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Scritto Da Felice Moro il giorno 08 Gen 2009

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L’articolo è incentrato sulla storia, struttura e funzioni della Comunicazione. La comunicazione è una relazione che si stabilisce tra due o più … (Clicca sul titolo per continuare a leggere l’articolo)

 

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INTRODUZIONE AL ROMANZO “PALLIDO AUTUNNO”

Posted By Felice Moro on Ottobre 8th, 2017

Sommario

Innanzitutto occorre dare una semplice ma doverosa spiegazione sulla scelta del titolo e del sottotitolo. Pallido Autunno sono le prime due parole del testo, costituiscono l’incipit del romanzo e danno il titolo, sia al paragrafo di esordio, sia all’intero lavoro. Un tempo questa scelta era fatta nelle antiche tradizioni poetiche (Petrarca) e ancora adesso viene usata nelle encicliche papali, le cui prime parole del testo danno il titolo all’intero documento.

In questo caso Pallido Autunno è il tempo in cui è iniziata la storia, che diventa punto di riferimento nell’evoluzione dei fatti e chiave di volta  dell’intero racconto; e questo lo si capisce meglio dal sottotitolo, La vita del giovane Eufemio Coro. Per rendere la comunicazione più semplice e più immediata, in famiglia il nome era stato abbreviato, per cui tutti lo chiamavano Femio, come faremo anche noi nel corso del racconto. Ma si precisa che esso non ha nessun rapporto, se non di omonimia, con il mitico Femio dell’Odissea.

Nell’opera di Omero, Femio era un aedo greco che, con il suo canto, intratteneva i Proci nel palazzo di Ulisse a Itaca. Così indirettamente assecondava il disegno di Penelope di dilazionare le promesse nozze con uno di loro alla fine dell’indefinita tessitura della sua tela, ma nella segreta speranza del ritorno del marito Ulisse.

Il nostro Femio non è un aedo, ma un giove sardo che appartiene a una famiglia di lavoratori della terra. Fin da piccolo è introdotto dal padre, Bobore Junior, nel mondo della campagna per lavorare le colture e accudire il bestiame. Man mano che la famiglia cresce, aumenta il numero delle bocche da sfamare e per far fronte alle spese che diventano sempre più consistenti, il capo famiglia potenzia la sua azienda incrementando il bestiame. E nonostante la contrarietà del ragazzo al suo progetto, egli acquista una dozzina di pecore che, aggiunte alle altre poche che possiede da prima, formano un branco di ovini che affida alla custodia del figlio. Pertanto, non appena ha terminato la frequenza della scuola dell’obbligo, il ragazzo si trova di punto in bianco relegato in campagna a custodire le bestie. E siccome quell’attività da sola è poco redditizia, egli contribuisce anche al  lavoro dei  campi, che è l’attività economica principale della famiglia.

In questo modo,  il giovanotto si ritrova impegnato a tempo pieno a lavorare in campagna.

Ma, ahimè, si sa che le cose imposte contro voglia non vanno mai a buon fine!

Sebbene di malavoglia, all’inizio il ragazzo obbedisce alla volontà paterna. Si adatta alla situazione, compiendo il suo dovere con impegno, anche perché nel frattempo si è affezionato agli animali che, a modo loro, gli ricambiano l’amicizia. ll padre contava moltissimo sul fattore adattamento, perché pensava che, a lungo andare, il giovane si sarebbe abituato a fare quel mestiere, ci avrebbe provato gusto e non avrebbe più protestato. Ma il ragazzo, in cuor suo, la pensa diversamente. Siccome non gli piaceva vivere in campagna, pur evitando clamorosi atti di ribellione in famiglia, più volte sollecita il genitore a vendere il bestiame perché egli non vuole continuare a fare il pastore. E allora, che cosa vorrebbe fare? Questo, per il momento, non lo sa neanche lui!

Egli sa soltanto quello che non vuole fare. Ma, su ciò che avrebbe voluto o potuto fare, non si sbilancia perché non ha ancora le idee chiare; e sulla sua incertezza, pesa molto la situazione familiare. Egli sa che, per tentare di fare un passo coraggioso verso una possibile scelta di suo gradimento, è necessario disporre di adeguate risorse economiche che la famiglia non ha.

Comunque si sarebbe adattato a tutto, gli sarebbe andato bene qualunque altro mestiere: la carriera militare, l’artigiano del legno o della pietra e perfino il contadino, come d’altronde aveva fatto prima  e che, in parte, continuava a fare anche adesso! Insomma, tutto, fuorché il pastore!

Infatti, appena può, riesce a convincere il padre a vendere le pecore e a farsi mandare di nuovo a scuola. E, nonostante fosse molto in ritardo, il giovanotto si iscrive alla Scuola Media, frequenta la prima classe e parte della seconda. In corso d’anno si ritira, si prepara in privato e si presenta da esterno all’esame di licenza media, che supera in maniera brillante. Così compie il ciclo della scuola media in due anni, anziché  in tre, com’era previsto dall’ordinamento.

S’ iscrive all’Istituto Magistrale, dove frequenta regolarmente con successo fino a metà anno della terza classe. A questo punto il suo percorso scolastico subisce una brusca interruzione a causa dell’arruolamento forzoso nell’esercito per adempiere al servizio militare di leva.

Anche sotto le armi continua a studiare, almeno nei ritagli di tempo lasciatigli liberi dal servizio. Da autodidatta riesce a completare il programma della classe terza, interrotto al momento della sua improvvisa partenza. Poiché il Comando non gli concede la licenza per ritornare in Sardegna a sostenere l’esame, egli si presenta da privatista in divisa nell’Istituto Magistrale di Gorizia, il più vicino alla sua sede di servizio. Sostiene l’esame d’idoneità alla classe quarta nella sessione di settembre e viene promosso a pieni voti.

Sono tutti piccoli successi che tuttavia gratificano il giovane e lo incoraggiano ad andare avanti.

Dopo diciotto mesi di servizio militare, finalmente viene congedato!

Ritornato alla vita civile, si reca di nuovo in città, dove frequenta la classe quarta e consegue il diploma di Abilitazione con la votazione più alta dell’Istituto.

Dopo alcuni mesi comincia a lavorare. Ottiene, prima un incarico in una Scuola Popolare, poi la nomina per l’insegnamento di materie letterarie in una Scuola Professionale Agraria, della quale ha avuto l’ònere e l’onore  di essere stato il pioniere.

Vince il Concorso Magistrale, viene assunto in ruolo nell’organico dei maestri della provincia e inizialmente viene mandato ad insegnare in un paese vicino al suo, poi viene trasferito nella sua Anatia. Da quando ha incominciato a lavorare si è iscritto all’Università, dove frequenta, sia pure in maniera discontinua, il Corso di Lingue e Letterature Straniere. Per acquisire padronanza nelle lingue scelte come fondamentali del Corso di laurea, il francese e l’inglese, si reca prima in Francia, dove frequenta i Corsi estivi di lingua francese; poi a Londra, dove segue un Corso di lingua inglese.

Va tutto bene con il francese, meno bene con l’inglese. Nel sostenere l’esame di questa lingua incontra notevoli difficoltà che lo inducono a sospendere gli studi universitari, creando una battuta d’arresto nel suo avviato percorso accademico.

Intanto conosce una giovane collega, Angelica, della quale si innamora.

Bobore si ammala e, dopo pochi anni di malattia, muore. La sua precoce scomparsa crea disorientamento in casa e lascia un grande vuoto affettivo e morale nei familiari. Per forza di cose ricade sul figlio maggiore la responsabilità di sostenere la madre alla guida della famiglia.

Femio costruisce la casa vicino a quella paterna, di modo che, mentre attende agli impegni della nuova famiglia, possa seguire da vicino anche le vicende della famiglia di appartenenza. Egli non fa mancare il suo sostegno materiale e morale alla madre, rimasta vedova con gravosi problemi da risolvere: due figli piccoli agli studi e un’azienda rimasta all’improvviso senza testa e senza gambe. Data la situazione, Femio sente la responsabilità di sostituire il padre assente.

Angelica e Femio si sposano in una fredda giornata di gennaio, sotto una caratteristica, quanto affascinante, bufera di neve che li persegue anche durante il viaggio di nozze.

Al rientro a casa celebrano il ricevimento di nozze con una grande festa comunitaria, alla quale intervengono, oltre che i familiari e i parenti, molti altri invitati: amici, conoscenti e compaesani delle due comunità di provenienza degli sposi.

Rientrano ai loro posti di lavoro e riprendono la normale attività d’insegnamento.

Fin qui la cronaca asciutta e stringata degli avvenimenti materiali che costituiscono lo schema strutturale dell’opera, la fabula, nel linguaggio letterario. Qui il racconto s’interrompe.

 

Aspetto simbolico

L’opera è un romanzo autobiografico che narra le avventure di vita, di lavoro e di studio del giovane Femio Coro. Ma non si limita alla semplice narrazione delle sue vicende personali e di quelle degli altri personaggi coinvolti nella scena, che pure formano spezzoni importanti di una saga di vita di una famiglia e di un intero gruppo sociale. Ma la storia va ben oltre. Dal tronco del racconto principale si diramano altri rami secondari che, a loro volta, sviluppano altri avvenimenti annessi al primo e connessi tra di loro. Molti di questi fatti, pur traendo lo spunto dalle esperienze storiche del protagonista o degli altri attori che compaiono sulla scena, hanno già una loro compiutezza di forma e di significato, per cui possono essere considerati come unità narrative semiautonome. Formano le tessere di un grande mosaico, che, di volta in volta, riportano molte notizie su una grande varietà di tematiche: agricoltura, pastorizia, storia, geografia, antropologia, ambiente, politica internazionale, segmenti di vita in famiglia o nei quartieri militari, scuola, educazione e cultura. Sono schede che descrivono esperienze fatte dal protagonista nel tempo della sua gioventù. Sono elementi che si aggiungono e si fondono nel racconto principale, al cui intreccio contribuiscono con un ampio apporto di idee, immagini, conoscenze ed emozioni.

Pertanto, a partire dalle avventure del protagonista, la trama si amplia e si complica in molte altre tematiche storiche e culturali connesse tra di loro. Parallelamente a quest’evoluzione, si attenua l’autobiografismo e la storia si evolve in altre prospettive, spazia in orizzonti culturali diversi.

Ne deriva un’opera poliedrica che, oltre l’aspetto autobiografico, è anche un romanzo storico e un saggio di antropologia culturale.

Romanzo storico, perché ha una sua collocazione spaziale e temporale ben precisa con i riferimenti a luoghi, figure e a fatti, la cui realtà costituisce un pacchetto di verità storiche inoppugnabili. Elementi, questi, che contestualizzano il racconto alla storia del suo tempo.

Saggio di antropologia perché la platea degli attori coinvolti nella scena si espande a spirale, dal protagonista alla famiglia, alla comunità di appartenenza e alla più vasta collettività sociale, riportando arti e mestieri, usi e costumi, valori, tradizioni e pregiudizi del passato.

Molti dei personaggi che compaiono sulla scena rappresentano simboli concreti di alcune categorie sociali di quel tempo: contadini, pastori, operai, madri di famiglia, insegnanti, militari.

La prima realtà che s’impone all’attenzione del lettore è il piccolo mondo circostante: contadini, pastori e operai, che lavorano duramente per sopravvivere e per darsi una speranza di cambiamento. Poi c’é un mondo giovanile che si dà da fare per apprestarsi un avvenire migliore di quello delle generazioni precedenti. Un altro aspetto è quello che ritrae la condizione della madre di famiglia, addetta, non solo alla procreazione e all’educazione dei figli, ma anche a tutta una serie di umili lavori che porta avanti in silenzio,  in casa e in campagna.

Un altro aspetto cerca di mettere a fuoco i molteplici e non facili problemi della scuola e dei suoi operatori, più o meno validi, più o meno impegnati nelle loro attività educative.

Il protagonista rappresenta un significativo anello della catena generazionale, che vive e opera in quel particolare momento storico, in cui è avvenuto il processo di trasformazione della società negli ultimi settant’anni; cioè in quell’arco di tempo nel quale, si è passati dalla misera, ancorché bucolica vita dei campi e dell’ovile del villaggio natio, alla frenetica vita della moderna civiltà dei consumi, opulenta, efficiente, tecnologica, ma anche anonima, spersonalizzata e  anche spietata.

Le diverse componenti hanno, come comune denominatore, la storia del protagonista. Questa rappresenta lo sviluppo dell’ordito in senso longitudinale, l’asse intorno a cui si raccordano gli altri motivi radiali, il cui intreccio forma il composito tessuto narrativo.

Il villaggio di Anatia è il baricentro della scena, il caput mundi geografico, storico e antropologico, il fulcro della narrazione stessa. Da lì parte e si dipana tutta la storia, le mille storie che poi confluiscono nel racconto principale; lì fa ritorno il lungo e avventuroso viaggio di realizzazione professionale, culturale e umana del protagonista.

In termini di rappresentatività concettuale si può dire che l’opera trasferisce sul piano simbolico, non soltanto le poliedriche sfaccettature delle esperienze di studio e di vita del protagonista, ma coinvolge nella narrazione molti altri aspetti significativi della società civile, delle istituzioni e della cultura del XX secolo. In poche parole si può dire che essa rappresenta la storia di come eravamo, come pensavamo, agivamo e vivevamo in Sardegna e altrove, in un passato non troppo lontano.

 

Alcune questioni di metodo

In generale il romanzo riporta i fatti come sono avvenuti, senza nulla aggiungere o stravolgere la realtà per farla apparire più bella o più interessante di quella che è stata realmente. In questo lavoro non c’è spazio per l’invenzione fiabesca, né per includere elementi sensazionali ad effetto.

La storia narrata costituisce la vera realtà dei fatti, vissuti in prima persona dal protagonista e dagli altri personaggi che compaiono, creano gli eventi e scompaiono in maniera del tutto naturale.

Una realtà umana, fin troppo umana! Una pagina di umile verismo del secolo scorso, forse in contrasto con la globalizzazione comunicativa del rampante ventunesimo secolo!

Tuttavia essa non è una semplice cronaca biografica, storica o antropologica su alcuni personaggi o gruppi umani. Comprende, sì, tutti questi aspetti ma, nello stesso tempo, è qualcosa di diverso e di più significativo. Rappresenta il tentativo di cogliere, sotto la lente narrativa, la realtà dinamica in cui, i fatti e i personaggi, pur essendo stati colti nei tratti dei loro spontanei comportamenti umani, subiscono una misteriosa metamorfosi.

Si tratta della trasfigurazione che essi subiscono dal momento della loro trasposizione dal piano della realtà vissuta e agita nella vita quotidiana a quello della figurazione artistica, perché l’arte ha il magico potere di trasfigurare la realtà per renderla imperitura nel tempo.

Inoltre, in modo indiretto ma chiaro, il libro contiene anche i suoi messaggi pedagogici, protesi ad educare i giovani ad investire bene il tempo che hanno a disposizione, ad amare il lavoro, le sfide positive, le assunzioni di impegni e di responsabilità personali che, immancabilmente, la vita comporta. Insegna ad affrontare i sacrifici, imparare a vivere per imparare a sperare e a sognare. Possibilmente anche a occhi aperti, onde avere le capacità e l’orgoglio di trasformare i sogni in realtà positive per sé e per gli altri! Alcune parole o frasi idiomatiche sono state scritte in sardo, in latino o in altre lingue, ma con accanto la traduzione in italiano. Questa è stata evitata in alcuni casi per non appesantire la prosa, specialmente quando si trattava di frasi brevi o testi semplici, comprensibili anche a intuito. Altre parole o frasi, scritte in sardo e chiuse tra parentesi, hanno valore pleonastico. Esse non sarebbero state neppure necessarie all’economia del discorso, ma sono state riportate per rendere più chiari alcuni concetti e rimarcare la connotazione del racconto made in Sardinia.

La forma espressiva è spontanea e scorrevole; il linguaggio utilizzato è essenziale, chiaro e accessibile a tutti. A questo riguardo è opportuno sottolineare il fatto che, per quanto possibile, si è cercato di utilizzare un linguaggio semplice, conciso ed efficace. E non soltanto per facilitare la lettura e la comprensione materiale del testo, ma anche per agevolare le profonde implicazioni che il linguaggio formale svolge nella dinamica del pensiero di ciascuno di noi.

 

 

 

 

 

 

Perché siamo ancora nella Chiesa?

Posted By Felice Moro on Maggio 2nd, 2013

Premessa

Il saggio che stiamo per analizzare, “Perché sono ancora nella Chiesa?”, è un segmento del libro dal titolo omonimo del Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) pubblicato dalla Casa Editrice Rizzoli nell’anno 2007. Il saggio riprende e sviluppa una relazione che l’allora professore di teologia dogmatica, Joseph Ratzinger, aveva tenuto a Monaco nel 1970 presso l’Accademia Cattolica di Baviera.

Pure a distanza di oltre quarant’anni, a parere dello scrivente il tema trattato riveste un carattere di attualità,  ora non meno di allora. Proprio per questo la “Rizzoli” l’ha pubblicato non più tardi di sei anni fa.

In questa sede affronteremo il lavoro di analisi e d’illustrazione del pensiero dell’Autore, in parte riassumendo i contenuti più o meno liberamente, in parte con citazioni dirette dei passaggi ritenuti più importanti e significativi.

 La situazione nella Chiesa attuale

Riprendendo il titolo della relazione, l’Autore esordisce affermando che oggi e anche domani ci sono e ci saranno molti motivi validi per stare dentro la Chiesa. E al riguardo non devono scoraggiare nessuno se, dalla prospettiva storica, emergono altrettanti motivi di dubbio, che potrebbero giustificare la scelta di starne fuori. Oggi a voltare le spalle alla Chiesa sono in molti, chi per un motivo, chi per un altro. Alcuni l’accusano di essere troppo arretrata, medioevale, ostile alle esigenze della vita moderna nella viziata società del benessere, dei consumi, emancipata, disinibita e laicizzata; altri l’accusano di tradire la sua immagine tradizionale, la sua figura storica, la sua liturgia, cedendo e concedendo troppo spazio alle insistenti pretese di un pervadente quanto vacuo modernismo.

Altri, per rimanere nella Chiesa, adducono motivazioni di segno opposto. Questi sono anzitutto quelli che hanno una fede profonda e stabile nel messaggio salvifico di Gesù e condividono le riforme che l’istituzione compie al suo interno per tenersi aggiornata in maniera corrispondente alle esigenze dei tempi che cambiano continuamente. Altri ancora, pur avendo una fede tiepida, fatta più di doveri, di obblighi e di adempimenti formali che non di convinzioni profonde, non vogliono staccarsi dalla vecchia e cara abitudine di stare dentro la Chiesa e di seguire i suoi cerimoniali liturgici. Con maggiore vigore rimangono attaccati ad essa  proprio quelli che rifiutano la sua essenza storica e contestano il significato che i suoi ministri cercano di darle e di conservarle. Si tratta di persone determinate a non lasciarsi mandar fuori, onde poter agire dall’interno in opere di rinnovamento necessarie, secondo il loro punto di vista.

Cosicché nella Chiesa, tra correnti contrapposte, a momenti si vivono condizioni contrastanti di malessere e di confusione di tipo babilonese. In questa situazione conflittuale nasce la sfiducia anche dentro l’istituzione stessa. Così, in un mondo che  appare tendenziale votato verso l’unità nella  globalizzazione dei rapporti internazionali, nella Chiesa subentra la disgregazione tra i suoi fedeli, divisi in più fazioni tra fautori della modernità e  difensori ad oltranza della tradizione, mentre l’opinione pubblica si divide ed assegna a ciascuno un suo posto. Così ci sono quelli che si schierano con i conservatori e quelli che parteggiano per i progressisti. Questa è la prima impressione di carattere generale, ma, grazie a Dio, al suo interno la realtà è molto diversa, più articolata di quello che può sembrare in apparenza. Tra queste due posizioni estreme, in silenzio e quasi senza voce, ci sono coloro che si impegnano realmente per realizzare la vera missione della Chiesa per la conversione del mondo; e lo fanno secondo il mandato che Gesù stesso, durante la sua predicazione, aveva lasciato agli apostoli e, dopo la sua morte e risurrezione, aveva esplicitamente affidato alla guida di Pietro: prima di tutto la trasmissione del dono della fede, poi il culto, la preghiera e l’accettazione della vita quotidiana concepita come rinuncia al proprio egoismo e vissuta secondo lo spirito del Vangelo, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore.

“La vera Chiesa, dice il Relatore, non è certamente invisibile, ma è profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini”.

Così è stato posto il problema, è stato tracciato lo sfondo del terreno socio-antropologico da cui emerge spontanea la domanda: Perché rimango ancora nella Chiesa?

Per penetrare più in profondità nell’analisi della problematica, l’Autore si pone una serie di domande coordinate tra di loro, quali:

“Come si è potuti arrivare a una situazione di grande confusione di tipo babilonese, mentre ci si aspettava una nova Pentecoste?

Come è possibile che, mentre il Concilio (Vaticano II) sembrava avesse raccolto il frutto maturo del risveglio degli ultimi decenni, invece della ricchezza del compimento, sia emerso un vuoto inquietante?

Come è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità (ut unum sint era il motto latino utilizzato dal Pontefice Giovanni XXIII per invocare l’unità della Chiesa nella fase di inaugurazione del Concilio nel 1962) sia sorta la disgregazione?”

Ad un certo punto la situazione appare assai poco incoraggiante, sia per il teologo Ratzinger, sia per gli altri padri conciliari suoi colleghi. Eppure essi, che per la realizzazione del Concilio si erano spesi tanto con grandi sforzi di mediazione teologica, liturgica e culturale in senso pluralista e di apertura al futuro, si aspettavano ben altri risultati di risveglio della fede e della carità cristiana all’interno e all’esterno dell’istituzione. Invece il livello di incomprensione reciproca è diventato tale da far dire all’Autore:

“Sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. Noi vediamo la realtà con una precisione microscopica talmente esasperata, che ci diventa impossibile percepire il tutto al di là delle parti. E così facendo, il guadagno in esattezza significa perdita in verità”.

E continuando il suo discorso scrive: “La riforma, nel suo significato originario, è un processo molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del fenomeno cristiano; e questo vale, sia per la vita del singolo, sia per tutta la storia della Chiesa. Anch’essa continua a vivere convertendosi continuamente nel Signore, lontana da ogni forma di irrigidimento in se stessa e da ogni altra forma di abitudine che sia contraria alla verità … Se si comprende questa verità, allora si comprende meglio lo sforzo fatto per rendere meno pesanti le strutture ecclesiastiche, ormai irrigidite, per correggere forme del ministero apostolico che derivano dal Medio Evo o, forse, dai tempi dell’assolutismo. Lo scopo del lavoro è quello di liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice, secondo lo spirito del Vangelo”.

Il relatore ammette che le istituzioni ci sono e sono necessarie finché servono al buon funzionamento del servizio ecclesiastico. Egli ammette anche che oggi esse sono esposte a forme di critica spietata mai conosciuta in epoca precedente e che inquadrate nell’ambito dell’ottica del servizio sono sempre necessarie al buon funzionamento del servizio stesso. L’importante è che esse non degenerino, non siano sopravvalutate rispetto all’obiettivo di fondo per cui esistono.  Perciò la battaglia intorno alla Chiesa non deve e non può risolversi come una battaglia delle o tra le sue istituzioni, in modo tale che possa intaccare il problema sostanziale. Il vero nocciolo della questione è ben altro: è la crisi della fede, cui bisogna porre urgente rimedio.

“La fede, scrive l’Autore, è entrata in una fase di fermento anche dentro la Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra difficilmente spiegabile, dove scompaiono i contorni delle cose; l’obiezione posta dalle scienze naturali e dalla concezione cosmologica moderna, non fanno altro che aggravare questo processo. I confini tra interpretazione e negazione diventano sempre più indistinti, sempre più sfumati. Stante questa situazione, diventa logico porsi domande come queste:

Che cosa significa “risuscitato dai morti”?

Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega?

E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione, si perde di vista il volto di Dio. La “ morte di Dio” è un processo del tutto reale che oggi penetra in profondità all’interno della Chiesa. Dio muore nella cristianità o almeno così sembra. C’è poi chi si pone la domanda: ma Egli è veramente risorto?”.

Così si verificano situazioni paradossali, come quelle rappresentate da persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa e tuttavia si considerano, con buona pace della loro coscienza, dei veri cristiani progressisti. Questi giudicano la Chiesa, non in base ai risultati nella sua opera di evangelizzazione e di missione apostolica, ma in base ad altri parametri di valore: la sua efficienza funzionale come istituzione storica, l’aiuto che può dare allo sviluppo sociale o la sua vitalità nella celebrazione dei riti e delle feste. Ma la Chiesa non era stata fondata per fare tutte queste cose e, del resto, nella sua forma attuale, non è neppure adatta a svolgere queste funzioni. E quest’amplificazione di compiti e di deviazione di finalità, non fa altro che accrescere la differenza e aumentare il disagio tra i credenti e i non credenti.

Fortunatamente si può obiettare che questa situazione di malessere non riguarda l’intera comunità ecclesiastica, dei ministri e dei credenti. D’altronde ci sono molti elementi positivi che non possono passare sotto silenzio: la nuova liturgia celebrata nelle lingue locali è stata resa accessibile a tutti, l’attenzione ai problemi sociali, una maggiore e più diffusa comprensione tra i cristiani delle diverse confessioni.

Tutto questo è vero, ma i tratti di ripresa innovativa non contraddistinguono la situazione generale. Anzi talvolta anche questi aspetti vengono trascinati in un terreno di ambiguità che emerge dall’attenuazione dei confini tra gli atteggiamenti fondamentali di chi crede e di chi non crede, tra fede e miscredenza.

A questo punto l’Autore rincara la dose del suo giudizio, tutt’altro che positivo, nei confronti di una parte della chiesa militante che fa il contrario di quello che dovrebbe fare.

Egli scrive al riguardo: “Il Concilio Ecumenico Vaticano I aveva descritto la Chiesa come  ‘signum levatum in nationes,’ cioè come il grande vessillo escatologico issato nel mondo e visibile da lontano, che chiama e unisce tutti gli uomini attorno a sé. Essa indica il cammino in maniera inequivocabile: con la sua prodigiosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità nel bene e la sua incrollabile stabilità; essa rappresenta il miracolo vivente del cristianesimo, la sua costante autenticazione che sostituisce tutti gli altri segni e miracoli della storia. Oggi però sembra vero tutto il contrario: non un’istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini, né dello spirito europeo, né di quello di origine medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica. Chi fa parte di questa storia dovrebbe coprirsi il capo vergognosamente per tanti mali di cui si è reso responsabile: l’accondiscendenza a tutte le correnti della storia, il colonialismo, il nazionalismo esasperato e perfino i tentativi di adattamento al marxismo”.

 

Una metafora sulla natura della Chiesa

Se le cose stanno così, allora la Chiesa, anziché essere il segno di richiamo alla fede, diventa il suo principale impedimento. Se alla Chiesa si devono togliere i suoi predicati teologici, essa può continuare ad esistere, ma soltanto come organismo politico o associativo che raggruppa i credenti per raggiungere altri scopi, non quello della fede, non quello della promessa del regno predicato da Gesù. Ma una Chiesa che, contro la sua natura e contro la sua storia, avesse soltanto una valenza sociale, politica ed etno-antropologica non avrebbe alcun senso.

Di fronte ad una situazione così variegata, sorge spontanea la voglia di fare qualche domanda pertinente:

Ma allora il credente può credere ancora? Ha ancora senso il suo restare nella Chiesa?

La risposta a questa domanda implica tutto un ragionamento articolato e complesso, per il cui sviluppo il relatore si rifà ad una meditazione simbolica dei Padri della Chiesa sull’analogia di funzioni esistente tra il cosmo e la luna,  tra luna e la Chiesa. Nello spazio dell’universo la luna non brilla di luce propria, ma per illuminare le nostre tenebre notturne, riflette la luce del sole sul nostro pianeta. Altrettanto fa la Chiesa che, pur non brillando di luce spirituale propria,  svolge un’analoga funzione satellitare, ricevendo da Dio la luce della grazia che perennemente riflette sull’umanità in cammino. Così la luce del Creatore perverrebbe alle creature attraverso l’arco riflesso di mediazione della Santa Chiesa. Inoltre il relatore aggiunge:

“Il simbolismo lunare e quello terrestre spesso si fondono: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità, non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole. In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce e diventa fertile in forza del seme che riceve dall’uomo.

I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole che il satellite riflette sulla terra. La luna in se stessa è oscurità perché fatta di sassi, sabbia e roccia (e gli astronauti che l’hanno visitata durante le esplorazioni spaziali degli ultimi decenni hanno confermato questa realtà fisica del suolo lunare); ma essa diventa luminosa perché riceve e riflette sul nostro pianeta la luce dell’astro solare. Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa che illumina pur essendo essa stessa buio. Non è luminosa per virtù della propria luce, ma per la luce che riceve dal vero sole che la illumina, Gesù Cristo. Pertanto pur essendo essa oscura terra, sabbia e roccia, è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio.

 

Perché rimango nella Chiesa?

 

Nelle considerazioni fatte finora nell’ambito della discussione precedente è già contenuta la risposta, o meglio, l’insieme delle risposte del relatore a quest’impegnativa domanda.

“Sono nella Chiesa, egli dichiara, perché credo che, ora come prima e, a prescindere da noi, dietro la nostra Chiesa, viva la Sua Chiesa e io posso stare vicino a Lui soltanto rimanendo nella Sua Chiesa.

Sono nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che nel profondo essa non sia nostra, bensì proprio e soltanto Sua”.

Dopo queste prime affermazioni lapidarie di deciso assenso alla Chiesa, l’Autore sviluppa il suo pensiero ampio, profondo, grondante di fede e di carità missionaria. Egli scrive al riguardo:

“Malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie ad essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora.

E, per dare maggior peso alla  sua scelta, riporta un’affermazione del suo maestro e collega universitario Henri de Lubac : “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo? Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti, non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’influenza del Vangelo e della fede nella sua divina persona? …

E che cosa sarebbe l’umanità senza Cristo?”.

E Ratzinger aggiunge: “Per quanto ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa. E’ attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore, come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali, il mondo non sarebbe più concepibile. Chi vuole la presenza di Gesù nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa ….”.

Dopo alcune riflessioni, Ratzinger aggiunge: “Io sono e rimango nella Chiesa per gli stessi motivi per cui sono cristiano perché non si può credere da soli. Si può credere e avere fede in comunione con gli altri. La fede è la forza mistica che unisce le creature. Il suo modello archetipo è l’evento della Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo che, sotto forma di fiammelle, andò a posarsi sulle teste sugli Apostoli”.

Tutti leggiamo nel testo lucano “Atti degli Apostoli” la storia di quest’evento straordinario. E stato questo portentoso miracolo che ha trasformato quello sparuto gruppetto di poveri pescatori di Galilea nei primi missionari e martiri della storia della Chiesa, che hanno inseminato la fede cristiana nel mondo. Essi, partendo dalla Palestina, irradiarono il messaggio evangelico in tutto il mondo antico: in  Grecia, in Asia Minore, in Oriente, in Occidente, a Roma. Essi furono i pionieri della prima faticosa opera di evangelizzazione delle genti, creando le prime comunità cristiane e fondando le prime chiese, delle quali apprendiamo la storia e la fede dalle lettere di San Paolo. Dopo la Pentecoste, i discorsi di Pietro e degli altri Apostoli fatti in lingua aramaica (che era la lingua parlata da Gesù nella sua missione pubblica) venivano intesi  e capiti nelle loro lingue di origine dai neocatecumeni radunati a Gerusalemme o nelle comunità dei nuovi adepti. E tutti i presenti, stupiti, dicevano:

“Tutti costoro che parlano, non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti di Mesopotamia, di Giudea e di Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e della Libia, Romani residenti in Palestina, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nella nostra lingua delle grandi opere di Dio?” (At 2, 1-11).

Il relatore ribadisce: “Non è possibile credere da soli. La fede, o è un fenomeno ecclesiale vissuto in condivisione con gli altri, o non ha senso”.

Al riguardo noi ci permettiamo di aggiungere alcune considerazioni da profani nel campo della teologia. A nostro avviso il discorso del Papa teologo trova un rinforzo in un passaggio del Vangelo di Matteo, quando Gesù afferma: “Dove si ritrovano due o tre riuniti nel mio nome, io sono là in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Ma in un altro punto dello stesso testo evangelico troviamo quest’altra esortazione di Gesù sulle modalità della preghiera, quando Egli dice: “Tu quando vuoi pregare, entra nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è là nel segreto. E il Padre tuo, che vede anche ciò che è nascosto, te ne darà la ricompensa” (Mt 6, 5).

A primo acchito le due esortazioni appaiono in contrasto tra di loro, per cui, il senso dell’una escluderebbe il significato dell’altra. Comunque pensiamo che si tratti di un’aporia facilmente superabile distinguendo i due piani del culto: il primo riguarda  il concetto generale della fede, di portata universale ed ecumenica, che dev’essere portato avanti in un cammino di fede condivisa con gli altri, come possono essere i momenti della liturgia e delle altre cerimonie del culto pubblico; il secondo riguarda la dimensione della riflessione, del raccoglimento e della preghiera personale. A nostro avviso, l’uno non esclude l’altro, anzi lo integra e lo completa come momento di comunione, di trasparenza e di riflesso della creatura nel suo Creatore.

Il nostro relatore continua il suo discorso serrato: “Ma si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto ad essa. E poniamoci in piena obiettività una domanda che può apparire patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli, che conosca gli uomini ed Egli stesso possa essere conosciuto da loro?  ….

Per quanto anche il cristianesimo abbia sbagliato più volte i suoi interventi nel corso della sua storia, i criteri di giustizia e di amore sono tuttavia arrivati fino a noi, persino contro la loro volontà, spesso contro la Chiesa stessa , dal messaggio depositato e nascostamente custodito in essa.

Rimango nella Chiesa perché considero la fede realizzabile solo in essa e mai contro di essa: E’ una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio, non c’è nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo. E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo ….

E ancora, esprimendo lo stesso concetto da un altro punto di vista, dice: “Rimango nella Chiesa perché soltanto la fede nella Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione tradizionale e dogmatica, ma nel nostro mondo di costrizioni e di frustrazioni, il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale”.

Anche gli sforzi degli psicoanalisti, come Freud e Jung, non sono altro che tentativi di redimere gli irredenti. Non solo, ma anche filosofi e sociologi, come Marcuse, Adorno, Habermas e Marx, a modo loro, sono alla ricerca di redenzione per l’umanità frustrata e sofferente. Essi aspirano alla ricerca di una felice condizione umana, senza sofferenze, senza malattie o povertà. Coltivano l’ideale a vivere in un mondo libero dalla tirannia, dalle sofferenze, dall’ingiustizia combattendo con strumenti delle idee: filosofici, sociologici, giuridici e sindacali. L’idea che si possa realizzare tutto e subito, che si possa creare un mondo senza dolore e senza patimenti attraverso le riforme sociali o l’abolizione delle istituzioni esistenti, è soltanto un’eresia, una chimera di alcune frange sociali più radicali schierate su posizioni unilaterali. Soltanto coloro che non conoscono a fondo la natura umana possono nutrire quest’illusione. Ma la lotta radicale contro tutti questi mali dell’uomo e della società parte da un impulso assolutamente cristiano.

Secondo il relatore l’uomo può meglio ritrovare se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità, soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide dell’egoismo.

Egli sostiene che una delle cause della crisi della nostra epoca dipende dalla pretesa di diventare persona senza avere conseguito il dominio di se stessi, la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento di ogni forma di egocentrismo, incominciando col sacrificio necessario per adempiere puntualmente agli impegni presi, con la commisurazione continua della tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è realmente.

Un uomo che venga privato della fatica di crescere, degli sforzi necessari per il suo adattamento alle esigenze della vita nella società, per la propria realizzazione come persona umana e che venga condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni, perde il senso della vita e se stesso, smarrisce la sua vera natura. In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che, insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. La speranza che dà la fede cristiana, in ultima istanza, dipende dal fatto essa dice la verità. La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere.

 

L’amore è la vera forza che redime

 

Scrive Ratzinger: “Un uomo vede sempre soltanto nella stessa misura in cui ama. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi non s’inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi. Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nei lati oscuri della Chiesa, ma presto scopre che essa non è soltanto questi. Ciò perché accanto alla storia degli scandali, c’è anche quella forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per la difesa degli Indios, Vincenzo de’ Paoli, Giovanni XXIII.

Anche l’arte, che nata sotto l’impulso del suo messaggio, diventa testimonianza di verità. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità, tutto questo non è un’insignificante casualità …”.

E ancora continua: “Se si tengono gli occhi aperti, anche oggi è possibile incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana. E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci l’esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede.

Una domanda che sorge spontanea in chi crede: scusate, ma il cristianesimo non rende gli uomini più umani legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto oggettivo, di cui non dobbiamo mai vergognarci di fronte a nessuno?

Se poi guardiamo alla storia della Chiesa più recente, vediamo che nel corso del secolo appena passato ci sono stati dei cambiamenti importanti: un forte movimento di riforma che ha portato al rinnovamento della teologia e della liturgia, che, complessivamente sta dando risultati generali positivi. E se questi cambiamenti ci sono stati, è stato grazie al fatto che ci furono alla sua guida uomini capaci che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito critico e pronti a soffrire per essa.

Il relatore conclude la sua analisi sostenendo che: “Rimanere in una Chiesa fatta dall’uomo a sua misura non ha senso, sarebbe una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo; perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che dev’essere veramente: questo è il cammino che oggi viene indicato dalla responsabilità della fede!