa domanda possono essere molteplici e dipendono tutte dal retroterra culturale e ideologico del soggetto che si pone quest’interrogativo fatale.
Per il filosofo può essere il nous di Anassagora, le idee innate di Platone o di Cartesio, l’idea di essere di Rosmini, che poi s’identifica con l’anima immortale del credente; ma per lo psicologo sperimentalista moscovita la risposta è un’altra, che deriva dalle risultanze delle sue ricerche sperimentali.
Infatti il Vygotsky, in risposta alla sua stessa domanda, scrive: “Il pensiero ha origine nella sfera delle motivazioni della nostra coscienza che contiene le nostre passioni, i nostri bisogni, i nostri interessi, gli impulsi, gli affetti e le nostre emozioni. Dietro il Pensiero si schiude la sfera delle tendenze affettive e volitive che è la sola che può dare risposta all’ultimo perché dell’analisi del Pensiero”.
Da questa realtà, secondo l’esperto, deriva la nostra capacità di inferenza. Infatti da essa noi possiamo comprendere il pensiero di un altro, ma soltanto quando conosciamo la sua realtà psicologica: le sue ansie,le sue paure, i suoi timori, le sue speranze, i suoi affetti.
Secondo alcuni studiosi la gamma delle motivazioni che suscitano il pensiero e ne orientano il decorso può essere raffrontata alla ragnatela dei significati reconditi delle battute dei vari personaggi di un’opera teatrale, dove, dietro ogni battuta c’è un impulso, più o meno sanguigno, dietro ogni espressione verbale c’è una motivazione.
Per comprendere il discorso altrui non basta comprendere le parole che egli pronuncia, ma occorre giungere a comprendere il pensiero; e per comprendere il pensiero bisogna comprendere le motivazioni che spingono la persona a parlare. Così che, quando scopriamo le sue motivazioni, con l’analisi psicologica dell’espressione verbale possiamo raggiungere il suo pensiero che promana dal piano recondito del suo Io.
Allora in sintesi si può dire che il pensiero verbale è un’entità globale, complessa e dinamica, nel cui ambito si svolgono i rapporti interattivi tra pensiero e parola, che si manifestano attraverso varie prospettive di piani diversi. E la parola è l’espressione più importante della coscienza.
La coscienza si riflette nella parola come il sole in una piccola goccia d’acqua. La parola, dal canto suo, sta alla coscienza come una cosa piccola ad una cosa grande, come un piccolo mondo ad un grande mondo, come una cellula all’organismo, come un atomo al cosmo.
Questa realtà profonda, complessa e gravida di grandi responsabilità, dovrebbe essere sempre presente negli insegnanti, nei genitori e in chiunque si occupi dei processi educativi e dell’apprendimento scolastico.
Rapporti tra Linguaggio interiore e Linguaggio esteriore secondo Vygotsky
In quest’articolo, come in quelli precedenti e in altri che seguiranno, si è cercato d’illustrare le principali scoperte scientifiche di L. S. Vygotsky e della sua equipe, che insieme avevano creato la Scuola Storico-Culturale di Mosca. La sintesi del lavoro sperimentale e dei risultati ottenuti sono stati esposti dall’Autore nella sua opera principale intitolata Pensiero e Linguaggio.
Si tratta di un’opera di divulgazione scientifica, la cui lettura a primo acchito può apparire non semplice, non piacevole e di non facile comprensione. Pertanto in questa serie di articoli si è cercato di compiere un non semplice lavoro di esegesi, cercando di delinearne sinteticamente i contenuti, senza tradire i loro significati concettuali. Lo scopo è quello di rendere i risultati della ricerca sperimentale fruibili nell’azione educativa della scuola, della famiglia o delle altre agenzie educative, che intendono impostare il loro lavoro sulla base dei risultati di una seria ricerca.
La tematica dei rapporti tra il Linguaggio interiore e quello esteriore appare come uno dei temi più interessanti del libro per una serie di motivi che esamineremo qui di seguito.
Nell’introdurre l’argomento l’Autore avverte sul fatto che, per comprendere adeguatamente il Linguaggio interiore, bisogna partire dal presupposto che si tratta di un tipo di linguaggio che ha struttura e funzioni del tutto particolari, che bisogna studiare e conoscere nelle loro specificità, onde comprenderne la portata e le sue implicazioni.
Anzitutto per comprendere le sue caratteristiche, bisogna comprendere quali rapporti esso contrae, da un lato con il pensiero, cioè con il linguaggio “per se stessi”; dall’altro lato con la parola, cioè con il linguaggio “per gli altri” che rappresentano il mondo esterno in generale.
Infatti, mentre il linguaggio interiore è un linguaggio utilizzato per dialogare con se stessi, il linguaggio esteriore, che si esprime con la sonorità della parola parlata o con la simbologia della parola scritta, è un linguaggio che serve per comunicare con gli altri.
Una volta chiarita questa differenza di fondo, per conseguenza logica bisogna ammettere che la differenza di funzione si trascina dietro anche una differenza di struttura.
A questo riguardo l’Autore scrive: “Il linguaggio esteriore è quel processo per cui il pensiero si trasforma nelle parole, si materializza e si obiettivizza in esse; quello interiore, invece, segue la direzione opposta, è quasi un processo di volatilizzazione del linguaggio nel pensiero. Da questa differenza funzionale hanno origine importanti differenze strutturali tra i due linguaggi”.
Con l’impiego del termine volatilizzazione lo studioso moscovita vuole significare tutta la difficoltà che comporta l’analisi del linguaggio interiore che investe un’area nascosta e silenziosa del comportamento verbale dell’individuo. Indagare su questo processo è un’impresa difficile come quella di cercare di conoscere che cosa c’è nell’altra faccia buia della luna.
Molto onestamente egli riconosce che il primo studioso che ha dedicato una particolare attenzione a questo tipo di linguaggio è stato il fondatore della psicologia clinica e direttore dell’Istituto J. J. Rousseau di Ginevra: Jean Piaget.
Infatti questi aveva posto al centro dei suoi studi il linguaggio egocentrico del bambino. Egli aveva compiuto le sue indagini con campioni sperimentali limitati (i suoi figli) e i mezzi scientifici che, a suo tempo, riuscì ad avere a disposizione, ma il tutto era stato compensato dalla profusione di un attento e sistematico lavoro longitudinale che aveva occupato oltre la metà del secolo XX .
Dalle sue ricerche lo studioso ginevrino deduce la sua verità, secondo cui, il linguaggio egocentrico occupa una fase intermedia che sta tra la prima fase del linguaggio di tipo autistico del bambino molto piccolo e la terza fase del linguaggio socializzato che emerge all’inizio della prima scolarizzazione. Ma, con l’affermarsi del linguaggio sociale, il linguaggio egocentrico viene meno, si atrofizza e scompare definitivamente, lasciando il campo libero al linguaggio comunicativo.
Il Vygotsky non é convinto di questa interpretazione che considera insufficiente a spiegare il fenomeno. Perciò si cimenta nella ricerca e investe tempo, fatica e risorse per approfondire la questione. Alla fine della sperimentazione espone i risultati conseguiti nel lavoro nella sua opera principale: Pensiero e Linguaggio.
Secondo lui, lo studioso ginevrino avrebbe sbagliato l’interpretazione di alcune caratteristiche fondamentali del linguaggio egocentrico: la genesi, la struttura e le funzioni.
E con dati alla mano, egli sostiene che il linguaggio egocentrico è in qualche modo collegato al linguaggio interiore per un triplice ordine di motivi:
a) Funzionale, perché il linguaggio egocentrico assolve ad una sua funzione simile a quella del linguaggio interiore;
b) Strutturale, perché il linguaggio egocentrico è strutturalmente affine a quello interiore;
c) Genetico, perché da una serie di dati emersi dalla ricerca, si può desumere il fatto che, all’inizio dell’età scolare (quella alla quale Piaget faceva risalire la scomparsa del linguaggio egocentrico) ha inizio l’attività del linguaggio interiore. Questa coincidenza temporale con il cambiamento strutturale e funzionale dei due processi ha fatto sorgere il dubbio secondo cui, in quella fase dell’età evolutiva, il linguaggio egocentrico non scompaia, ma che vada in profondità generando il linguaggio interiore.
E se l’ipotesi è corretta, il linguaggio egocentrico può offrire la chiave di volta per comprendere il linguaggio interiore perché esso è sonoro e vocalizzato nella forma, ma interiore nella struttura e nella funzione.
Perciò bisogna riconoscere che il linguaggio egocentrico è un tipo di linguaggio interiore, colto nel tratto iniziale del suo cammino verso la struttura psichica interna. E’udibile all’esterno e così si rende accessibile anche all’osservazione sperimentale che lo segue nella sua evoluzione, registra la graduale scomparsa di alcune sue caratteristiche e la progressiva comparsa di altre. E tutto questo lavorio attento e mirato offre la possibilità di studiare e conoscere almeno alcuni tratti essenziali di questo tipo di linguaggio interno.
Lo studioso russo ricorda anche che, per Piaget, il Linguaggio egocentrico del bambino è la manifestazione immediata del suo egocentrismo che, a sua volta, è un compromesso tra l’autismo iniziale e il suo progressivo decentramento che consente la socializzazione del pensiero infantile. L’egocentrismo è un compromesso dinamico perché, man mano che si evolve, perde via via gli elementi autistici, acquistando i tratti del pensiero socializzato. Ciò fino al momento in cui, sia nel pensiero che nel linguaggio, l’egocentrismo scompare definitivamente.
Questa conclusione poi appare quanto meno discutibile anche per altri motivi, uno dei quali la constatazione che una buona dose di egocentrismo, sia linguistico che psicologico, permane anche nell’età adulta. Affermazione, questa, che verrà ripresa più tardi dal Piaget precisando che l’egocentrismo infantile non dev’essere confuso con l’individualismo sociale dell’adulto di matrice rousseauina.
A parte quest’osservazione e attenendoci alle risultanze della sperimentazione ci sono ancora altre osservazioni da fare.
Secondo Vygotsky, la linea evolutiva dello sviluppo del linguaggio segue una parabola di segno opposto a quella indicata dal Piaget. Ciò perché il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta, non tanto una fase terminale dello sviluppo, quanto l’inizio di un fenomeno di transizione delle attività espressive, dalle funzioni psicologiche esteriori a quelle interiori; cioè rappresenta un momento di passaggio da una forma di attività sociale e collaborativa a forme di attività psichiche individuali.
Secondo l’esperto, proprio in questo momento ha origine la biforcazione del linguaggio comunicativo che va articolandosi in due rami, di cui, un ramo va verso l’interno, costituisce il linguaggio per se stessi, potenziando le attività cogitative della mente; mentre l’altro ramo, continua la sua evoluzione originaria di natura sociale, costituisce il linguaggio per gli altri, che cresce, si evolve e si afferma con lo sviluppo, l’età, l’esperienza e la cultura.
Mentre l’individuo all’esterno manifesta una progressiva socializzazione del linguaggio verbale, all’interno compie una corrispondente maturazione silenziosa nella crescita della personalità individuale. Pertanto la maggiore completezza del linguaggio esteriore è una spia della crescita interiore dell’individuo.
In conseguenza di questa maturazione globale della personalità, mutano anche la struttura e la funzione del linguaggio egocentrico. Esso allora assume un altro significato funzionale correlativamente alle sue nuove funzioni e alla sua nuova struttura.
Dal punto di vista funzionale il linguaggio egocentrico è affine al linguaggio interiore e questo rappresenterebbe uno stadio più elevato del suo processo evolutivo.
Inoltre, a proposito di linguaggio egocentrico, si può dire che all’età di 3 anni, non c’è differenza tra il linguaggio egocentrico e quello comunicativo. La differenza cresce con l’età e lo sviluppo, per cui, a 7 anni, il linguaggio egocentrico si differenzia notevolmente da quello socializzato.
Questa vistosa differenza significa che la sua forbice evolutiva, anziché chiudersi come sostiene Piaget, è andata aprendosi con l’età e pare che tale apertura sia dovuta alla progressiva differenziazione delle funzioni verbali.
La conclusione che si può trarre è quella secondo cui, partendo inizialmente da un’indifferenziata funzione verbale, col superamento dell’egocentrismo, si arriva alla distinzione di un linguaggio per se stessi e di un linguaggio per gli altri.
A causa della sua cambiata funzione, il linguaggio interiore deve perdere tutti gli aspetti di quello esteriore sonoro e perciò deve far scomparire la vocalizzazione che deve scendere a zero.
In questo modo viene spiegato il declino del coefficiente del linguaggio egocentrico nel periodo compreso tra i 3 e i 7 anni. Infatti con il suo progressivo isolamento, questo tipo di linguaggio diventa linguaggio per se stessi, la vocalizzazione diventa inutile perché l’individuo conosce già in partenza il contenuto della frase che ha pensato già da prima di pronunciarla.
Infatti il linguaggio per se stessi, non potendosi manifestare strutturalmente come linguaggio esteriore, deve necessariamente trovare un’altra forma espressiva.
Ad un certo punto, avendo esso già raggiunto il livello funzionale di linguaggio per se stessi, necessariamente deve separarsi dal linguaggio per gli altri e perciò stesso deve cessare di essere linguaggio sonoro e dare l’illusione di scomparire completamente.
La progressiva differenziazione del linguaggio egocentrico dal linguaggio comunicativo dev’essere considerata come l’effetto di una crescente capacità di pensare le parole prima di pronunciarle, nonché la capacità di operare con le loro immagini, anziché con le parole stesse.
La differenza tra il linguaggio interiore e quello esteriore è data dall’assenza di vocalizzazione.
Il linguaggio interiore è una forma di linguaggio muto, silenzioso e a questo fine tende il linguaggio egocentrico: a perdere la sonorità e a diventare gravido di dinamismo semantico, ma muto nella forma.
Il processo naturale di perdita della vocalizzazione/sonorità dipende dalla progressiva differenziazione del linguaggio esteriore secondo un passaggio che ha la seguente progressione:
Linguaggio esteriore> Linguaggio egocentrico> Linguaggio interiore.
Pertanto il linguaggio egocentrico tende ad evolvere verso il linguaggio interiore.
Prima l’uno e poi l’altro, entrambi questi due linguaggi hanno una sintassi particolare che li avvicina e li caratterizza: la frammentarietà, l’abbreviazione e la contrazione di alcune parti strutturali o delle espansioni. Pertanto il linguaggio interiore, anche se potessimo registrarlo su un fonografo, risulterebbe abbreviato, frammentario e incomprensibile rispetto a quello esteriore, sempre più completo nelle strutture e più articolato negli attributi e nelle espansioni.
Anche il linguaggio egocentrico, antecedente genetico di quello interiore, presenta la sua dose di frammentarietà e incomprensibilità rispetto a quello esteriore.
A questo punto l’Autore scrive: “Tutte le caratteristiche del linguaggio interiore descritte giustificano la nostra tesi: che il linguaggio interiore rappresenta una funzione a sé stante, indipendente, autonoma, che si differenzia completamente dal linguaggio esteriore”. Perciò il linguaggio interiore è un particolare aspetto interiore del pensiero verbale che media il rapporto dinamico tra il pensiero (l’attività della mente) e la parola (attività fono-articolatoria del linguaggio esteriore).
Il passaggio dal linguaggio interiore a quello esteriore non è un semplice passaggio come quello che si fa passando da una lingua a un’altra; ma esso comporta una completa ristrutturazione del tipo di linguaggio, la trasposizione dalla sintassi autonoma e indipendente del linguaggio interiore di natura intuitiva, in altre forme strutturali tipiche del linguaggio esteriore, logico ed oggettivo, che diventa un patrimonio pubblico alla portata di tutti.
La commutazione, di un tipo di linguaggio in un altro tipo, comporta una complessa e dinamica trasformazione da una forma di linguaggio predicativo ed idiomatico individuale, in un altro tipo di linguaggio, più articolato e più strutturato, in modo da essere reso comprensibile dagli altri.
Il punto di partenza
Dagli studi condotti nella Scuola Storico-culturale di Mosca, Vygotsky annuncia molti risultati importanti delle indagini sperimentali, di cui dovrebbero tener conto gli insegnanti, i genitori e gli altri operatori scolastici responsabili della costruzione dei curricoli e della stesura dei Piani dell’Offerta Formativa (POF).
Premesso quanto già detto nel precedente articolo incentrato sulla stessa tematica e cioè:
– che la grammatica e la scrittura sono due discipline di fondamentale importanza per lo sviluppo del linguaggio;
– che il linguaggio corretto ed elaborato, a sua volta, rende possibile e rinforza lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori necessarie per l’apprendimento delle materie basilari del curriculum scolastico;
il Vygotsky enuclea una serie di altri concetti emersi dalla sua ricerca, che contribuiscono a suffragare la sua tesi della prevalenza della funzione dell’apprendimento su quella della maturazione spontanea, fino a fare emergere una contrapposizione teorica con la tassonomia dello sviluppo mentale del bambino del suo collega ginevrino J. Piaget.
Esponendo i risultati della sua ricerca, il Vygotsky dichiara:
1) Insegnamento e sviluppo
Una prima serie d’indagini era incentrata sulla relazione temporale tra il processo d’insegnamento e lo sviluppo delle funzioni psicologiche corrispondenti. Abbiamo scoperto che generalmente l’istruzione precede lo sviluppo e che il bambino acquisisce certe abitudini e certe capacità in alcune aree cognitive prima d’imparare ad applicarle consapevolmente e deliberatamente. Ciò perché non vi è mai un completo parallelismo tra l’istruzione, che ha i suoi tempi, le sue sequenze e le sue regole, e le funzioni che essa mette in moto, che obbediscono a leggi interne dello sviluppo, che sfuggono all’analisi dell’osservatore. Pertanto la conclusione sperimentale è quella secondo cui l’insegnamento non segue, ma precede lo sviluppo e lo guida attraverso una continua interazione con i risultati che esso stesso consegue durante il suo svolgimento.
2) Il transfert
In una seconda serie d’indagini gli studiosi hanno messo a fuoco il processo del transfert nell’apprendimento. Essi sono arrivati così a scoprire che lo sviluppo intellettuale non segue un percorso atomistico, parcellizzato e settoriale in accordo con le materie d’insegnamento come sosteneva il comportamentismo di Thorndike, ma al contrario, il suo corso è unitario, le differenti materie scolastiche interagiscono tra di loro nella genesi e nello svolgimento del processo evolutivo fortemente coeso. Anzi, indagando sul dinamismo psicologico di questo processo, sono stati scoperti anche altri fatti ad esso collegati, quali:
– che i prerequisiti degli alunni inizialmente sono in gran parte gli stessi per le diverse materie scolastiche;
– che l’istruzione data in una materia produce effetti, non settoriali confinati nell’ambito di quella stessa disciplina, ma generali e perciò capaci di coinvolgere l’intero sviluppo delle più elevate funzioni psichiche;
– che le principali funzioni intellettive coinvolte nello studio delle diverse materie sono fondamentalmente interdipendenti.
La conseguenza logica dei risultati ottenuti attraverso questi esperimenti è stata la dimostrazione scientifica secondo cui tutte le materie scolastiche fondamentali fungono da disciplina formale per lo sviluppo intellettuale dell’individuo. Ciò perché, attraverso un meccanismo psicologico e motivazionale di influenze reciproche, ciascuna di esse facilita l’apprendimento dell’altra. Quest’affermazione farebbe pensare che le nuove scoperte legittimino il principio su cui si basava l’istruzione formale del passato come palestra per la formazione della mente e che la Riforma Gentile nel 1923 non fosse lontana dall’intuizione di questa verità. In realtà si tratta di una rassomiglianza più apparente che reale perché effettivamente le cose non stanno proprio così. Infatti, tra l’istruzione teorica formale di matrice filosofica fortemente selettiva del passato e l’istruzione scientifica di matrice sperimentale moderna, universale nei fini e democratica nei metodi, c’è una differenza sostanziale. Certamente si dirà che, allora come adesso, la finalità più importante era sempre quella della formazione dell’uomo. Domanda alla quale si può rispondere che, se anche l’istanza generale era e resta quella, vi è una grande differenza nella filosofia di fondo sottesa alla domanda stessa: allora si trattava di preparare gli individui che avrebbero svolto il ruolo dei futuri quadri dirigenti di quella società stratificata e assestata al suo interno; adesso si tratta di formare insieme l’uomo e il cittadino del mondo di una società fortemente dinamica, democratica, multietnica, pluriculturale e globalizzata, che popolerà il pianeta nel terzo millennio.
3) L’area di sviluppo potenziale
In una terza serie di ricerche sono state fatte osservazioni sul rapporto apprendimento/sviluppo, investigando sull’area di sviluppo potenziale.
Sintetizzando i risultati della sperimentazione, Vygotsky scrive:
Abbiamo trovato che l’età mentale di due bambini era di 8 anni, abbiamo dato a ciascuno di loro problemi più difficili di quelli che essi avrebbero saputo trattare da soli e abbiamo dato loro un po’ d’aiuto … Abbiamo scoperto che con un po’ d’aiuto, un bambino poteva risolvere problemi destinati a bambini di 12 anni, mentre l’altro non poteva risolvere problemi di grado superiore di quelli destinati a bambini di 9 anni. Il divario tra l’età mentale effettiva di un bambino e il livello che egli raggiungeva risolvendo certi problemi con un po’ d’aiuto indica la zona di sviluppo prossimale o potenziale.
Nel nostro esempio questa zona è di 4 anni per il primo bambino e di un solo anno per il secondo. Sinceramente non possiamo dire che lo sviluppo sia lo stesso. L’esperienza ha dimostrato che il bambino con la più vasta area di sviluppo prossimale riuscirà meglio a scuola.
4) L’imitazione.
Nello sviluppo mentale del bambino, l’imitazione e l’insegnamento svolgono un ruolo molto importante. Nell’imparare a parlare, come nell’imparare le materie scolastiche, l’imitazione è indispensabile. Ciò che il bambino può fare in cooperazione con altri oggi, potrà fare da solo domani. Perciò l’unico tipo d’istruzione efficace è quello che precede lo sviluppo, lo guida e si autoalimenta con i propri risultati accrescendo la conoscenza e la motivazione. Esso dev’essere diretto, non tanto alle funzioni mature e già pronte, quanto a quelle ancora in fieri, in fase di maturazione. Spesso le nostre scuole hanno proposto all’alunno problemi che egli sapeva già risolvere da solo senza l’aiuto dell’adulto e così facendo gli hanno creato stanchezza e apatia. In questo modo egli non cresce o cresce poco perché non utilizza l’area di sviluppo prossimale. Pedagogicamente sarebbe stato più opportuno dirigere il bambino ad affrontare lo studio delle cose che non sa ancora fare e che perciò sono in grado di stimolare la sua curiosità e di suscitare in lui nuove energie motivazionali.
Così facendo, l’insegnamento viene portato avanti “per punti deboli” e il bambino non viene incoraggiato a crescere e a progredire; mentre se è rivolto ai “punti forti” (quello che il bambino non sa) il suo sviluppo verrà stimolato a crescere perché scattano in lui le molle psicologiche della motivazione a scoprire le cose nuove.
5) Richiamo alla Montessori.
Poi, rifacendosi a un principio comune nella pedagogia scientifica secondo cui per l’insegnamento di ciascuna materia di studio vi è un periodo ottimale, il Vygotsky scrive: “Maria Montessori e altri educatori li hanno chiamati periodi sensitivi. Il termine proviene dalla biologia e indica il periodo in cui l’organismo è particolarmente sensibile e ricettivo a certi tipi d’influenza. L’insegnamento dato prima o dopo o comunque al di fuori di quelle fasi non dà gli stessi risultati”.
L’esistenza di periodi ottimali per l’insegnamento di determinate materie non può essere spiegata soltanto in termini di pulsioni di natura biologica; o per lo meno una tale spiegazione non può valere per l’elaborazione di processi complessi come quelli che comportano l’apprendimento del linguaggio scritto che, come è stato detto in precedenza, è il codice simbolico di un altro codice (il linguaggio parlato).
Ad un certo punto lo studioso dichiara:
“Dalle nostre indagini risulta che il linguaggio scritto è in connessione con la cooperazione che il bambino stabilisce con il mondo adulto (genitori e/o insegnanti) specialmente con l’attività dell’insegnamento diretto”.
Poi continuando aggiunge: “I dati della Montessori conservano la loro importanza. Essa scoprì, per esempio, che se a un bambino si insegna molto presto a scrivere, a quattro anni e mezza o cinque anni, egli risponde con uno scrivere esplosivo, un uso abbondante e fantasioso del linguaggio scritto che non trova riscontro in bambini che hanno qualche anno di più. Questo è un esempio sorprendente della forte influenza che l’insegnamento può avere quando le funzioni non sono pienamente mature. L’esistenza di periodi sensibili per l’insegnamento di tutte le materie risulta confermato dai nostri studi.
Gli anni scolastici costituiscono il periodo ottimale per l’insegnamento delle operazioni che richiedono consapevolezza e controllo intenzionale”.
6) Concetti scientifici e concetti spontanei.
Sotto il controllo del maestro, l’allievo Zh. I. Shif aveva condotto una ricerca sperimentale sul rapporto esistente tra lo sviluppo dei concetti scientifici e quelli di ordine quotidiano con alunni della scuola primaria. Agli allievi venivano proposti test strutturati apparentemente simili tra di loro nella forma, ma alcuni di essi riferiti a contenuti di ordine scientifico, altri a materiale di esperienza comune e venivano confrontate le risposte. I test richiedevano l’invenzione di storie sulla base di una serie di immagini che davano qualche spunto per l’inizio, lo sviluppo e la fine della storiella stessa e comprendevano frammenti di frasi che terminavano con connettivi logici come perché, se, sebbene ecc.; poi le prove venivano completate con un colloquio clinico.
L’esperimento era stato fatto con bambini di due fasce di età, del secondo e del quarto anno e in entrambi i casi i risultati erano stati sorprendenti perché gli allievi, in percentuale, avevano dato risposte corrette più negli argomenti che contenevano concetti scientifici, che in quelli che contenevano problemi di ordine quotidiano riferiti a esperienze di vita che loro facevano tutti i giorni.
Traendo le conclusioni, lo sperimentatore si chiede: ma com’è possibile questo fatto?
Risponde l’esperto: “Perché il maestro, lavorando con lo scolaro, ha spiegato, fornito informazioni, interrogato, corretto e fatto spiegare allo scolaro stesso”. In questo modo i suoi concetti sono venuti formandosi attraverso il processo d’insegnamento e la collaborazione con l’adulto. L’aiuto del maestro è rassicurante e, anche nella sua presenza invisibile, mette il bambino in grado di risolvere meglio i concetti scientifici (per i quali ha punti di riferimento linguistici ben precisi) piuttosto che quelli spontanei che, nonostante siano riferiti alla sua esperienza di vita quotidiana, mancano di punti dei riferimento concettuale sicuri forniti dall’adulto.
La relazione esistente tra lo sviluppo mentale conseguito per evoluzione naturale e l’istruzione scolastica è una tematica psicopedagogica interessante, molto dibattuta negli ultimi decenni tra gli specialisti della materia.
Una volta si pensava che tra lo sviluppo derivante dalla maturazione neurofisiologica degli organi e l’apprendimento scolastico non ci fosse alcun rapporto diretto. Tutto al più si ammetteva un semplice nesso temporale di causa ed effetto nel senso che prima doveva avvenire il processo di maturazione degli organi preposti all’apprendimento in rapporto all’età e allo sviluppo psicofisico. Il discorso era riferito al percorso di maturazione fisiologica dei grandi neuroni delle aree corticali del cervello e al connesso processo di mielinizzazione delle fibre nervose deputate alla conduzione degli impulsi in rete, dalla corteccia cerebrale ai nuclei sottocorticali e agli altri distretti del sistema nervoso centrale.
Compiuta questa prima tappa del processo evolutivo, si riteneva che il bambino fosse pronto per ricevere i doni dell’istruzione. Normalmente, da quando nel sistema scolastico italiano fu introdotto il principio dell’obbligatorietà della frequenza oltre centocinquanta anni fa, a sei anni scattava l’obbligo scolastico per cui, a partire da tale età, il bambino doveva essere a scuola per apprendere l’istruzione formale che gli consentiva d’imparare a leggere, a scrivere e a far di conto.
Ancora oggi i tempi fisiologici e legali sono quelli e l’età di sei anni segna l’inizio della prima tappa del lavoro dedicato all’alfabetizzazione strumentale; dopo di che si passa gradualmente e progressivamente alla seconda fase, quella dell’alfabetizzazione culturale. Naturalmente questa è la fase più lunga, più complessa e più delicata, che dura almeno un triennio nella scuola primaria e si prolunga durante la frequenza della scuola secondaria. E’ una fase molto importante perché imposta la conoscenza dei saperi e l’apprendimento ordinato e sistematico di tutti gli alfabeti verbali, figurativi, scientifici e tecnologici necessari affinché il bambino possa comprendere, leggere e orientarsi nella complessa realtà della vita moderna.
Il pregiudizio pedagogico e culturale del passato (che in parte resiste ancora) è quello secondo cui i due processi, maturazione e apprendimento, sono due funzioni separate sia in senso strutturale che funzionale, ancorché a una certa età vengano a giustapporsi tra di loro, stabilendo così complessi circuiti di reciprocità funzionale. E se qualcuno si accontenta della prima condizione dello sviluppo, come d’altronde l’umanità aveva fatto per secoli e millenni; qualche altro non si accontenta più dello sviluppo bio-fisiologico regolato da una scansione naturale e, se ha i mezzi e la consapevolezza dei benefici che ne derivano, cerca di cogliere anche i frutti dell’istruzione con la speranza di procacciarsi un avvenire migliore per sé e per i propri figli.
Comunque la convinzione generale di una parte dell’opinione pubblica resta sempre quella secondo cui l’educazione è una cosa in più, un’aggiunta non necessaria alla vita, una sovrastruttura possibile da realizzare soltanto sopra la struttura dello sviluppo. La teoria poggia sul presupposto che ogni forma d’istruzione o di conoscenza richiede un certo grado di maturità neurofisiologica degli organi per poter compiere determinate funzioni sul piano astratto e simbolico. Non si può forzare la natura per tentare d’insegnare al bambino a leggere e a scrivere prima del tempo o della sua maturazione psicofisica. In questa prospettiva l’istruzione non può che essere una variabile dipendente dallo sviluppo cui resta subordinata. Lo sviluppo deve completare i suoi standard evolutivi prima che l’istruzione possa incominciare il suo corso.
In un certo qual modo anche la tassonomia dello sviluppo di Piaget è ispirata alla filosofia della prevalenza dello sviluppo sull’apprendimento. Infatti egli ritiene che il pensiero del bambino, nel suo percorso evolutivo, passi attraverso fasi e stadi indipendentemente dall’istruzione che riceve o può non ricevere, ma che rimane sempre come un fattore a parte.
Il comportamentismo costruisce le sue teorie della conoscenza sulla base del principio strutturale dello stimolo/risposta. Autori come James e Thorndike spiegano lo sviluppo intellettuale del bambino come una variabile dipendente dal graduale accumularsi dei riflessi condizionati. Cioè vedono lo sviluppo allo stesso modo in cui vedono l’apprendimento. Ma se il processo di sviluppo dovesse coincidere con quello dell’istruzione i loro prodotti diventerebbero identici e perciò l’istruzione diventerebbe sinonimo di sviluppo e viceversa. Il che appare la logica conseguenza di un ragionamento assai poco condivisibile.
La Psicologia della Gestalt con Koffka afferma che qualsiasi sviluppo presenta due aspetti: la maturazione e l’apprendimento; e rifacendosi all’aforisma dell’evoluzionista Lamark secondo cui “la funzione crea l’organo” dimostra che la maturazione di un organo dipende dal suo funzionamento e migliora durante l’apprendimento, l’esercizio e la pratica. Così che questa scuola assegna all’istruzione una funzione strutturale di primaria importanza. E la struttura, una volta formatasi in un campo, ha una sua funzione autonoma per cui può essere trasferita ad altri campi e utilizzata in altri contesti operativi. In questi casi viene a costituirsi l’abilità del transfert, cioè la capacità di trasferire le abilità conseguite in un campo ad altro campo dell’umano esperire.
J. S. Bruner ha fatto della struttura e del transfert le chiavi di volta delle sue teorie psicopedagogiche sull’apprendimento, che hanno dominato le scelte educative dei sistemi scolastici americani ed europei nella seconda metà del Novecento. Ma, già prima di lui, gli psicologi della Gestalt theory avevano dimostrato che l’istruzione data al bambino in un settore può trasformare e potenziare altri settori delle sue mappe cognitive, della sua esperienza, del suo pensiero. Se le cose stanno così, si può logicamente dedurre il fatto che l’istruzione non deve sempre e necessariamente aspettare la maturazione, ma in certi casi, deve precederla o guidarla. Sotto certi aspetti questa teoria ci riporta all’antico concetto dell’istruzione formale di Herbart e al ruolo assegnato alla cultura umanistica, correnti di pensiero che in Italia hanno avuto un importante riscontro applicativo nella Riforma scolastica fatta da Giovanni Gentile nel 1923. Infatti in quella Riforma le materie classiche come il greco, il latino e la filosofia offrivano le opportunità di addestramento e di formazione delle giovani menti e pertanto costituivano la spina dorsale dei curricoli scolastici. Gli oppositori furono molti, in modo particolare i Comportamentisti, che fecero di tutto per scardinare gli effetti formativi dell’istruzione formale, soprattutto nei settori della lingua e della matematica che hanno il potere di creare un’incidenza profonda a livello di concetti complessi, quali l’astrazione, la memoria, il ragionamento, l’autocontrollo.
Nella polemica su questo dibattito si inserisce la ricerca di Vygotsky, dei suoi collaboratori, Luria e Leontiev, e degli altri componenti dell’equipe della Scuola Storico-culturale di Mosca, che riafferma a chiare lettere i vantaggi formativi dell’istruzione formale, specialmente della lingua e della matematica. Nell’ambito della lingua, in modo particolare, essa riafferma la valenza fortemente formativa della grammatica.
A questo riguardo Vigotsky scrive: La grammatica sembra avere poca importanza nell’uso pratico. Al contrario di altre materie scolastiche, non sembra dare al bambino nuove capacità. Egli coniuga e declina prima di entrare a scuola. E’ stato pure suggerito di sopprimere nella scuola l’insegnamento della grammatica. Possiamo solo rispondere che le nostre analisi hanno dimostrato che lo studio della grammatica è di fondamentale importanza per lo sviluppo mentale del bambino.
Quest’affermazione dovrebbe far riflettere molti tra gli addetti ai lavori: teorici dell’educazione, insegnanti, Capi d’Istituto e genitori.
Da parecchi decenni nella scuola italiana (e non solo), è invalsa “l’ira funesta” dei detrattori della grammatica. Sono state fatte affermazioni gratuite non rispondenti ai veri bisogni del bambino in situazione di apprendimento, quali:
– Una materia arida, formata da regole e schemi astratti, il cui studio costa sforzo e fatica inutili perché non servono per un migliore apprendimento della lingua!;
– la grammatica comporta l’apprendimento di regole formali astratte, ma la lingua è una cosa viva che si apprende in modo naturale dalla comunicazione orale e dall’uso pratico del linguaggio verbale nella conversazione, la lettura, la narrazione, il dialogo e nei contesti di vita pratica frequentati dal bambino.
Questo modo qualunquistico e distorto di pensare e di ragionare sta dando, purtroppo, i cattivi frutti dell’ignoranza e della diseducazione di intere generazioni, specialmente di quelle che appartengono alle frange più deboli della società, che non hanno avuto un valido supporto nella famiglia di appartenenza. Il linguaggio parlato da molti giovani in casa, tra gli amici e nella società se non anche dentro le istituzioni scolastiche, è spesso di basso profilo, scorretto nella forma grammaticale e sintattica, incompleto nelle parti strutturali (soggetto e predicato) povero nelle espansioni (complementi ed attributi), scialbo o anche troppo prosaico se non scurrile, nei contenuti.
Quando poi si passa dal linguaggio orale al linguaggio scritto la situazione peggiora notevolmente, sia nella forma (ortografia, grammatica, sintassi, periodo) sia nei contenuti che comportano astrazione, riflessione, pregnanza di idee e coerenza concettuale nelle argomentazioni.
Se poi è vero il teorema secondo cui il linguaggio è strumento del pensiero, figuriamoci quale strutturazione di idee, di pensieri e di concetti ne derivi a livello profondo dall’interiorizzazione di un linguaggio scorretto nella forma, deficitario nel lessico, approssimativo nei contenuti!
La scuola è l’istituzione appositamente deputata per compiere il processo d’insegnamento/apprendimento della lingua in maniera scientificamente corretta. Ma spesso si trova impotente ad intervenire in maniera efficace o resta complice involontaria delle mode linguistiche spontaneistiche o licenziose della sua utenza debole; e gli alunni appartenenti a questa fascia di utenza, spesso sono portatori di deficit cumulativi di apprendimento, che prima o poi portano all’insuccesso scolastico. Spesso gli stessi addetti ai lavori (insegnanti e altri operatori scolastici) restano allibiti e smarriti davanti all’impotenza dell’istituzione per invertire il cattivo andazzo degli alunni nello studio e nell’uso della lingua. Talvolta cercano di correre ai ripari con progetti e interventi straordinari che potenziano l’offerta formativa per tentare di arginare i fenomeni negativi che causano dispersione scolastica. A fine anno scolastico si grida allo scandalo per la falcidia dei bocciati determinata, si dice, dall’applicazione dei Decreti del ministro Gelmini. L’Università sta progressivamente reintroducendo il “numero chiuso” e procedendo a sottoporre gli studenti a test e a forme selettive di accesso agli studi superiori per scegliersi i giovani migliori, eliminare la zavorra dei pluri-ripetenti e per diminuire l’esercito dei fuori corso che appesantiscono le sue strutture, dequalificano la didattica e abbassano gli standard di qualità degli studi.
Le cause dello scarso impegno o dell’indolente rifiuto dei giovani allo studio sono molteplici, alcune delle quali riferibili alle scelte di politica scolastica sbagliata fatte da parte dei vari governi di turno; altre sono riferibili alla mancata collaborazione o alla distorta interferenza delle famiglie nel percorso educativo dei figli; altre ancora sono riferibili all’inefficienza dell’offerta formativa. Questa spesso non riesce a motivare adeguatamente gli alunni onde incidere in maniera determinante nel loro apprendimento e nel loro comportamento, che vengono spesso influenzati o fuorviati dalle superficiali mode esteriori (pigrizia, esibizionismo, miti sbagliati, influenze negative del gruppo dei pari).
Per invertire la situazione di degrado dell’istruzione che in certe scuole sta diventando un fenomeno allarmante, occorrerebbe rivedere molte cose di cui non si può fare l’inventario in questa sede. Tanto per incominciare si potrebbe intervenire in maniera decisa e robusta rivalutando i curricoli e i programmi della Lingua Italiana.
Bisognerebbe ridare più spazio temporale e maggiore incisività all’attività didattica dell’insegnamento/apprendimento della Lingua, al cui centro si dovrebbe riproporre l’educazione linguistica. La grammatica dovrebbe riprendere il suo ruolo di guida normativa della lingua, il più importante patrimonio pubblico della società organizzata che ha un’influenza determinante nello sviluppo della privatissima sfera del pensiero e delle idee di ciascuno di noi. Se correttezza linguistica implica correttezza e ricchezza di pensiero e viceversa, vedete un po’ voi genitori e insegnanti che cosa volete fare dei vostri figli/alunni, oggi nella scuola, domani nella società globalizzata del terzo millennio.
La posta in gioco è importante per cui non rimane altro da fare che collaborare attivamente. E anche la più fattiva collaborazione tra scuola e famiglia corre il rischio di essere una forza troppo debole e insufficiente per preparare i giovani ad affrontare adeguatamente le sfide epocali che li attendono nella società del futuro. Altro che ignorarsi reciprocamente …!
Altro che perdere tempo in chiacchiere inutili o, peggio ancora, alimentare sterili contrapposizioni polemiche che corrono il rischio di depotenziare il già difficile percorso educativo dei giovani!
ALCUNI FATTORI DELLA LINGUA: L’ONOMATOPEA E LA POESIA
L’0nomatopea è una figura retorica che riproduce il suono di una parola o imita in qualche modo i suoni o i rumori fisici degli oggetti, delle azioni o delle cose. Viene distinta un’onomatopea primaria da un’onomatopea secondaria.
L’onomatopea primaria imita direttamente i suoni e i rumori fisici della natura, degli animali e delle cose; così abbiamo il cip, cip del canto degli uccellini; il glu, glu, glu del gorgoglio dell’acqua che scorre nel ruscello; il miao miao del verso del gatto; il din don del suono delle campane; il fru fru dei frulli d’ala improvvisati dagli uccelli; lo splish splesh splash che riproduce l’impatto dei corpi sulle superfici liquide; e via di seguito.
L’onomatopea secondaria, con il suono della parola, imita direttamente l’oggetto rappresentato dal segno linguistico; così abbiamo le parole sferragliare, borbottio, fruscio, gorgogliare, gracchiare, nelle quali il simbolismo fonico delle parole suscita l’immagine mentale delle corrispondenti azioni : lo sbattere del ferro contro ferro, il fastidioso e insistente parlare sottovoce, il brontolio dell’acqua che scorre sulla gora e così via.
In fondo essa è formata dalla trascrizione fonica di un suono o di un rumore che viene codificato con i fonemi del sistema linguistico. E’ una figura linguistica che si incontra frequentemente sia nel linguaggio comune che in quello artistico, soprattutto in quello poetico.
Nella poesia essa consente la produzione o l’accostamento di certi suoni che concorrono a creare le immagini o le situazioni o a evocare le figure che il poeta intende rappresentare artisticamente. Così, per esempio, in un passaggio del Carme ai Sepolcri, rappresentando l’orrido scenario della famosa Battaglia di Maratona, Ugo Foscolo scrive:
Il navigante che …..vedea per l’ampia oscurità scintille/balenar d’elmi di cozzanti brandi/fumar le pire igneo vapor, corrusche/d’armi ferree vedea larve guerriere/ cercar la pugna; all’orror dei notturni/ silenzi si spandea lungo nei campi/di falangi un tumulto e un suon di tube/e un incalzar di cavalli accorrenti/scalpitanti sugli elmi ai moribondi,/e pianto ed inni e delle Parche il canto.
In questo passaggio emerge il gusto dell’orrido che il Foscolo derivava dalla cosiddetta poesia sepolcrale del Romanticismo inglese e in particolare dai Poemetti di Ossian. La drammaticità della scena emerge dal quadro del simbolismo sonoro prodotto dal gioco dei fonemi forti rappresentati dalla “r” che, combinati con eccezionale maestria poetica con quelli bui della “u”, riproducono in crescendo gli effetti drammatici dei clamori della scena di distruzione e di morte della guerra. Poi il tragico pianto dei moribondi e il cupo canto delle Parche, due simboli sonori, tragici e cupi, che pongono fine alla drammatica battaglia artisticamente immortalata da questi versi foscoliani.
LA POESIA
L’onomatopea è una figura retorica comunemente sfruttata nella poesia di tutti i tempi, dai rimatori della poesia cortese provenzale e toscana del Trecento ai poeti ermetici che si sono affermati negli anni ’20 e ’30 del XX secolo.
Essi incentrano la loro poetica su pochi dati essenziale, riducono o aboliscono l’uso delle punteggiatura e creano componimenti poetici molto brevi, talvolta anche di pochi versi, nei quali esprimono le loro emozioni e raccontano la loro verità. Essi si rifanno al decadentismo francese di autori come Mallarmé, Rimbaud e Verlaine. Il caposcuola è Giuseppe Ungaretti, ma del gruppo fanno parte tanti altri autori, tra i quali, E. Montale, S. Quasimodo, A. Onofri. E’ un gruppo di poeti ed intellettuali che rifiutano ogni compromesso con la cultura dominante dell’Era Fascista; in compenso si concentrano nell’ideale di una poesia pura, aulica nella forma, chiusa nello stile e libera da ogni condizionamento politico e da ogni finalità pratica o didascalica. Il tema centrale intorno a cui ruota questa poetica eccentrica è il senso di disperata solitudine in cui si dibatte l’uomo moderno. Le vicende storiche degli ultimi tempi, tra cui la guerra e la dittatura, l’hanno reso orfano degli antichi valori romantici: la fede, la speranza, la giustizia, la libertà e l’amore universale tra gli uomini. Egli è rimasto senza certezze, senza punti di riferimento, solo al centro dell’universo con la sua angoscia esistenziale. Perciò egli vive l’esperienza di un mondo ferito, umiliato e incomprensibile. Ha una visione pessimistica della vita e il suo disilluso stato d’animo si riflette nella poesia fatta d’impressioni fugaci, di ripiegamenti interiori, di toni dimessi con l’uso di un linguaggio ricercato denso di immagini simboliche fortemente evocative.
Si potrebbe continuare a lungo nell’elencazione delle caratteristiche di questa estetica solitaria, ma ciò che interessa mettere in evidenza in questa sede è l’aspetto dei suoi rapporti con la Lingua Nazionale. Ebbene, a questo riguardo è opportuno chiarire subito che autori come Ungaretti, Montale, Quasimodo, Lenzi, Onofri, Zanzotto, vivendo ripiegati su se stessi a considerare la poesia come un esercizio estetico dei moti della propria coscienza, non danno un contributo apprezzabile al patrimonio spirituale della Lingua Italiana. Infatti la loro influenza sulla Lingua, rapportata al grande contributo dato dagli autori del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio) o a quelli dell’Ottocento (Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio), è stata veramente poca e di trascurabile importanza.
Altre correnti letterarie hanno avuto ben altra incidenza sul problema Lingua. Leopardi, per esempio, è stato uno di quelli che hanno dato il contributo più grande e più originale allo sviluppo articolato della Lingua Italiana; e non soltanto nei settori della poesia e della linguistica, ma anche in quelli della filosofia, della scienza e dell’esperienza della vita quotidiana. In linguistica distingue la differenza tra la Lingua della prosa, molto vicina alla Lingua parlata dalla gente nella vita quotidiana, e la Lingua della poesia che deve restare come un frutto particolare dell’esperienza personale dell’artista, dei sentimenti e delle emozioni che prova ciascuno di noi. Infatti le parole della poesia, ben diverse dalle parole spietate e fredde della Scienza, sono fortemente evocative. Inoltre il Poeta di Recanati si sforza per attuare una sintesi tra la Lingua aulica dei poeti e dei letterati e la Lingua quotidiana parlata dal popolo. Egli compie grandi sforzi per recuperare la poetica del Petrarca, che lancia sul mercato delle idee per fungere da volano alle esperienze letterarie successive dell’Ottocento e del Novecento.
Il Manzoni è un sostenitore della tesi secondo cui la Lingua Italiana deve perseguire l’obiettivo del perfezionamento strutturale e glottologico rifacendosi al modello originario della limpida parlata fiorentina. Per perseguire quest’obiettivo aveva sentito il bisogno di recarsi a Firenze “per sciacquare i panni in Arno”.
Il Carducci, pur essendo un toscano doc orgoglioso della sua lingua che dalla bocca della nonna Lucia faceva fluire “canora col mesto accento della Versilia che nel cuor (gli) sta , come quella in un sirventese del Trecento piena di forza e di soavità …” la pensava diversamente. Egli, nelle due raccolte, Odi Barbare e Rime e Ritmi, propugnava l’adozione di un modello linguistico e compositivo ispirato ai modelli classici e informato agli antichi canoni con un periodare solenne e aulico. Infatti si rivolse all’antichità classica, greca e latina, con l’intento di recuperare miti e ritmi, schemi metrici e compositivi.
D’Annunzio adotta una Lingua che gli consenta di esprimere e di rappresentare artisticamente il suo edonismo vitalistico che contraddice il positivismo scientifico e filosofico, che lo aveva preceduto. Cura una precisa scelta dei vocaboli che recupera dalla storia e un’intensa musicalità del verso, della strofa e del periodo, che gli consentono di creare un clima di particolare suspense idilliaca.
Le origini della lingua
Secondo il libro della Genesi i primi abitatori della terra parlavano un’unica lingua loro infusa dal Padreterno. Ma non tutti sono d’accordo con la tesi creazionista; molti, anche tra i credenti, accreditano maggiore favore alla teoria evoluzionista. Comunque siano andate le cose, quel linguaggio naturale primigenio si corruppe e diede vita al proliferare dei diversi linguaggi delle parlate locali: i Dialetti.
Questi sono linguaggi di origine arcaica formatisi nella notte dei tempi, quando i figli di Adamo cessarono di essere migranti raccoglitori di radici e di frutti selvatici e incominciarono a fondare le prime comunità stanziali.
Gli uomini primitivi avvertirono presto il vantaggio di vivere insieme per garantirsi aiuto, difesa e soccorso reciproco contro i pericoli di ogni genere che insidiavano la loro esistenza quotidiana. Essi conducevano una vita grama, costellata di stenti e di fatiche, ma anche sorretta dal grande slancio vitale dell’istinto di conservazione e animata da sentimenti protettivi nei confronti della progenie.
Essi trovarono nella lingua, ereditata dagli avi o elaborata da loro stessi, il naturale strumento di comunicazione e la carica propellente verso la dimensione sociale della vita. Infatti la lingua consentiva all’uomo di comunicare con gli altri uomini per manifestare le sue idee, per esprimere i suoi sentimenti e le sue emozioni, per unire le sue forze con quelle dei suoi simili onde stabilire rapporti di collaborazione con gli altri.
Così che i villaggi nuragici, i raggruppamenti di capanne, i borghi, i paesi, i centri urbani diventarono luoghi naturali di coniazione di suoni, di elaborazione di parole, di simboli, di parlate, di modi di dire, che oggi globalmente chiamiamo Dialetti.
Essi, pur poggiando su ceppi linguistici comuni o su caratteristiche fonologiche e morfologiche affini, spesso si differenziano tra di loro per specificità lessicali e altri elementi linguistici ed extralinguistici. Il mito della Torre di Babele rende bene l’idea della confusione delle lingue nell’antichità.
Tra i minuscoli universi etnici e linguistici del mondo antico, nell’Europa Occidentale sono andati affermandosi due nuovi mondi culturali più vasti e più efficienti con due lingue dominanti: la Lingua greca e la Lingua latina.
La Grecia
La Grecia antica era la terra delle città-stato, delle polis, ciascuna delle quali coltivava il suo orticello civico in maniera indipendente dalle altre. Ma nella seconda metà dell’ultimo millennio a.C., quando Atene, prevalendo sulle altre città, divenne la fucina della filosofia, della scienza e delle arti, la sua lingua (che poi era quella dell’Attica), filtrata e nobilitata dalla cultura, assurse agli onori di Lingua nazionale imponendo la sua egemonia su tutte le parlate delle altre polis.
Il processo di dominazione linguistica era accompagnato e sostenuto da quello di affermazione politica, militare e commerciale. Ciò specialmente dopo aver respinto i reiterati tentavi d’invasione persiana a Maratona e a Salamina e dopo le alterne vicende della Guerra del Peloponneso portata avanti contro Sparta.
La Lingua greca divenne il primo grande faro culturale della storia, che si accese per illuminare la sponda europea del Mediterraneo Orientale. Il secondo fu quello di Roma.
Roma
Alcuni secoli dopo sorse l’astro latino di Roma, che incominciò a brillare di luce propria sul firmamento del mondo antico dopo che, con le guerre puniche, aveva eliminato Cartagine dalla competizione nei traffici marittimi del Mediterraneo Occidentale.
Lo sviluppo economico e politico dell’Urbe derivava dall’efficienza delle forze armate: l’esercito e la marina. Il progressivo progetto di espansione esterna era supportato in patria da un rigoglioso movimento di sviluppo civile, linguistico e culturale, mutuato in parte dalla Grecia. Il latino di Cicerone, di Cesare, di Virgilio, di Mecenate, di Orazio e di Tito Livio divenne la prima lingua universale del mondo antico.
Si sviluppò in Età Repubblicana, raggiunse il suo apogeo nel periodo aureo di Augusto e mantenne il suo ruolo dominante anche durante i tempi del Basso Impero. Anzi, fu proprio allora che la Lingua latina esercitò una funzione egemone estendendosi dalle aree delle province a quelle delle colonie.
Essa veniva esportata dai magistrati, dagli ufficiali dell’esercito, dalle cohorti militari, dai funzionari amministrativi, dagli esattori del fisco. Nei primi secoli dell’Era Cristiana poi, quando l’Impero, aggredito da ogni parte dalle popolazioni barbariche era in fase di disfacimento, la Lingua latina ebbe il suo colpo di fortuna: quello di essere stata adottata come Lingua ufficiale dalla Chiesa nascente, dopo la dichiarazione di liberalizzazione del culto fatta da Costantino.
Così che la Lingua dell’Impero divenne la Lingua universale della Chiesa Cattolica in tutte le sue ramificazioni e rappresentanze nel mondo. Ancora adesso nel XXI secolo continua a svolgere la sua funzione universale di annunciare il Vangelo a tutte le genti del mondo; ciò nonostante il Concilio Ecumenico Vaticano II ne abbia ridimensionato la portata, introducendo le lingue locali nelle preghiere, nella liturgia della messa e in altre cerimonie del culto.
Inoltre anche nelle istituzioni civili, come nelle aule dei tribunali, l’antica Lingua di Roma ha garantito il valore della dottrina e la continuità delle procedure nell’amministrazione della giustizia.
Tuttavia nelle altre istituzioni civili e nelle masse popolari, dopo la caduta dell’Impero avvenuta verso la fine del V secolo d.C., la Lingua latina andò incontro a fenomeni di obsolescenza, di abbandono e di imbarbarimento, che portarono ad una sua progressiva dissoluzione a favore delle parlate locali.
In alcune are geografiche dell’Italia dominate dai Bizantini fu introdotta la Lingua greca; in altre aree dominate dai Barbari furono introdotte altre parlate di origine celtica o germanica come la Lingua longobarda. Poi per un lungo periodo di tempo di oltre cinque secoli, a cavallo tra la fine del primo e gli inizi del secondo millennio, ci fu un altrettanto lungo periodo di silenzio: un buco nero nella storia della Lingua, che si accompagna e si sovrappone all’analogo buco nero nella storia civile.
Le Lingue Volgari
Dopo l’anno Mille avvenne un lento e progressivo risveglio. Tra l’XI e il XII secolo nelle aree dell’Europa latinizzata, compaiono all’orizzonte le cosiddette lingue romanze o lingue volgari (parlate dal popolo = vulgus) chiamate anche neolatine perché sorte dalla dissoluzione dell’antica Lingua di Roma.
Tra queste, in Francia si distinguono la Langue d’oil dei menestrelli e dei giullari che, con le loro improvvisazioni canore, allietavano le mense e le feste dei signori delle Valli della Senna e della Loira e la Langue d’oc dei trovatori provenzali che facevano altrettanto nei banchetti dei feudatari dell’Aquitania, della Provenza e della Valle del Rodano.
In Italia il primo cenacolo dei poeti improvvisatori volgari lo troviamo nella Scuola Siciliana sorta a Palermo presso la Corte del re di Svevia Federico II. Gli altri circoli sorgono in Toscana: quello di Guittone d’Arezzo e quello Del dolce stil novo fiorentino, Scuola in cui fece il suo primo tirocinio poetico Dante Alighieri.
Poi le monumentali opere di poesia e di prosa dei tre grandi geni toscani, Dante, Petrarca e Boccaccio, che di fatto trasformarono la lingua popolare toscana, fiorentina in particolare, in Lingua nazionale italiana. Da allora si è posto il problema del dualismo linguistico, distinguendo tra:
1) La Lingua italiana, colta, parlata in tutto il territorio nazionale, che ha un suo statuto epistemologico, un codice formale elaborato, una potenzialità dinamica sempre in fieri, una progressiva articolazione in tanti sottocodici e registri e un continuo arricchimento di lemmi, stilemi e costrutti letterari nuovi, soprattutto nel campo delle letterature scientifiche e tecnologiche;
2) I Dialetti o le Lingue locali hanno un codice formale ristretto, forme lessicali rigide o incomplete spesso ellittiche del predicato o di qualche altra unità strutturale, ricevono pochi apporti di arricchimento dall’esterno, di cambiamento evolutivo o di osmosi naturale. Spesso costituiscono le lingue madri dell’infanzia, della fanciullezza e degli affetti domestici. Per molti, specialmente in passato, costituiva l’unica lingua conosciuta e parlata per tutta la vita. I Dialetti sono tanti quante sono le regioni , le sub-regioni o addirittura le città e i villaggi, ciascuno dei quali ha una sua variante locale rispetto alle parlate dei paesi vicini della stessa area o di aree limitrofe.
Pertanto gli italiani, più o meno tutti, sono bilingui perché hanno una Lingua nazionale e almeno un Dialetto, se non un’altra Lingua alternativa come il francese, il tedesco, lo sloveno, il sardo. Ma tutti i Dialetti italiani sono imparentati con la Lingua Nazionale perché derivano tutti dal latino volgare. Il bilinguismo dagli specialisti è chiamato diglossia che implica la contemporanea presenza di due varietà della Lingua con diverso valore funzionale e diversa connotazione sociale e culturale.
Lingua e Dialetti
Pertanto, riassumendo il discorso si può dire che la Lingua nazionale è una forma comunicativa ed espressiva elevata ed elaborata, sia dal punto di vista fonologico, morfologico, grammaticale e sintattico; sia dal punto di vista lessicale, stilistico ed estetico. Essa è stata usata nel tempo dalle persone colte: poeti, letterati, filosofi, artisti e scienziati e questo continuo utilizzo l’ha depurata da tutte le imperfezioni, gli elementi non belli o poco significativi per renderla sempre più bella, più pura, più aulica e più significativa.
I Dialetti invece sono le lingue locali, variano da una regione all’altra, da città a città e anche tra villaggi vicini dello stesso territorio. Essi soddisfano il bisogno della comunicazione spontanea, immediata e informale, permettono di stabilire contatti diretti e informali con la gente, sono poco elaborati, poveri di strutture morfologiche, carenti di forma e di lessico, ma in compenso sono molto pratici, allusivi e significativi; sono idonei ad esprimere sentimenti, emozioni ed hanno un grande potere evocativo di idee funzionali ad esprimere i sentimenti del mondo interiore e le idee della Poesia.
I Dialetti sono cresciuti poco o niente in rapporto allo sviluppo scientifico e tecnologico delle civiltà moderne. Essi sono rimasti fermi per secoli o millenni, quasi in stato di ibernazione nei loro vecchi standard formali, lessicali e di vocabolario. Perciò non sono adatti a rappresentare idee e ad esprimere messaggi di alta condensazione simbolica come possono essere quelli rappresentati dai moderni linguaggi scientifici, letterari, filosofici, matematici e cibernetici.
Per soddisfare questi bisogni ci pensano le Lingue moderne che, sorte sulle spoglie delle antiche lingue classiche, greco e latino, hanno prosperato succhiando linfa vitale dai dialetti, adottando barbarismi da altre lingue e coniando neologismi di ogni tipo. Perciò sono Lingue mature idonee a rappresentare ed esprimere le esigenze del tempo presente con tutte le sue complessità e le sue contraddizioni derivanti dalla riduzione del pianeta ad un unico villaggio globale.
Fattori che hanno favorito lo sviluppo della Lingua Italiana
Molti sono stati i fattori che negli ultimi cento anni hanno favorito lo sviluppo della Lingua Italiana, quali:
a) L’emigrazione esterna. Gli emigrati italiani degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso che si recarono all’estero (in Francia, in Belgio, in Germania, in Olanda e altrove) alla ricerca di lavoro toccarono con mano l’importanza della lingua e cercarono di correre ai ripari per sé e per i loro figli;
b) L’emigrazione interna, per effetto della quale molta gente si spostò dalla campagna alle città. Intere masse umane abbandonarono le tradizionali attività produttive, l’agricoltura e la pastorizia, e si trasferirono nelle città per trovare un posto di lavoro nell’industria o nei servizi. Tutto ciò ha creato gravi scompensi demografici mettendo in moto un meccanismo perverso di spopolamento delle campagne e di sovraffollamento delle città e delle aree urbane in generale. Comunque vivere in città ha comportato spesso notevoli vantaggi: più occasioni per parlare la Lingua, più possibilità per lo studio e la sistemazione dei figli con la presenza delle scuole, dell’Università e degli altri servizi pubblici;
c) L’industrializzazione ha favorito la diffusione dei linguaggi tecnici e scientifici. Lasciando la solitudine dei campi e dell’ovile ed entrando nella fabbrica, l’operaio ha trovato una comunità più dinamica dal punto di vista dell’opportunità di parlare la lingua e d’intessere rapporti sociali con gli altri. Infatti la fabbrica è un luogo privilegiato per l’ integrazione linguistica e socio-culturale dei lavoratori;
d) La burocrazia. Il funzionamento degli uffici amministrativi dello Stato e degli altri enti pubblici impone a tutti i cittadini l’uso frequente della lingua per comunicare con gli impiegati e con i funzionari;
e) La stampa giornalistica ha esercitato una grande influenza come mezzo di comunicazione di massa e pertanto come occasione per leggere e parlare la lingua;
f) La televisione con le sue trasmissioni è stata un potentissimo mezzo di unificazione linguistica dei cittadini di tutte le estrazioni sociali della Nazione;
g) La scuola è l’istituzione specifica deputata a fornire l’educazione linguistica ai suoi utenti, dalla scuola primaria all’Università, fornendo una piena conoscenza delle sue regole interne, grammaticali, morfologiche e sintattiche;
h) La donna lavoratrice. L’entrata della donna nel mondo del lavoro, avvenuta negli ultimi 50/60 anni, ha spesso comportato una seconda fonte di reddito e perciò un maggiore benessere per le famiglie. Il miglioramento economico delle famiglie, a sua volta, ha determinato un progressivo sviluppo della società ed ha consentito maggiori opportunità di studio e di sistemazione dei figli. Non solo, ma le migliorate condizioni economiche delle famiglie sono state il presupposto per una migliore realizzazione culturale ed umana delle persone, genitori e figli. Il processo di sviluppo è stato supportato e sostenuto dall’uso della Lingua Italiana anche in famiglia, aumentato negli ultimi decenni del 100%.
Alcune regole di Linguistica
Il sistema lingua è un universo simbolico complesso che può essere studiato da prospettive e con interessi differenti. Esso costa di diverse componenti: lettere, fonemi, parole, unità morfologiche (nome, articolo, aggettivo, verbo, avverbio, congiunzione ecc.), variabili lessicali, valore semantico. Ogni parola è formata da un numero variabile di elementi (lettere, fonemi) che si legano tra di loro secondo determinati costrutti fonologici e lessicali. Così se per esempio prendiamo in esame la parola Roma è formata da 4 lettere R=1, o=2, m=3, a=4, disposte secondo l’ordine fonologico e lessicale in serie progressiva 1, 2, 3, 4; invertendo tale ordine, le lettere possono essere scompaginate come un mazzo di carte e riutilizzate secondo altri ordini. Per esempio, invertendo la serie nell’ordine 4, 3, 2, 1 si ottiene la parola amor; oppure nella serie 2, 1, 3, 4 e si ottiene la parola orma; oppure secondo l’ordine 1, 4, 3, 2 si ottiene la parola ramo; oppure secondo l’ordine 2, 3, 4, 1 si ottiene la parola Omar. Il meccanismo funziona, si ottengono parole di diverso significato, ma sempre sensate perché vengono rispettati i due sistemi strutturali di base, il sistema fonologico e quello lessicale. Questo è il vantaggio che offre il sistema alfabetico a caratteri mobili inventato dai Fenici circa tremila anni fa. Ma se si dovessero disporre le lettere secondo un altro ordine, per esempio nella successione 4, 2, 3, 1 si otterrebbe aomr che non è una parola della lingua italiana, ma una semplice successione di lettere messe a caso. In quest’ipotesi ciò che è saltato é il sistema fonologico che, a sua volta, ha fatto saltare quello lessicale e, a maggior ragione, anche quello semantico. Il sistema lingua contiene tanti altri sottosistemi: nomi, articoli, aggettivi, verbi e tutte le parti variabili ed invariabili del discorso. La sequenza normale impone il rispetto dell’ordine fonologico come nella frase La mia casa è bella e non accetta alterazioni del tipo Casa la bella mia è oppure mia la bella è casa. Sequenze di questo tipo non sono accettabili nella struttura sintattica della lingua italiana.
Relazioni Paradigmatiche e Sintagmatiche.
Nella lingua il valore degli elementi (lettere e fonemi) dipende dalle relazioni reciproche che essi contraggono tra di loro, a seconda della disposizione spaziale che essi occupano nella stringa linguistica. Per esempio, nella frase il cane rosicchia l’osso, la scelta viene fatta nel modo seguente: 1 “il” viene preso dal sottosistema articoli;
2 “cane” viene preso dal sottosistema nomi;
3 “rosicchia” viene preso dal sottosistema verbi;
4 “l’ osso” è una scelta lessicale tra le tante possibili in quella circostanza perché il cane poteva rosicchiare anche qualche altra cosa.
Per effettuare la scelta è necessario aver presente tutta la gamma del sistema lingua, cioè bisogna avere a disposizione tutto il Paradigma, ossia l’insieme di tutte le parole possibili per descrivere l’atto che compie il cane per “rosicchiare l’osso”. Allora nella mente dell’individuo tutti gli elementi della lingua entrano in relazione di opposizione. Pertanto dal momento in cui egli sceglie alcuni elementi, automaticamente scarta tutti gli altri; e la scelta viene fatta secondo precise regole fonologiche, morfologiche e sintattiche. Nella lingua gli elementi sono legati tra di loro da relazioni paradigmatiche oppositive e quando il parlante sceglie gli elementi in relazione paradigmatica, contestualmente li combina secondo altri criteri, quali:
a) L’Accordo Morfologico: la parola cane poteva essere combinata con altri articoli e/o con altri nomi;
b) La Connessione Semantica: il cane può compiere altre azioni: correre, abbaiare, mangiare, morsicare, ma rosicchia é il termine più adatto per esprimere quell’azione di ripulitura dell’osso;
c) La Collocazione Sintattica: le regole della linguistica ammettono, come collocazione possibile, quella che scaturisce dall’orine numerico seriale progressivo 1, 2, 3, 4.
Possono essere ammesse anche altre collocazioni, come per esempio rosicchia l’osso, il cane; ma in questo caso bisogna introdurre altri elementi di differenziazione come la virgola per separare il complemento oggetto (messo prima) dal soggetto (messo dopo).
Ma sono inaccettabili frasi come la seguente: cane il rosicchia osso lo.
Si è già accennato al fatto che ogni elemento della catena parlata o scritta entra in relazione oppositiva con tutti gli altri elementi ma, nello stesso tempo contrae relazioni foniche e grafiche con tutti gli altri elementi che la precedono e che la seguono. E’ il meccanismo della coarticolazione fonemica, di cui si è parlato in altro punto di questo sito e cui si contrappone il fenomeno opposto di segmentazione fonemica. L’una e l’altra abilità devono essere insegnate al bambino in età precoce all’interno del processo di alfabetizzazione strumentale che si compie durante la frequenza della prima classe della scuola elementare.
Se sull’ASSE PARADIGMATICO (che si sviluppa nel senso verticale della profondità della lingua) le relazioni contratte tra gli elementi sono di opposizione, sull’ ASSE SINTAGMATICO (che si sviluppa in senso orizzontale) le relazioni sono di contrasto.
Le relazioni paradigmatiche e quelle sintagmatiche valgono sia per le singole parole che per le intere frasi. Esse si esprimono e si materializzano attraverso gli elementi extralinguistici o soprasegmentali, quali la co-articolazione o fusione dei suoni, il tono, l’accento, la scansione delle lettere e delle sillabe, il colorito emotivo della voce. Chi non apprende queste abilità, più virtuali che materiali, da bambino, è difficile che le apprenda da adulto quando l’apparato fono-articolatorio è stato già strutturato in modo diverso e non è più plastico per produrre quei suoni. Questo spiega il fenomeno degli accenti sbagliati e delle fonie sgradevoli degli stranieri, dei non udenti e di tutti quelli che apprendono l’italiano da adulti e in maniera informale, mentre il loro apparato bucale resta predisposto per produrre altri suoni, altri accenti con altri significati.
Pertanto la selezione oppositiva e la combinazione di contrasto sono due aspetti fondamentali dell’abilità linguistica da fare apprendere al bambino quanto prima possibile, quando le strutture neurofisiologiche sono ancora plastiche e perciò possono essere plasmate in modo adeguato a compiere una corretta pronuncia. Gli elementi del sistema lingua si chiamano segni e questi, presi nel loro insieme, formano quella scienza chiamata Semiotica. Essa studia tutti i tipi di segni e li definisce in modo articolato, congruo e funzionale.
Pertanto la Semiotica o Semiologia è la scienza dei segni per eccellenza. Il segno linguistico è sempre una rappresentazione arbitraria di un’altra cosa, astratta o concreta, che si chiama referente; perciò è un simbolo convenzionale comunemente inteso da tutti i parlanti una determinata lingua. Il segno linguistico costituisce l’immagine mentale, depositata nelle aree corticali del cervello deputate alla memoria, che associa insieme il significato con il significante.
Così, per esempio, la parola gatto è il segno linguistico che associa il significato dell’animale che rappresenta con il significante, cioè con l’insieme degli elementi linguistici (lettere e fonemi) che formano la stringa linguistica, legati tra di loro in una struttura sintagmatica interna alla parola g+a+t+t+o. Quando una persona parla, il significato viene realizzato foneticamente e percepito acusticamente come segnale da chi ascolta. Il significato si realizza con la produzione dell’idea di senso, che dev’essere la medesima nei due interlocutori: emittente e ricevente.
Si realizza allora il passaggio dal segno (astratto e simbolico) al segnale (concreto, percepito fonicamente). Si può anche compiere il processo inverso; cioè si può risalire dal segnale al segno.
L’attribuzione di un segno linguistico ad una cosa piuttosto che ad un’altra è un fatto puramente arbitrario. Nel processo di elaborazione lessicale (nomenclatura, terminologia) di una lingua entrano in gioco due tipi di attività cognitive: le categorie di pensiero e le categorie linguistiche. Una materia comune di questo importante universo cognitivo dell’uomo è rappresentata dalla psicolinguistica, cui si è fatto riferimento in altri articoli precedenti del blog. Essa studia lo sviluppo genetico della mente attraverso l’apporto del linguaggio e lo sviluppo del linguaggio guidato dal potere strutturante e ordinatore della mente.
Vygotsky, fondatore della psicolinguistica, a questo riguardo ha scritto che il pensiero verbale si manifesta nel linguaggio, mentre il linguaggio si interiorizza, va in profondità e diventa fattore ordinatore del pensiero.
Pertanto la psicolinguistica è il terreno comune in cui il processo di categorizzazione della realtà esplicato dal potere innato della mente si articola in segno linguistico; e questo, a sua volta, offre al pensiero il materiale segnico necessario per la distinzione, la categorizzazione e la rappresentazione simbolica della realtà.
La lettura e la scrittura sono due attività simboliche complememtari della mente umana, sulle quali sono state costruite la conoscenza, la scienza e le culture, “le forme simboliche dell’umano esperire” di E. Cassirer. Praticamente leggere significa decodificare i messaggi formulati da altri. Vi sono alcuni fattori fondamentali che costituiscono precondizioni indispensabili per l’apprendimento e l’esercizio della lettura e della scrittura, quali possono essere le conoscenze fonologiche, morfologiche e lessicali di base della lingua. Il bambino viene educato alla lettura dall’adulto che può essere il genitore, l’insegnante o un’altra figura di riferimento significativa per lui, come possono essere i nonni, gli educatori, i coordinatori delle ludoteche o i responsabili di altri servizi educativi infantili. In passato era l‘insegnante della classe prima elementare che aveva il compito d’insegnare all’alunno di sei anni il processo di apprendimento della lettura, della scrittura e del calcolo (leggere, scrivere e far di conto). Oggi, con la diffusione dell’istruzione, anche nelle classi sociali popolari, i bambini hanno i primi approcci alla lettura intuitiva già prima di arrivare alla scuola primaria, in famiglia con i genitori, nell’istituzione prescolastica con le maestre della scuola materna. La prima condizione necessaria per apprendere il processo di letto/scrittura é che il bambino parli la lingua con tutte le persone, con le quali vive a contatto: genitori, insegnanti, compagni, ambiente scolastico, familiare e sociale, nonché nei monologhi che crea con se stesso. La seconda condizione é quella dell‘educazione all’ascolto attivo (non passivo) per imparare a comprendere e interpretare i messaggi. C’é tutto un percorso didattico da compiere per conseguire l’abilità di educazione all’ascolto, che presuppone alcune conquiste sul proprio Io: il rispetto degli altri, il superamento del proprio egocentrismo, l’acquisizione della categoria della reciprocità. A questo riguardo torna utile rivedere la famosa lezione del silenzio, un fattore educativo di primaria importanza nella pedagogia scientifica di M. Montessori, applicata nelle Case dei Bambini, le odierne Scuole Montessoriane. La terza condizione é quella di guidare il bambino affinché impari a verbalizzare l’esperienza, tutte le sue esperienze che fa ogni giorno, sia quelle oggettive e materiali, sia quelle soggettive e personali. La quarta condizione é quella di guidare l’alunno affinché, in un contesto di apprendimento appositamente creato come può essere la classe scolastica, egli impari a chiedere la parola, attendere il suo turno e a parlare al momento opportuno. La buona padronanza della lingua é importante per l‘arricchimento del lessico. Il bambino dev’essere invogliato a parlare, perciò occorre suscitare in lui la cosiddetta funzione appetitiva del linguaggio (appetitio loqui) . Per raggiungere questa tensione psicologica positiva, indispensabile per conseguire una buona prestazione nell’attività linguistica e comunicativa, il bambino/alunno dev’essere fortemente motivato; cioè deve avere una motivazione autentica alla lettura, che dev’essere gratificante di per se stessa. E’ questa la famosa motivazione intrinseca che però non nasce spontaneamente come i funghi dopo le prime piogge autunnali. Essa dev’essere coltivata attraverso un lungo tirocinio di apprendimento in cui vengono messi in moto processi psicodinamici particolari come la curiosità, il desiderio di competenza e il modello d’identificazione, che, in parte nascono da pulsioni naturali coscienti, in parte scaturiscono dall’inconscio e sono indotte dalle figure adulte più vicine, nelle quali riescano a immedesimarsi: i genitori, i nonni, gli insegnanti. Perciò l’insegnante deve apparire all’alunno, non solo una persona di fiducia, ma anche una figura interessante e appetibile sul piano affettivo e ideativo perché incarna i valori e la personalità matura sulla quale egli vorrebbe esemplare la sua personalità in formazione. Tra l’altro egli deve sentire una forte carica motivazionale alla lettura, alla scrittura e allo studio in generale, ben sapendo che la motivazione del bambino spesso scaturisce dalla motivazione che l’adulto ha e sa contagiare anche agli altri, soprattutto ai minori che educa. Per poter compiere questo lavoro con successo, l’insegnante deve avere, anzitutto una grande pazienza, una grande padronanza della materia con la conoscenza di libri adatti per i bambini, testi di letteratura per l’infanzia, libri di narrativa, di divulgazione, saggi biografici e enciclopedie per la ricerca; il tutto con il valore aggiunto della buona competenza professionale, metodologica e didattica . In questo senso egli deve esercitare l’alunno all’utilizzo delle varie forme espressive, quali: la descrizione, il resoconto, la narrazione, la discussione, il dialogo, la corrispondenza, la poesia e la relazione. Dal punto di vista metodologico sono validi entrambi i metodi di approccio alla letto-scrittura, sia il metodo globale, sia quello fonico-sillabico. La variazione della scrittura spesso dipende dalla variazione degli aspetti fonici, quali la percezione, l’analisi e la segmentazione del continuum fonico. Di fondamentale importanza sono gli aspetti segmentali: fonemi, morfemi, parole, frasi parlate o scritte; ma hanno grande peso anche i fattori extralinguistici o soprasegmentali: l’accento, l’intonazione, la veste fonica della voce, la coarticolazione o fusione fonemica e la funzione opposta, cioè la segmentazione fonematica, il colorito emotivo della voce, il vigore espressivo. Comunquea gli aspetti più importanti della semiotica della lettura sono i simboli della significazione, distinti in significante (suoni, segni, simboli, fonologia, morfologia e sintassi) e significato: valore semantico delle parole e delle frasi. Grazie al valore potenziale del processo di significazione, le idee e i contenuti concettuali della mente possono essere espressi in parole e tradotti in testo, orale e scritto, che, inizialmente, può essere anche incompleto. Sarà compito dell’insegnante o comunque dell’adulto-educatore, quello di aiutare l’alunno a ad esplicitare le idee, a completare il suo pensiero e ad esprimerlo nella maniera più fedele possibile. Inoltre é sempre compito dell’adulto quello di guidare l’alunno a tradurre il suo pensiero orale in testo scritto, codice grafico decifrabile con la vista, codice di un altro codice, quello fonico decifrabile con l’udito. Appare superfluo ribadire il fatto che il testo prodotto dev’essere corretto dal punto di vista formale (accordo morfologico) e significativo (connessione semantica) dal punto di vista concettuale.
LA LETTURA: in un ambiente di apprendimento formale specifico, come può essere la scuola, la prima esperienza che l’alunno deve fare é quella di avere un modello pratico di lettura, di engrammare (assorbire) uno schema strutturale, sentendo leggere l’insegnante. Questi, con la sua performance linguistica, deve offrire un modello efficiente della competenza che intende attivare negli allievi. L’insegnante deve offrire schemi e modelli di lettura di vari tipi, quali il racconto, la poesia, brani letterari, brevi notizie giornalistiche, lettere e altri documenti comuni, compresa la compilazione dei modelli della modulistica ordinaria. Bisogna avere sempre presente il fatto che, sul piano formale, leggere significa compiere un’operazione intermodale traducendo il codice grafico della scrittura nel codice fonico del linguaggio verbale; nello scrivere si fa l’operazione opposta di traduzione del codice fonico in quello grafico); sul piano sostanziale significa esprimere un‘idea, un concetto, un‘entità astratta o rappresentare con la simbologia linguistica un oggetto o una cosa assente; e più in generale significa sempre fare ricerca, comprendere ed interpretare il significato del testo scritto. Gli alunni saranno guidati a produrre i testi scritti sugli argomenti più disparati e con diverse modalità operative: tema fisso assegnato dall’insegnante, tema libero, ricerche guidate, riassunto del brano letto, perifrasi del testo poetico, destrutturazione e ricostruzione di un brano, una storia, una novella, un saggio scientifico, un’opera di narrativa. I testi scritti dall’alunno vanno sempre corretti. Può non essere prudente l’intervento correttivo intempestivo dell’insegnante che tende a bloccare l’alunno in certi momenti di sforzo di codificazione/decodificazione tra la catena grafica e il continuum fonico del linguaggio parlato; ma l’errore va sempre corretto e bisogna farlo al momento opportuno, possibilmente davanti all’alunno, che dev’essere guidato all’autocorrezione o, quanto meno, alla presa di coscienza dell’errore e/o delle possibilità di espansione del contenuto testuale. Per democratizzare la situazione e favorire il linguaggio creativo, le attività didattiche dovrebbero comprendere le seguenti iniziative: la conversazione, il dialogo, i giochi di ruoli, la drammatizzazione, le ricerche di gruppo.
RIFLESSIONE SULLA LINGUA
L’attività metalinguistica che studia il linguaggio nelle sue varie forme, strutture, funzioni, codici e registri una volta veniva chiamata direttamente e semplicemente grammatica. Ogni lingua aveva ed ha ancora ha la sua grammatica, formale e funzionale, articoltata nelle sue parti: fonologia, morfologia, sintassi e semantica; e ogni parte comprende un complesso di regole da studiare, osservare e applicare per conseguire l’obiettivo dell’uso corretto ed efficace della lingua. Le scuole tradizionali del passato facevano abbondante uso ed abuso delle grammatiche. Pertanto, talvolta si arrivava all’assurdo di compiere uno studio astratto delle regole formali come se si trattasse dello studio una disciplina a sé, senza preoccuparsi del fatto che l’alunno comprendesse e conoscesse la parte viva, naturale e creativa della lingua parlata e scritta; questa capacità si apprende in situazioni pratiche concrete con l’esperienza del parlare, scrivere, dialogare, inventare. Inoltre, non si teneva conto del fatto che, lo studio uggioso delle regole, creava disaffezione all’uso naturale e spontaneo della lingua. Per evitare questi eccessi compiuti da alcuni docenti fin troppo zelanti nello studio delle regole grammaticali, negli ultimi decenni i linguisti hanno eliminato dai manuali anche la parola grammatica sostituendola con la locuzione riflessione sulla lingua. Ma cambiando il nome alla disciplina, non cambia la sostanza delle cose. Pertanto, con quest’ultima dicitura, Riflessione sulla lingua, viene indicato il complesso di regole strutturali e funzionali della lingua stessa. In questa prospettiva ciò che cambia é il metodo di approccio alla materia, perché la veste formale della disciplina non costituisce più un corpus di regole a sé, ma esse vengono individuate di volta in volta dentro la lettura, desunte dal contesto descrittivo o narrativo o apprese direttamente dal corpo della lingua viva, parlata o scritta. Pertanto, i linguisti di oggi, in alternativa allo studio delle regole formali già definite nei libri di grammatica, consigliano di compiere percorsi didattici più semplici e più spontanei, come quelli di fare emergere dal testo scritto curiosità linguistiche o scoperte di relazioni tra forme e significati, costruzione di catene o storie di parole, scoperta delle forme sintattiche, di attributi e predicati, della funzione strutturale del verbo nella proposizione, delle parti morfologiche e sintattiche; facendo ciò allo stesso modo come compiono il processo di manipolazione (destrutturazione, analisi e rielaborazione) del testo scritto. Comunque, a prescindere dal metodo d’insegnamento/apprendimento, negli ultimi tempi le nuove generazioni stanno manifestando un progressivo distacco e una crescente disaffezione dalla lettura, perché la loro attenzione viene più facilmente catturata dal linguaggio iconico-figurativo: il disegno, il fumetto, la fotografia, la propaganda pubblicitaria. La lettura per immagini é una lettura intuitiva, più semplice e più immediata della lettura verbale. Pertanto la televisione, il piccolo e il grande schermo attraggono i giovani più della carta stampata. Inoltre, accanto al linguaggio iconico e figurativo dei mezzi mass-mediali, si stanno affermando sempre di più i nuovi linguaggi digitali del computer, dell‘informatica, della telematica e le pagine web. In questo primo scorcio del terzo millennio stiamo vivendo una realtà complessa, contraddittoria, ma anche incontrovertibile perché, di fatto, i mezzi tecnologici attuali stanno spostando progressivamente l’asse della comunicazione dal simbolo all‘immagine, dal linguaggio analogico (che ha il suo nucleo di elaborazione genetica nelle aree cortiali dell‘emisfero sinistra del cervello) al linguaggio digitale, che ha la sua matrice di elaborazione in altre aree corticali: motoria, psicomotoria e iconica del cervello. Tutto ciò a lungo andare potrebbe determinare modificazioni morfogenetiche nel processo della conoscenza, dell’inculturazione e delle relazioni dell‘uomo con i suoi simili. Non si sa con quali conseguenze. Infatti nel nostro tempo é in atto una rivoluzione profonda e silenziosa sulle modalità con cui avviene la comunicazione e l’acquisizione dell’informazione e della conoscenza attraverso canali alternativi, più celeri e, per certi versi, anche più efficaci dei tradizionali canali alfabetici e verbali, utilizzati per la simbolizzazione dall’umanità da oltre tremila anni. Le antenne della televisione e i motori di ricerca dei PC hanno spodestato i sacrari della conoscenza, dei numi tutelari dell’antica sapienza di Minerva, oscurando il firmamento dei linguaggi analogici della filosofia, della letteratura, della poesia e delle grammatiche tradizionali. Malgrado tutto, però, il libro, la carta stampata e la lettura non morranno, ma continueranno ad accompagnare e ad educare le nuove generazioni, almeno nel prossimo futuro.
Lev S. Vygotsky é un insigne studioso, uno sperimentalista di alto spessore che, verso la fine degli anni’20, nell’Istituto di Psicologia di Mosca, aveva fondato, insieme a Luria e Leontiev, la Scuola Storico -Culturale. In un primo tempo questa istituzione aveva riscosso un prestigioso successo negli ambienti scientifici e accademici. Poi la sua fama fu oscurata dal governo sovietico perché la ricerca scientifica e i suoi operatori andavano affermando verità scomode alla dittatura comunista allora al potere. Peggio ancora, gli scienziati non si erano lasciati “addomesticare” dal regime. Eppure le scoperte che facevano avevano soltanto valore scientifico senza inficiamenti politici o ideologici di sorta. Ma, come si sul dire, certe volte “la verità fa male” anche quando è neutra dal punto di vista ideologico. In modo particolare se essa contraddice certi dogmatismi ideologici che sorreggono l’impalcatura autoritaria del regime e giustificano il capitalismo di stato, tutto proteso verso il conseguimento di uno spasmodico obiettivo politico: il trionfo dell’egemonia marxista-leninista nel pianeta.
Ad ogni modo Vygotsky si distingue per gli studi portati avanti, come ricercatore obiettivo, attento e scrupoloso, nel campo della Psicologia dell’apprendimento applicata alla scuola e all’educazione.
Studia con attenzione le teorie del cognitivismo e nell’insieme condivide l’impostazione del sistema teorico generale dello sviluppo elaborato da J. Piaget. Ma in alcune parti la sua analisi diverge da quella dell’epistemologo elvetico e in certi punti arriva a conclusioni assai diverse, talvolta di segno opposto.
Il linguaggio egocentrico, nella sua genesi e nella sua funzione, diventa un punto cruciale di divergenza della sua teoria da quella del Piaget.
Al riguardo è opportuno ricordare che, secondo lo studioso ginevrino, lo sviluppo del linguaggio, che segue un percorso analogo a quello del pensiero, si evolve dall’interno verso l’esterno, dal potenziale patrimonio genetico-ereditario innato alla costruzione della dimensione psichica di ciascuno, attraverso la maturazione naturale degli organi preposti allo svolgimento della funzione, l’esperienza di vita e l’educazione scolastica.
Il linguaggio del bambino, nelle prima fase della sua comparsa intorno al secondo anno di vita, è un linguaggio di tipo autistico, volto soprattutto a soddisfare i bisogni essenziali dell’Io. Con il passaggio allo stadio pre-operatorio diventa prevalentemente linguaggio egocentrico. Poi, intorno al settimo anno, col raggiungimento del concetto della conservazione della sostanza e della reversibilità dell’operazione, il linguaggio si evolve e diventa sociale, contribuendo, non poco, alla socializzazione del pensiero e al dischiudersi del discorso decentrato e razionale.
In pratica lo sviluppo del linguaggio segue il percorso che va dall’interno verso l’esterno, con la seguente transizione processuale: linguaggio autistico, linguaggio egocentrico, linguaggio sociale.
Quando emerge e si afferma quest’ultimo, il linguaggio egocentrico scompare progressivamente e si atrofizza cedendo il posto al linguaggio sociale di tipo comunicativo.
Ebbene, Vygotsky contesta questa spiegazione, ribalta completamente la prospettiva piagettiana e ne propone un’altra nuova, tutta sua, originale e affascinante.
Egli sostiene che il primo linguaggio è già in origine di tipo sociale perché il bambino lo assorbe in modo inconscio in famiglia e nell’ambiente circostante; e se gli viene proposto in maniera corretta e significativa, egli lo assorbe spontaneamente nelle sue strutture, anche elaborate e complesse, e impara a utilizzarlo in forme grammaticali e sintattiche altrettanto corrette e con varianti semantiche e lessicali creative ed originali.
A questo riguardo la sua teoria si rifà al lavoro di ricerca-scoperta che prima di lui aveva fatto la Montessori nelle scuole di Roma.
Infatti i nuovi orizzonti dischiusi alla pedagogia da Maria Montessori costituiscono i frequenti termini di riferimento dello studioso russo nelle sue ricerche sulla psico-linguistica e sulla scienza dell’educazione. Anzitutto Vygotsky riconosce alla grande educatrice italiana il merito di essere stata l’antesignana della pedagogia scientifica con la scoperta di alcune strutture importanti della mentalità infantile, come i concetti di mente assorbente, periodi sensitivi, la mano organo della mente, le astrazioni materializzate.
Prima nell’Istituto Medico-Pedagogico che accoglie i bambini disabili dimessi dal manicomio di Roma; poi nelle sue Case dei Bambini disseminate nel mondo, ella crea l’ambiente educativo favorevole con il mobilio, gli arredi e le attrezzatura su misura del bambino.
Nelle aule predispone il materiale di sviluppo che essa stessa crea sull’esempio del lavoro fatto dai medici francesi Itard e Séguin per il recupero dei bambini disabili. Si tratta di un materiale strutturato per forma, dimensione e colore, che deve servire all’educazione sistematica degli organi di senso e che implicitamente contiene anche i principi educativi di autocontrollo dell’apprendimento e di autocorrezione dell’errore.
Inoltre, con la convinzione che deriva dall’esperienza, propugna il principio pedagogico dell’anticipazione dei tempi dell’apprendimento delle abilità di base, della lettura, della scrittura e del calcolo all’età intorno ai quattro anni. Ciò perché a quell’età le strutture neurologiche e sensoriali coinvolte nei processi di apprendimento sono ancora plastiche come la cera vergine per cui possono subire facilmente il processo dell’imprinting e apprendere qualsiasi informazione in maniera naturale e senza sforzo, grazie alla comparsa dei periodi sensitivi e alla qualità della mente assorbente.
Proprio queste particolari potenzialità della mente infantile costituivano il terreno fecondo degli studi e delle sperimentazioni, che Vygotsky andava facendo alcuni decenni dopo la Montessori.
Soprattutto egli aveva notato che durante gli anni di frequenza delle istituzioni prescolastiche (Asilo Nido e Scuola Materna) e del primo ciclo della Scuola Elementare il linguaggio si espande e si arricchisce nel lessico e, soprattutto, si articola in due piani diversi, di cui, uno conserva la funzione di contatto sociale e di normale comunicazione con gli altri, l’altro diventa linguaggio egocentrico, volto a soddisfare i bisogni dell’egocentrismo individuale, ancora incapace di concepire qualsiasi forma di decentramento al di fuori del proprio Io. Tutto l’universo deve ruotare intorno al suo interesse e guai se qualcosa non soddisfa immediatamente i suoi desideri o i suoi volubili capricci!
E’ il tipico linguaggio che il bambino utilizza anche quando gioca da solo o alla presenza di altri, attribuendo un anima ai giocattoli e agli oggetti inanimati, e un artefice alle realtà della naturali che lo circondano come i monti, i fiumi e i laghi; inoltre esibisce questo stesso tipo di linguaggio anche nei monologhi collettivi che instaura nei giochi di gruppo, ma fatti in maniera solitaria nelle aule della scuola dell’infanzia.
Ebbene questo linguaggio, che si manifesta in forma egocentrica, è linguaggio in transito dall’esterno verso l’interno, in fase di trasformazione da linguaggio sonoro esteriore in linguaggio silenzioso interiore .
Poi, intorno al settimo anno di vita, quando l’individuo acquista il concetto della conservazione della sostanza e della reversibilità dell’azione, questo linguaggio non scompare o si atrofizza come voleva il Piaget, ma va in profondità, diventa linguaggio per sé e serve per ordinare le idee, categorizzare la realtà e formulare i concetti.
In poche parole si può dire che esso attiva il potere strutturante della mente, generando il processo di ideazione e di simbolizzazione della realtà. E questo magico potere della mente diventa la struttura dinamica che crea i simboli della conoscenza, la banca dati della memoria, le figure dell’arte e le mappe concettuali della cultura.
Alle origini della filosofia greca Socrate è stato immortalato dal suo migliore allievo, Platone, perché aveva avuto il grande merito di scoprire questo pezzo di verità universale: il potere di concettualizzazione della mente umana, primo pilastro della filosofia dell’essere e della storia della cultura occidentale.
Vygotsky, pur senza negare le potenzialità innate dell’essere umano, è tutto proteso a dimostrare la storicità del pensiero che, nella sua formazione, segue un suo processo genetico- evolutivo. Per dimostrare la tesi del suo teorema fa incursioni nel campo della psicologia comparata, prendendo a prestito i risultati delle ricerche condotte dagli sperimentalisti Koehler, Buhler e Yerkes sugli antropoidi superiori, come lo scimpanzé, l’orango e il gorilla.
Essi, in base agli studi condotti sui risultati delle prove sperimentali, sostenevano che i comportamenti intelligenti degli animali si arrestano sempre a un livello pre-linguistico e non sono mai collegati con le forme rudimentali dei linguaggi specifici della specie.
Evidenziano che lo scimpanzé ha successo nell’azione, come, per esempio, nell’infilare un bastone nel termitaio per toglierlo pieno di formiche di cui è ghiotto; usare un bastone o le cassette messe l’una sopra l’altra per arrivare a prendere le banane appese in alto. Ma, pur possedendo un linguaggio non molto dissimile da quello dell’uomo specialmente dal punto di vista fonetico e articolatorio, questo resta sempre separato e indipendente dalle azioni che compie. Esso esprime soltanto desideri ed emozioni, contatti affettivi, stati di agitazione e di rabbia, di dolore o di paura, ma non è mai in grado di rappresentare qualcosa di oggettivo. Inoltre l’animale è bravo ad imitare i gesti e le azioni dell’uomo, per cui, se lo vede dipingere e gli vengono lasciati gli attrezzi a disposizione, esso gioca con l’argilla colorata e “dipinge” prima con le labbra e con la lingua, poi con i pennelli; ma i sui lavori di “pittura” sono semplicemente degli scarabocchi amorfi e delle macchie insignificanti di colori sovrapposti. Tutto al più riesce ad imbrattare di colore la carta, le pietre e la ghiaia, senza denotare alcun che di oggettivo e senza evidenziare il minimo processo ideativo.
A questo punto c’è da chiedersi: perché l’animale nel disegno non riesce a riprodurre neppure un abbozzo approssimativo di immagini significative?
Secondo gli sperimentalisti la risposta è semplice ed è la seguente:
perché nell’animale, anche in quello più evoluto nella scala filogenetica come possono essere i primati superiori, mancano alcune caratteristiche morfogenetiche e alcuni processi funzionali specifici dell’essere umano, quali:
a) l’engrammazione degli stimoli percettivi (visivi, acustici, tattili, olfattivi ed estetici) nelle corrispondenti aree corticali del cervello deputate a dare i’input alla funzione elocutoria;
b) il processo spontaneo di ideazione che genera le idee e le immagini mentali;
c) la funzione simbolica del linguaggio. E se anche di questa funzione esistesse qualche rudimentale abbozzo, questo non é mai collegato con il linguaggio specifico della specie.
Pertanto Vigotsky riassume la complessa materia nel seguente quadro di sintesi:
1) sia nell’essere umano che nella scimmia, il pensiero e il linguaggio nascono da differenti radici genetiche che nell’animale restano sempre separate e indipendenti l’una dall’altra;
2) nell’essere umano le due funzioni inizialmente sono separate e indipendenti; ma a un certo punto dello sviluppo, in corrispondenza dell’età dei “perché” tra il secondo e il terzo anno di vita, si incontrano, si coordinano e si rafforzano a vicenda, per cui, il pensiero diventa verbale e il linguaggio diventa razionale;
3) la stretta corrispondenza tra pensiero e linguaggio, che esiste nell’uomo, non esiste negli antropoidi;
4) il pensiero verbale, tipico dell’uomo, tuttavia non include tutte le forme di pensiero, né tutte le forme di linguaggio. Ciò perché esiste una forma di pensiero che si esprime con l’azione o con l’uso di strumenti per cui prescinde dal linguaggio; come esiste un tipo di linguaggio pre-intellettuale, non collegato al pensiero, come i vocalizzi e le lallazioni del bambino piccolo, il linguaggio onirico e certe altre forme di espressione degli stati di incoscienza o di certe forme di affezioni patologiche;
5) il pensiero non verbale e il linguaggio non intellettuale non partecipano a questa fusione. Pertanto le due funzioni possono essere paragonate a due cerchi diseguali sovrapposti che, a tratti possono coincidere sovrapponendosi e rafforzandosi a vicenda, a tratti divergono di nuovo per cui non si toccano mantenendo ognuno la propria indipendenza funzionale.
Piaget era fondamentalmente un epistemologo della scienza, prestato solo in parte agli studi di psicologia, con particolare vocazione a quelli dell’età evolutiva.
Per l’aspetto che concerne il nostro discorso, egli sostiene che le idee fondamentali, che costituiscono il sostrato di base dell’intelligenza, sono potenzialmente innate, ma per poterle rendere attive e operanti hanno bisogno di essere esercitate e messe a punto con l’esercizio e l’esperienza pratica quotidiana durante l’età evolutiva. La sua è una ricerca longitudinale che studia il lungo cammino della crescita, chiamato sviluppo, che inizia alla nascita e termina con la morte dell’individuo.
Per la verità egli distingue due tipi di sviluppo: quello fisico del corpo, che inizia alla nascita e termina con la fine della crescita, intorno al ventesimo anno di vita; e quello intellettuale, che inizia alla nascita e dura per tutta la vita.
Anzitutto egli paragona lo sviluppo intellettuale, che procede di pari passo con la formazione della personalità, alla costruzione di un grande e complesso edificio che ha un cantiere sempre aperto per la realizzazione di continue aggiunte, migliorie e ristrutturazioni. Ogni intervento contribuisce ad ingrandire, migliorare e rendere più solido e più funzionale l’intero edificio.
Pertanto la fine della crescita fisica non implica affatto anche la fine della crescita intellettuale. Cioè non esiste una fase di quiescenza nella curva di sviluppo dell’intelligenza. Anzi, proprio quando termina lo sviluppo corporeo, emerge una seconda fase dello sviluppo mentale che conferisce i caratteri della stabilità e dell’identità alla personalità in formazione. Ma si tratta di una stabilità sempre in fieri che, paradossalmente, diventa più stabile quanto più è mobile e dinamica.
Lo sviluppo globale dell’individuo avviene per effetto della dinamica di due grandi forze: l’assimilazione e l’accomodamento.
La prima è la tensione naturale della mente umana a recepire e introiettare all’interno gli stimoli sensoriali e psicodinamici provenienti dalle stimolazioni esterne; la seconda fase é data dall’adattamento dell’individuo alle situazioni sempre nuove che gli creano le continue stimolazioni ambientali.
Sotto l’impulso di queste due grandi forze dinamiche, contrastanti e complementari nello stesso tempo, lo sviluppo avviene per fasi e stadi di cui si segnalano, molto sinteticamente, le tappe più importanti:
1) La Fase dello sviluppo senso-motorio che va dalla nascita all’età di circa 2 anni, articolato, a sua volta in altri stadi intermedi;
2) La Fase dello sviluppo pre-operatorio che va dai 3 ai 6 anni circa, articolato anch’esso in altri stadi: tra cui quello delle operazioni concrete non reversibile (3-4 anni) e quello del pensiero intuitivo (4-6 anni);
3) La Fase delle operazioni concrete reversibili, che va dai 7 agli 11 anni, caratterizzati dalla comparsa della logica ma ancora legata alle cose e ai supporti concreti;
4) La Fase delle operazioni formali o astratte, caratterizzata dalla comparsa del periodo ipotetico-deduttivo, che compare intorno ai 12 anni e dura per tutta la vita.
Tutto lo sviluppo incomincia con il complesso lavorio dell’infante, proteso al coordinamento dei sensi (vista, udito, tatto) con la motricità o, meglio, la psicomotricità dell’afferrare, esplorare, succhiare, lanciare e manipolare gli oggetti, soprattutto i giocattoli. Passa attraverso le fasi delle operazioni concrete percettive, sensoriali, motorie e manipolatorie, intrise di egocentrismo verbale e comportamentale e di una forma di pensiero intuitivo e prelogico.
Dopo gli 11 anni raggiunge la fase delle operazioni formali o astratte, caratterizzata dalla costruzione della proposizione completa dal punto di vista formale e significativa dal punto di vista semantico. La dimostrazione di aver raggiunto questo traguardo evolutivo è data dalla comprensione e dalla padronanza d’uso del periodo ipotetico -deduttivo, cioè della proposizione la cui protasi (proposizione principale o reggente) è espressa al congiuntivo, mentre l’apodosi (proposizione subordinata) viene costruita con il predicato espresso al modo condizionale.
All’età di 12 anni circa, quando incominciano a comparire le prime trasformazioni morfologiche, fisiologiche e ormonali dell’adolescenza, si può fare un test semplicissimo per vedere se la scansione della corrispondente fase della crescita intellettiva è già avvenuta regolarmente o meno.
Per fare questo si può mettere l’adolescente alla prova, ponendogli la seguente domanda:
“Se Edith ha i capelli più scuri di Lilì e più chiari di quelli di Susanna, quale delle tre ha i capelli più scuri?”. Se egli è in grado di rispondere correttamente attraverso il ragionamento astratto, di tipo ipotetico deduttivo, graduando mentalmente l’intensità del colore dei capelli delle tre figure di donna prese ad esempio, vuol dire che il suo processo di sviluppo è in linea con la tassonomia della crescita universalmente riconosciuta dalla scienza. Altrimenti vuol dire che c’è qualcosa che non va nell’individuo o nel suo ambiente di vita o nel processo educativo seguito. Pertanto s’impone la necessità di correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
Per quel che concerne il nostro discorso attuale, il Piaget sostiene che “il linguaggio non è sufficiente a spiegare il pensiero, giacché le strutture che caratterizzano quest’ultimo affondano le radici nell’azione e nei meccanismi senso-motori più profondi che non il fatto linguistico”.
Però poi ammette “ E’ chiaro che quanto più le strutture di pensiero sono raffinate tanto più è necessario il linguaggio per il completamento della loro elaborazione. Pertanto il linguaggio è una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegare le operazioni logiche compiute dal pensiero. Queste, senza l’utilizzo del sistema simbolico del linguaggio, resterebbero allo stato di azioni successive senza integrarsi mai in sistemi simultanei e coerenti tra di loro”.
Alla fine conclude il suo ragionamento intorno ad uno dei punti più interessanti delle sua analisi, sostenendo che “ fra linguaggio e pensiero esiste un circolo genetico tale che l’uno dei due si appoggia all’altro, in formazione solidale e perpetua azione reciproca.
Entrambi dipendono in fin dei conti dall’intelligenza stessa, che è anteriore al linguaggio e indipendente da esso” (Lo sviluppo mentale del b. Einaudi, 1967).
Nel dibattito pedagogico interno, tra naturalisti e ambientalisti, egli si schiera a favore dei primi perché ritiene che la sua visione epistemologica dello sviluppo, che avviene a scatti per fasi e stadi, corrisponda a una scansione del naturale processo della crescita, influenzato soltanto dalla maturazione degli organi in funzione del tempo e dell’alimentazione.
Infatti, secondo lui, nessuna competenza senso-motoria, verbale o intellettiva si può costituire prima del tempo, cioè prima che avvenga la naturale maturazione degli organi, che, in fin dei conti dipende dal processo di mielinizzazione delle fibre nervose del sistema nervoso centrale. Questo processo, a sua volta, dipende dallo sviluppo organico e dalla maturazione neuro – fisiologica generale dell’organismo.
Pertanto la scansione degli stadi non può essere anticipata o influenzata da interventi esterni né per quanto concerne il movimento e la senso-motricità, né per quanto riguarda la funzione simbolica del linguaggio o l’acquisizione dell’apprendimento formale.
Ma ci sono altri studiosi che appartengono ad altre scuole di pensiero per cui la pensano diversamente da lui. Uno di questi è L. S. Vigotsky, lo psicologo ambientalista russo che ha profuso i suoi studi nel settore della psicologia dell’apprendimento, volto soprattutto ad indagare sugli effetti dell’istruzione ai fini del potenziamento dello sviluppo mentale del bambino.
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